L’impresa familiare ha natura individuale ed è incompatibile con la disciplina delle società di qualunque tipo

In tema di impresa familiare, non è applicabile la disciplina di cui all’art. 230- bis c.c. con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, non essendo configurabile nell’ambito della medesima compagine la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l’altro, fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità.

Con la decisione n. 23676, del 6 novembre 2014, le Sezioni Unite della Cassazione risolvono il contrasto di giurisprudenza in ordine alla compatibilità o meno della disciplina di cui all’art. 230- bis c.c. con un regime societario, giungendo alla conclusione che tale disciplina è incompatibile con qualsiasi tipo societario e trova applicazione solo con riferimento all’impresa individuale. Il caso. La pronuncia in commento risolve un contrasto giurisprudenziale, evidenziato dalle sentenze dei giudici di merito, sulla compatibilità o meno della disciplina dell’impresa familiare con il lavoro prestato in favore di una società. Proprio il congiunto di un socio accomandatario, infatti, aveva richiesto al tribunale di accertare la sussistenza dei requisiti dell’impresa familiare relativamente al lavoro dal medesimo svolto in favore della società stessa. Tale domanda viene accolta in primo grado e rigettata in appello sulla base delle diverse soluzioni prospettate, ossia della possibile applicabilità o meno dell’art. 230- bis c.c. anche in ipotesi di lavoro prestato in favore di società. Promosso ricorso per cassazione, il S.C., rilevato il contrasto giurisprudenziale di cui sopra, decide la rimessione alle Sezioni Unite le quali si pronunciano secondo la massima in epigrafe. Impresa familiare come e perché. Secondo l’art. 230- bis c.c., si considera impresa familiare l’impresa nella quale collaborano, anche attraverso il lavoro nella famiglia, il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado dell’imprenditore la c.d., quindi, famiglia nucleare. Si tratta di un istituto introdotto con la riforma del diritto di famiglia del 1975 e che ha avuto una discreta diffusione soprattutto per ragioni tributarie, in quanto ha consentito il frazionamento del reddito di impresa tra i parenti dell’imprenditore. Da sempre, peraltro, il lavoro familiare era ed è un fenomeno largamente diffuso che, prima dell’introduzione di tale istituto, poteva dar luogo a gravi abusi in quanto il lavoro familiare si presume prestato a titolo gratuito e senza alcun riconoscimento o diritto particolare in capo a chi lavorava nell’impresa familiare. Impresa familiare e partecipazione agli utili. La partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230- bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa beni acquistati con gli utili, incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili - in assenza di un patto di distribuzione periodica - non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni. Impresa familiare e compatibilità con la disciplina societaria c’è chi dice no Secondo una parte della giurisprudenza, non è applicabile la disciplina dell’impresa familiare con riferimento all’attività lavorativa svolta nell’impresa commerciale di cui sia compartecipe il congiunto o l’affine del lavoratore, poiché il concetto di lavoro familiare, applicabile alle sole imprese individuali, è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, non essendo configurabile nell’ambito della medesima compagine la coesistenza di due rapporti, uno fondato sul contratto di società e l’altro, fra il socio e i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità. In tal modo si ritiene inapplicabile l’art. 230- bis c.c. all’impresa societaria. e c’è chi dice sì. Secondo un diverso orientamento, peraltro, si ritiene estensibile la disciplina dell’impresa familiare anche ad attività continuative di lavoro svolte dal parente o affine del soggetto beneficiario, partecipe di una società, pur se con terzi estranei all’aggregato familiare, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230- bis c.c. nei limiti della quota societaria, atteso che la nozione di impresa familiare non comporta necessariamente l’esistenza di un soggetto imprenditoriale collettivo familiare, e che l’istituto ha natura residuale, venendo nel suo ambito regolati i diritti corrispondenti alle prestazioni svolte dal soggetto partecipante a favore del familiare che se ne avvale, anche quando questi utilizzi tale apporto per un’attività economicamente svolta quale socio di una società di fatto. Risolvendo il contrasto di giurisprudenza poc’anzi evidenziato, le SS.UU. della Cassazione si esprimono nel senso della incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo. E ciò sia sulla base, da un lato, della considerazione della norma in questione come eccezionale e, quindi, inapplicabile estensivamente dall’altro, considerando la disciplina concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell’impresa. Infatti, se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone art. 2262 c.c. mentre solo un’aspettativa compete al socio di società di capitali, in cui la distribuzione dipende da una delibera assembleare o da un decisione dei soci artt. 2433 e 2479 c.c. , nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate . Impresa familiare fallisce solo il titolare. A rafforzare la tesi per la quale la disciplina dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina di qualsiasi tipo societario vi è il fatto che, secondo la pacifica giurisprudenza di merito e di legittimità, soltanto il titolare dell’impresa familiare è soggetto alla dichiarazione di fallimento, mentre i familiari possono essere dichiarati falliti soltanto allorquando il rapporto fra i partecipanti all’impresa familiare si manifesti all’esterno con le caratteristiche di un rapporto societario, nell’ambito del quale i soci intrattengano rapporti con i terzi assumendo le conseguenti obbligazioni, spendendo il nome della società, palesando l’esistenza di un fondo comune e così manifestando l’ affectio societatis , in tale ipotesi dovendosi presumere l’esistenza di una società di fatto che si sovrappone al rapporto regolato dall’art. 230- bis c.c. Impresa familiare e famiglia di fatto. Secondo il. S.C., l’art. 230- bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica. Da ciò deriva che, secondo alcune pronunce, tale istituto è inapplicabile alla c.d. famiglia di fatto posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio , mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum . Secondo un diverso orientamento, invece, le prestazioni lavorative tra conviventi more uxorio rientrano tra le prestazioni di cortesia gratuite e sfornite di valore contrattuale, fatta salva la prova di un contratto di lavoro subordinato o di un rapporto d’impresa familiare l’art. 230- bis c.c. è applicabile, infatti, anche in presenza di una famiglia di fatto, che costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale. Il carattere residuale dell’impresa familiare. L’istituto dell’impresa familiare, quale risulta dall’incipit dell’art. 230- bis c.c., mira a coprire le situazioni di apporto lavorativo all’impresa del congiunto – come visto, parente entro il terzo grado o affine entro il secondo - che non rientrino nell’archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per le quali non sia raggiunta la prova dei connotati tipici della subordinazione, con l’effetto di confinare in un’area limitata quella del lavoro familiare gratuito.

