La responsabilità è degli amministratori di fatto della holding, non della società di fatto tra essi costituita

Il decisum in commento affronta l’istituto dell’amministratore di fatto. Nello specifico si tratta di stabilire se il credito risarcitorio per fatti addebitabili a tre fratelli, quali, appunto, amministratori di fatto di una s.r.l., sia ammesso anche al passivo della società di fatto tra essi costituita.

E, i giudici della Prima Sezione Civile di piazza Cavour, con la sentenza n. 12979 depositata il 23 giugno 2015, richiamano in primis un principio di recente ribadito nella pronuncia Cass., 2952/15, secondo il quale deve escludersi che la fattispecie di responsabilità introdotta dalla riforma con l’art. 2497 c.c. abbia eliminato la possibilità di affermare l’esistenza della figura dell’amministratore di fatto e della relativa responsabilità. Al contrario non è dato ravvisare, in astratto, incompatibilità di situazioni tra la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, e l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso da parte degli holders . Quest’ultima corrisponde, infatti, ad una situazione di fatto nella quale le funzioni di amministrazione sono svolte direttamente – non diversamente dagli amministratori di diritto – da un soggetto in assenza di una qualsivoglia investitura la prima corrisponde invece ad una situazione di diritto nella quale ad una società controllante è consentita la direzione di società controllate rispettando l’autonomia delle società che vengono dirette, e quindi senza ingerirsi direttamente nella loro gestione bensì impartendo direttive che gli amministratori applicheranno autonomamente. Non può dunque escludersi che il soggetto cui sono attribuiti poteri di direzione in quanto amministratore di una holding , possa esercitare di fatto poteri di amministrazione e, disattendendo l’autonomia della società controllata con il ridurne gli amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, comportarsi come se ne fosse l’amministratore in tal caso, una situazione di fatto viene a sostituire il diverso assetto prefigurato dalle norme giuridiche ed il gruppo viene a ridursi ad un mero simulacro formale. Tuttavia – chiariscono i supremi giudici – alla responsabilità dei predetti fratelli, ex art. 146, l. fall., in quanto amministratori di fatto di una s.r.l., non consegue una responsabilità della società di fatto tra essi costituita, non trattandosi di attività posta in essere quali amministratori della holding , ma di una attività che si pone anzi al di fuori delle regole che disciplinano i gruppi di società. Il fatto. Con sentenza del gennaio 2007 il Tribunale di Napoli dichiarava il fallimento di una società di fatto con funzioni di holding di un gruppo di società riconducibili ai fratelli Mevi, dei quali dichiarava anche il fallimento in proprio. In sede di verifica del passivo, la curatela della Beta s.r.l., società di costruzioni edili facente parte del predetto gruppo, chiedeva l’ammissione in via chirografaria e su tutte le masse, di crediti a titolo di risarcimento danni per una pluralità di causae petendi , individuate da un lato nell’azione di responsabilità, ex art. 146, l. fall., nei confronti dei suddetti tre fratelli, quali amministratori di fatto della Beta s.r.l., dall’altro nell’azione risarcitoria per abuso di direzione unitaria spettante ai creditori sociali di quest’ultima a norma dell’art. 2967 c.c Rigettata l’istanza da parte del giudice delegato la curatela della Beta s.r.l. proponeva opposizione, cui resisteva il curatore dei fallimenti della società di fatto e dei succitati fratelli, insistendo nell’infondatezza dell’azione, ex art. 146, l. fall., nei confronti dei fratelli ed invece nell’accoglibilità della domanda, ex art. 2497, c.c., nei confronti della società di fatto tra essi intercorrente. Con decreto depositato nel giugno del 2008 il Tribunale di Napoli, in parziale accoglimento dell’opposizione, ammetteva il credito di cui all’istanza in via chirografaria e su tutte le masse, corrispondente al danno prodotto al patrimonio della Beta s.r.l. con la vendita a terzi nel dicembre del 1999, ad un prezzo pari alla metà del valore prudenziale dei beni ceduti, di un complesso immobiliare costituente il residuo patrimonio immobiliare della società. In particolare, osservava il Tribunale che di tale danno dovevano rispondere direttamente i fratelli citati, quali soci della società di fatto tra loro intercorrente, per la loro ingerenza diretta e pervasiva nella gestione della Beta s.r.l Avverso quest’ultimo provvedimento il curatore dei fallimenti della società di fatto e dei germani proponeva ricorso per cassazione facendo valere otto distinti motivi di censura. E gli Ermellini, in primis , ribadiscono la correttezza del convincimento del Tribunale laddove aveva ritenuto un’ingerenza diretta dei fratelli Mevi nella gestione della Beta s.r.l., desumendola dalla natura solo formale della carica rivestita dall’amministratore di diritto e trovandone conferma tra l’altro nel riconoscimento del ruolo da essi svolto di unico, reale centro di potere decisionale, sia pure al riparo da una formale investitura amministrativa. Tuttavia – osservano i giudici della Suprema Corte – alla responsabilità dei fratelli Mevi, ex art. 146, l. fall., in quanto amministratori di fatto della Beta s.r.l., non consegue una responsabilità della società di fatto tra essi costituita, non trattandosi di attività posta in essere quali amministratori della holding , ma di una attività che si pone al di fuori delle regole che disciplinano i gruppi di società. Pertanto, ferma restando l’ammissione del credito risarcitorio al passivo dei fallimenti personali dei medesimi fratelli Mevi, la Suprema Corte, decidendo nel merito, rigetta la domanda del fallimento della Beta s.r.l. di ammissione al passivo della società di fatto. La nozione di amministratore di fatto . In linea astratta, la delimitazione della nozione di amministratore di fatto può essere operata attraverso due approcci distinti il primo, di carattere sostanziale, consiste nell’individuazione degli elementi materiali della fattispecie in presenza dei quali l’ingerenza nella gestione sociale assurge al rango di un rapporto amministrativo e può far sorgere gli obblighi e le responsabilità ad esso conseguenti il secondo, viceversa, è costituito dall’identificazione dei requisiti minimi che consentono di dare una legittimazione formale all’assunzione irregolare della carica direttiva. La giurisprudenza si è posta da tempo su un piano sostanzialistico in tema di responsabilità penale dell’amministratore di fatto. Sul fronte della responsabilità civile, è invece rimasta ancorata per lungo tempo ad una concezione più restrittiva dell’istituto richiedendo che vi fosse stata una qualche investitura sia pur irregolare o implicita. Pertanto, l’amministratore di fatto ricorre nella fattispecie nelle quali un soggetto non formalmente investito della carica si ingerisce egualmente nell’amministrazione, esercitando di fatto i poteri propri inerenti alla gestione della società. Il medesimo è spesso il dominus della società, che ha ufficialmente incaricato dell’amministrazione persone prive di un patrimonio adeguato a far fronte alle responsabilità che possono eventualmente insorgere. E, nel caso che qui ci occupa, i giudici della Suprema Corte, ribadendo quanto già affermato di recente nella pronuncia Cass., 2952/15, precisano che il compimento di atti di gestione, quale la dismissione del cospicuo patrimonio immobiliare residuo della società de qua , di notevole consistenza economica ed effetti sul patrimonio della società stessa, è da solo sufficiente ad integrare gli estremi di una amministrazione di fatto. Il carattere sistematico delle funzioni gestorie svolte in via di fatto. Invero, in alcune decisioni della Suprema Corte ex coeteris, Cass., 28819/08 si afferma che la configurabilità di una amministrazione di fatto presuppone che le funzioni gestorie svolte abbiano carattere sistematico e non si esauriscano nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea ed occasionale. Ma il requisito della sistematicità è richiesto per desumerne l’inserimento nella gestione quando i singoli atti non sono, sotto tale profilo, da soli sufficientemente significativi e ciò non può dirsi nel caso di compimento, in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, di atti di assoluta rilevanza per la vita dell’impresa, i quali pertanto non possono avere natura estemporanea ed accidentale ma possono giustificarsi soltanto in virtù di un effettivo inserimento nella gestione. La responsabilità della holding per eterodirezione abusiva. La capogruppo, partecipando alla gestione della società dominante, può incorrere in una responsabilità da inadempimento degli obblighi legali inerenti alla funzione esercitata. L’art. 2497, comma 1, c.c., costituisce, perciò, l’emersione a livello normativo del principio secondo il quale gli obblighi che disciplinano il corretto svolgimento della gestione della società si applicano indipendentemente dalla qualifica formale e dalla posizione di chi pone in essere l’attività di gestione, ed indipendentemente dalle forme e dalle modalità in cui tale gestione si esplica. Vero è che la responsabilità della holding per eterodirezione abusiva presenta dei profili di specialità rispetto alla responsabilità degli amministratori di fatto delle società autonome. Tuttavia, il carattere speciale della responsabilità della holding concerne la disciplina, non il fondamento, posto che la predetta disposizione recepisce il criterio funzionale di imputazione della responsabilità gestoria secondo il quale l’esercizio effettivo del potere di gestire comporta di per sé e in ogni caso, a prescindere dall’esistenza di un’investitura negoziale, l’obbligo di farlo correttamente, assoggettato alle regole della responsabilità contrattuale. Sul punto, l’odierno giudice di legittimità precisa, tuttavia, come debba escludersi che la fattispecie di responsabilità introdotta dalla riforma del 2003 con il succitato art. 2947 abbia eliminato la possibilità di affermare l’esistenza della figura dell’amministratore di fatto e della relativa responsabilità. Al contrario non è dato ravvisare, in astratto, incompatibilità di situazioni tra la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, e l’amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso da parte degli holders . E, concludendo, alla responsabilità di tre fratelli in quanto amministratori di fatto di una s.r.l., non consegue una responsabilità della società di fatto tra essi costituita, non trattandosi di attività posta in essere quali amministratori della holding , ma di una attività che si pone al di fuori delle regole che disciplinano i gruppi di società.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 18 febbraio – 23 giugno 2015, n. 12979 Presidente Ceccherini – Relatore Scaldaferri Svolgimento del processo Con sentenza del 31 gennaio 2007, il Tribunale di Napoli dichiarava il fallimento della società di fatto con funzioni di holding di un gruppo di società riconducibili indipendentemente dalla titolarità formale delle quote di partecipazione ai soci M.S. , St. e F. , dei quali dichiarava anche il fallimento in proprio. In sede di verifica del passivo, il curatore del fallimento della FRATE-MA s.r.l., società di costruzioni edili facente parte di quel gruppo, chiedeva l'ammissione, in via chirografaria e su tutte le masse, di crediti a titolo di risarcimento danni da liquidare in misura pari al passivo del fallimento di tale società in assenza di attivo , al minor introito per la svendita del suo patrimonio immobiliare e ad una parte 10% circa del prezzo ricavatone, oggetto di distrazione in favore degli stessi fratelli M. per una pluralità di causae petendi , individuate da un lato nella azione di responsabilità ex articolo 146 l.fall. nei confronti dei fratelli M. quali amministratori di fatto della FRATE-MA, dall'altro nella azione risarcitoria per abuso di direzione unitaria spettante ai creditori sociali di quest'ultima a norma dell'articolo 2497 cod.civ., dall'altro ancora quanto alla distrazione di somme di pertinenza della società stessa nella azione per ripetizione di indebito o per arricchimento senza causa. Rigettata l'istanza dal giudice delegato per carenza di prova degli elementi dedotti a fondamento del diritto azionato, il Curatore del fallimento della FRATE-MA s.r.l. proponeva opposizione, cui resisteva il curatore dei fallimenti della società di fatto e dei fratelli M. , insistendo in particolare nella infondatezza della azione ex articolo 146 l.fall. nei confronti dei fratelli M. ed invece nella accoglibilità della domanda ex articolo 2497 cod.civ. nei confronti della società di fatto tra essi intercorrente, nei limiti della differenza tra attivo e passivo del fallimento della FRATE-MA che risultasse provata. Con decreto depositato il 4 giugno 2008 il Tribunale di Napoli, in parziale accoglimento dell'opposizione, ammetteva il credito di cui alla istanza, in via chirografaria e su tutte le masse, per l'importo di Euro 2.272.410,36 oltre rivalutazione monetaria sino alla sentenza di fallimento ed interessi legali sugli importi annualmente rivalutati , corrispondente al danno prodotto al patrimonio della FRATE-MA comprensivo della somma di lire 400 milioni distratta con la vendita a terzi nel dicembre 1999, ad un prezzo pari alla metà del valore prudenziale dei beni ceduti, di un complesso immobiliare denominato Melito 2 costituente unitamente ad altro complesso immobiliare ceduto con altro atto il residuo patrimonio immobiliare della società. Osservava, per quanto qui rileva, il Tribunale a che di tale danno esclusa quindi l'adozione del criterio liquidatorio basato sulla differenza tra attivo e passivo del fallimento della FRATE-MA dovevano rispondere direttamente i fratelli M. , quali soci della società di fatto tra essi intercorrente, per la loro ingerenza diretta e pervasiva nella gestione della Frate-ma, solo formalmente amministrata da altri, dovendo ritenersi tale fattispecie di svolgimento di fatto delle funzioni decisorie e gestorie della società stessa assorbente rispetto alla mera attività di eterodirezione e coordinamento, diffusa lungo l'intero perimetro del gruppo facente capo alla holding di fatto, riconosciuta dalla stessa curatela opposta e riscontrata nella sentenza dichiarativa dei fallimenti della società di fatto e dei suoi soci b che il ruolo solo formale, alla stregua di quello di un mero prestanome, svolto dall'amministratore poi liquidatore di diritto della FRATE-MA si evinceva non solo dalla attività di parrucchiere e barbiere da lui esercitata a titolo individuale sino al 31.12.1993 un anno e mezzo dopo l'assunzione della carica , profilo questo assai poco compatibile in assenza di altri elementi idonei a comprovare la sua capacità professionale – con l'esercizio della funzione in società operante nello specifico e complesso settore delle costruzioni edilizie, ma anche dalla sua incapacità di fornire alcuna indicazione sulle vicende della società in occasione dell'interrogatorio reso al curatore c che, alla luce di tali elementi, la condotta dei fratelli M. doveva essere valutata nel contesto particolare nel quale la società aveva svolto la sua attività, soprattutto con riferimento al tormentato rapporto con il ceto bancario, con una lunga trattativa coltivata e gestita direttamente dai predetti come da essi stessi ammesso in una istanza al giudice delegato al fallimento di una società del gruppo sfociata in un accordo nell'aprile/giugno 1999, coinvolgente anche la FRATE-MA, per la risistemazione dell'intera esposizione debitoria del gruppo M. e dei fratelli M. stessi con il sistema bancario attraverso la liquidazione concordata delle attività patrimoniali delle società del gruppo d che dunque, in tale contesto, doveva ritenersi che le vendite con le quali la FRATE-MA aveva dismesso il suo residuo patrimonio immobiliare fossero state concepite e decise dai fratelli M. , i quali costituivano l'unico, reale, centro di potere decisionale esercitato sia pure al riparo da una formale investitura di natura amministrativa. Avverso tale provvedimento il curatore dei fallimenti della società di fatto e dei fratelli M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a otto motivi, cui resiste con controricorso il curatore del fallimento della FRATE-MA s.r.l. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia la violazione degli articolo 2392, 2394-bis, 2476 e 2497 cod.civ. nonché dell'articolo 146 l.fall., lamentando che il Tribunale, pur non avendo omesso di rilevare che l'esercizio di una influenza dominante o l'accentramento delle funzioni gestorie delle società controllate presso gli organi della holding costituisce, di per sé, fenomeno di problematico distinguo rispetto alla diretta gestione di fatto della società , ha poi ritenuto che ricorresse la fattispecie di creazione giurisprudenziale dell'amministratore di fatto senza verificare l'incidenza su di essa della riforma del diritto societario del 2003, e in particolare della tipizzazione di forme di eterodirezione, e senza considerare che nel caso in esame ai fratelli M. non erano attribuibili atti sistematici e reiterati di amministrazione bensì solo condotte sintomatiche dello svolgimento di una attività di direzione e coordinamento di una società del gruppo controllato dalla società di fatto da essi costituita. Il motivo è privo di fondamento. In primo luogo, questa Corte ha già avuto modo recentemente di affermare cfr. Sez. 1 n. 2952/15, relativa ad altra società del medesimo gruppo come debba escludersi che la fattispecie di responsabilità introdotta dalla riforma con l'articolo 2497 cod.civ. abbia eliminato la possibilità di affermare l'esistenza della figura dell'amministratore di fatto e della relativa responsabilità. Al contrario non è dato ravvisare, in astratto, incompatibilità di situazioni tra la formale esistenza di un gruppo, con conseguente assetto giuridico predisposto per una direzione unitaria, e l'amministrazione di fatto di singole società del gruppo stesso da parte degli holders . Quest'ultima corrisponde infatti ad una situazione di fatto nella quale le funzioni di amministrazione sono svolte direttamente non diversamente dagli amministratori di diritto da un soggetto in assenza di una qualsivoglia investitura la prima corrisponde invece ad una situazione di diritto nella quale ad una società controllante è consentita la direzione di società controllate rispettando l'autonomia delle società che vengono dirette, e quindi senza ingerirsi direttamente nella loro gestione bensì impartendo direttive che gli amministratori applicheranno autonomamente. Non può dunque escludersi che il soggetto cui sono attribuiti poteri di direzione in quanto amministratore di una holding nel caso in esame in quanto socio di una società di fatto che svolge funzioni di holding , possa esercitare di fatto poteri di amministrazione e, disattendendo l'autonomia della società controllata con il ridurne gli amministratori a meri esecutori dei suoi ordini, comportarsi come se ne fosse l'amministratore in tal caso, una situazione di fatto viene a sostituire il diverso assetto prefigurato dalle norme giuridiche ed il gruppo viene a ridursi ad un mero simulacro formale. È su questo ordine di concetti che il Tribunale ha fondato il suo convincimento, laddove ha ritenuto la sussistenza di una ingerenza diretta pag. 10 decreto dei fratelli M. nella gestione della Frate-ma, desumendola dalla natura solo formale della carica rivestita dall'amministratore di diritto e trovandone conferma tra l'altro nel riconoscimento che il giudice di merito ha tratto dall'interpretazione di un documento proveniente dai predetti germani del ruolo da essi svolto di unico, reale centro di potere decisionale, sia pure al riparo da una formale investitura amministrativa. In tal senso, neppure può affermarsi senza procedere ad una inammissibile rivalutazione degli elementi considerati dal giudice di merito che il Tribunale abbia desunto tale ingerenza dal compimento di atti di natura eterogenea ed occasionale, avendo invece fatto espresso riferimento, tra l'altro, al suddetto ruolo svolto dai fratelli M. nel peculiare rapporto con il ceto bancario, culminato nell'accordo dell'aprile/giugno 1999, di cui i due atti di vendita generatori del danno qui in discussione costituirono attuazione. 2. Deriva dalle considerazioni che precedono l'infondatezza anche del secondo motivo, con il quale si denuncia la violazione oltre che dell'articolo 112 cod.proc.civ., meramente enunciata in rubrica ma non giustificata nella illustrazione dell'articolo 2909 cod.civ., cioè del giudicato costituito dalla sentenza che ha dichiarato il fallimento della holding di fatto costituita dai fratelli M. per la direzione ed il coordinamento di un gruppo di imprese tra le quali la Frate-ma s.r.l. sentenza nella quale tutta l'attività svolta dai fratelli M. era stata presa in considerazione come espressione della attività di a direzione e coordinamento. L'infondatezza della doglianza deriva dalla erroneità della premessa dalla quale muove, che cioè l'accertamento dell'esistenza di una holding di fatto, con funzioni di direzione e coordinamento di imprese, sia in contrasto con la responsabilità dei fratelli M. quali amministratori di fatto di talune imprese del gruppo stesso. Contrasto che, come si è detto sopra, non è ravvisabile, si che legittimamente il decreto impugnato ha, senza negare l'esistenza della eterodirezione, accertato come i fratelli M. non si fossero limitati a comunicare delle direttive all'amministratore formale della Frate-ma, ma fossero intervenuti direttamente nei rapporti con le banche ed avessero deciso essi stessi le vendite contestate. 3. Con il terzo motivo si denuncia la falsa applicazione delle norme di diritto che, secondo la giurisprudenza, disciplinano l'amministrazione di fatto articolo 2392, 2393, 2394, 146 l.fall. , lamentando che erroneamente il Tribunale avrebbe attribuito ai fratelli M. la qualifica di amministratori di fatto della Frate-ma sulla base di atti che non attengono alla gestione della anzidetta società, e comunque sulla base di un solo episodio la conduzione della trattativa con le banche per la sistemazione della esposizione debitoria che non consentirebbe di affermare il sistematico esercizio delle funzioni di amministrazione da parte dei fratelli M. . 3.1. La denuncia della mancanza di prova di una reiterata e sistematica ingerenza dei predetti nella amministrazione della Frate-ma costituisce oggetto anche del quarto motivo, sotto il profilo della violazione dell'articolo 2697 cod.civ. e sotto quello del vizio di motivazione. Mentre con il quinto motivo si deduce sempre sotto i profili della violazione dell'articolo 2697 e del vizio di motivazione la mancanza di prova della imputabilità ai fratelli M. dei due atti di vendita, uno dei quali generatore del danno di cui essi sono stati ritenuti responsabili. 3.2. I tre motivi, esaminabili congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono in parte inammissibili, in parte infondati. Inammissibili laddove il ricorrente, attraverso la denuncia della violazione delle regole sulla attribuzione dell'onere della prova che evidentemente non disciplinano la valutazione della prova offerta o della insufficienza e illogicità della motivazione, propone in effetti delle censure di merito criticando la valutazione del fatto e chiedendone un riesame non consentito in questa sede. Ciò vale, in particolare, per le censure esposte in ricorso circa la affermazione, contenuta nel decreto impugnato, secondo cui i due atti di vendita del residuo patrimonio immobiliare della Frate-ma la cui natura di atti di gestione della società non pare invero dubitabile vennero concepiti e decisi dai fratelli M. . Affermazione che il Tribunale ha espresso all'esito di un percorso argomentativo avente ad oggetto tanto il ruolo svolto dai predetti nei rapporti con le banche e nella trattativa sfociata nell'accordo di sistemazione del debito di cui le vendite costituirono attuazione, quanto il ruolo di mero prestanome attribuibile all'amministratore di diritto, svolgente l'attività di barbiere e dimostratosi all'oscuro dei fatti gestori della società che appare congruo e privo di vizi logici. D'altra parte, prive di fondamento sono le considerazioni esposte dal ricorrente circa la mancata dimostrazione di una reiterata e sistematica ingerenza nella amministrazione della Frate-ma da parte dei fratelli M. . Ritiene invero il Collegio ribadendo quanto già affermato nella richiamata sentenza di questa Corte n. 2952/15 che il compimento di atti di gestione, quale la dismissione del cospicuo patrimonio immobiliare residuo della società in questione, di notevole consistenza economica circa 9 miliardi di lire di valore prudenziale ed effetti sul patrimonio della società stessa, è da solo sufficiente ad integrare gli estremi di una amministrazione di fatto. Vero è che in talune decisioni di questa Corte cfr. n. 28819/08 n. 9795/99 si afferma che la configurabilità di una amministrazione di fatto presuppone che le funzioni gestorie svolte abbiano carattere sistematico e non si esauriscano nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea ed occasionale. Ma il requisito della sistematicità è richiesto per desumerne l'inserimento nella gestione quando i singoli atti non sono, sotto tale profilo, da soli sufficientemente significativi e ciò non può dirsi nel caso di compimento, in assenza di una qualsivoglia investitura da parte della società, di atti di assoluta rilevanza per la vita dell'impresa, i quali pertanto non possono avere natura estemporanea ed accidentale ma possono giustificarsi soltanto in virtù di un effettivo inserimento nella gestione. 4. Con il sesto motivo viene censurata, sotto il profilo della violazione dell'articolo 2697 cod.civ. e sotto quello del vizio di motivazione, la individuazione e quantificazione dei danni derivanti dalla operazione di vendita del complesso . Lamenta che il Tribunale, affermando che il valore prudenziale dei beni venduti allegato dalla Curatela opponente non era stato contestato dalla Curatela opposta e trovava conferma almeno in parte in una perizia, prodotta in giudizio, eseguita da un tecnico incaricato dall'Istituto mutuante, avrebbe, da un lato, erroneamente accertato la non contestazione, dall'altro illegittimamente utilizzato quale prova quella perizia, redatta al di fuori del processo. In tal modo ponendo in essere al contempo una violazione delle regole di cui all'articolo 2697 cod.civ. ed una motivazione insufficiente e contraddittoria. Tuttavia, quanto alla violazione delle regole sull'onere della prova poste dall'articolo 2697 cod.civ., si è già detto che tale violazione si configura soltanto quando il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche nell'ipotesi prospettata nel motivo in cui il giudice, a seguito di una incongrua valutazione delle risultanze istruttorie, abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull'esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all'articolo 360 n. 5 cod. proc. civ. cfr. ex multis Cass. Sez. 3 n. 15107/13 n. 19064/06 . Neppure sotto tale profilo, d'altra parte, il motivo coglie nel segno, atteso che la critica alla motivazione è diretta, da un lato, a sostenere inammissibilmente la erroneità della valutazione che è riservata al giudice di merito delle difese della Curatela opposta trascritte nel decreto impugnato in termini di non contestazione, dall'altro ad affermare infondatamente l'inutilizzabilità come prova di una perizia stragiudiziale prodotta in atti. Affermazione che si pone invero in contrasto con il principio del libero convincimento del giudice che caratterizza il vigente ordinamento processuale che ammette la possibilità di porre a fondamento della decisione prove non espressamente previste dal codice di rito cfr. ex multis Cass. n. 12763/00 n. 5965/04 n. 5440/10 , tanto più che nella specie il Tribunale ha dato conto oltre che della mancanza di contestazione specifica da parte del resistente del dato di riscontro costituito dal prezzo di rivendita a terzi ben maggiore della valutazione prudenziale considerata realizzato dalla società acquirente. 5. Con il settimo motivo si torna a censurare, sotto il profilo della violazione dell'articolo 2697 cod.civ. e sotto quello del vizio di motivazione, la quantificazione del danno con particolare riferimento alla inclusione in esso della somma di lire 400.000.000 che il Tribunale ha ritenuto distratta dai M. a proprio favore avendo l'Istituto mutuante, che aveva proceduto a pignoramento del complesso immobiliare, ricevuto non l'intero prezzo di vendita lire 4.000.000.000 bensì il minor importo di lire 3.600.000.000. Lamenta il ricorrente che tale convincimento sarebbe privo di motivazione, e smentito per tabulas giacché dall'atto di vendita, prodotto in atti, risulta che il prezzo è stato pagato dalla acquirente mediante una serie di titoli di varie genere e importo non trasferibili all'ordine dell'Istituto mutuante. Osserva tuttavia il Collegio come esclusa per quanto detto la fondatezza della denuncia di violazione dell'articolo 2697 cod.civ. la censura di omessa motivazione risulti smentita dall'esame del decreto, che ha puntualmente rilevato come la mancata ricezione da parte dell'Istituto mutuante della parte di prezzo ricavato dalla vendita corrispondente all'importo di lire 400.000.000 fosse stata specificamente allegata in giudizio dalla Curatela opponente in termini di distrazione a profitto personale dei M. . Allegazione, questa, la cui tempestiva contestazione, in sede di merito, l'odierno ricorrente non ha neppure genericamente dedotto nella illustrazione del motivo, essendosi limitato a dedurre la esistenza di una prova scritta contraria. Che peraltro non appare idonea a condurre a conclusioni diverse da quelle esposte nel provvedimento impugnato, dal momento che l'atto di vendita nulla dice sulle somme effettivamente ricevute dalla banca mutuante ad estinzione del suo credito verso la Frate-ma s.r.l 6. Con l'ottavo motivo si denuncia la violazione dell'articolo 99 ultimo comma l.fall., dell'articolo 81 cod.proc.civ., dell'articolo 146 l.fall., degli articolo 2392-2394 bis, 2476, 2270 e 2305 cod.civ., lamentando che il credito risarcitorio per fatti addebitabili ai fratelli M. , quali amministratori di fatto della Frate-ma s.r.l., sia stato ammesso anche al passivo della società di fatto tra essi costituita. Il motivo è fondato per quanto di ragione. Alla responsabilità dei fratelli M. ex articolo 146 l.fall., in quanto amministratori di fatto della Frate-ma s.r.l., non consegue una responsabilità della società di fatto tra essi costituita, non trattandosi di attività posta in essere quali amministratori della holding, ma di una attività che come esposto nell'esame del terzo motivo si pone anzi al di fuori delle regole che disciplinano i gruppi di società. 7. Il decreto impugnato è quindi cassato in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può decidersi nel merito ex articolo 384 cod.proc.civ. rigettando la domanda del Fallimento della Frate-ma s.r.l. di ammissione al passivo della società di fatto tra M.S. , St. e F. , ferma restando la disposta ammissione del credito risarcitorio al passivo dei fallimenti personali dei medesimi fratelli M. . 8. Quanto alle spese di questo giudizio di cassazione, la novità delle questioni trattate e la parziale soccombenza reciproca ne giustificano la compensazione tra le parti. P.Q.M. La Corte accoglie l'ottavo motivo, rigetta gli altri cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta la domanda del Fallimento della Frate-ma s.r.l. di ammissione al passivo della società di fatto tra M.S. , St. e F. . Compensa tra le parti le spese di questo giudizio di cassazione.