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 16 settembre – 6 novembre 2014, numero 23676 Presidente Rovelli – Relatore Bernabai Svolgimento del processo Con ricorso depositato il 3 maggio 2006 il sig. S.P. conveniva dinanzi al Tribunale di Torino i sigg. B.L. e B.A. , figli della propria sorella - in proprio, e la prima anche nella qualità di socia accomandataria della Bali s.a.s. di Bagnulo Luana & amp C. – esponendo - che la predetta società, avente ad oggetto la gestione di un bar, era stata costituita formalmente dai soli convenuti, nelle rispettive vesti di accomandataria ed accomandante, per poter fruire degli incentivi per la giovane imprenditoria femminile - che peraltro egli aveva provveduto alla ristrutturazione dei locali, ai rapporti con i fornitori e prestato quotidianamente la propria opera nella conduzione del bar, fino al 31 ottobre 2002, data in cui aveva cessato la collaborazione, stante l'altrui rifiuto di consentirgli l'ingresso nella società. Tutto ciò premesso, ritenuta la sussistenza dei requisiti dell'impresa familiare ex articolo 230 bis cod. civile, chiedeva la condanna dei convenuti al pagamento della somma di Euro 11.362,00 a titolo di mantenimento e di Euro 71.233,00 quale quota del valore degli incrementi a lui spettante oltre alla percentuale degli utili, da accertare in corso di giudizio. Nel costituirsi ritualmente, i sigg. B.L. e A. eccepivano l'insussistenza dell'impresa familiare, incompatibile con la struttura societaria, e contestavano nei merito le avverse allegazioni sullo svolgimento concreto del rapporto. Dopo l'assunzione di prova testimoniale e l'espletamento di consulenza tecnica d'ufficio contabile, il Tribunale di Torino con sentenza 14 novembre 2008 accertava la sussistenza di un'impresa familiare dal 2 novembre 1999 al 31 ottobre 2002 e per l'effetto condannava la sig.ra B.L. al pagamento della somma di Euro 22.356,43 a titolo di partecipazione agli utili e di Euro 47.500,00 quale incremento di valore dell'azienda oltre interessi, rivalutazione e rifusione delle spese di giudizio. Rigettava, invece, la domanda nei confronti di B.A. , con compensazione delle spese di lite. In accoglimento del successivo gravame, la Corte d'appello di Torino, con sentenza 5 novembre 2009, rigettava le domande compensando per intero le spese dei due gradi di giudizio, in considerazione del contrasto giurisprudenziale vigente in ordine alla compatibilità dell'impresa familiare con la forma societaria. Motivava. - che meritava adesione l'indirizzo negativo sulla predetta questione di diritto, dal momento che solo nell'impresa individuale era configurabile la collaborazione lavorativa svolta da un familiare del titolare, oggetto di tutela legale laddove il medesimo apporto, in ragione del vincolo di parentela, non era certo ipotizzabile in favore di una società, ma solo, eventualmente, di un singolo socio cui non poteva però riconoscersi la qualità di imprenditore, presupposta dalla norma - che tale incompatibilità logica emergeva dalla stessa sentenza di primo grado, che aveva condannato al pagamento della quota degli utili e dell'incremento di valore dell'azienda la sola socia accomandataria in tal modo, implicitamente negando la configurabilità del rapporto obbligatorio nei confronti di un imprenditore collettivo. Avverso la sentenza, non notificata, il S. proponeva ricorso per cassazione in unico motivo, notificato il 4 novembre 2010 ed ulteriormente illustrato con memoria ex articolo 378 cod. proc. civile. Deduceva la violazione dell'articolo 230 bis cod. civ. in una fattispecie di società personale costituita solo da soggetti legati da un rapporto di parentela per la quale sussisteva, quindi, l’ eadem ratio della tutela legale del lavoro, prevista nell'ambito di un'attività commerciale svolta da un aggregato familiare. Resistevano con controricorso la sig.ra B.L. , in proprio e quale socia accomandataria e legale rappresentante della BALI s.a.s. di Bagnulo e C, nonché il sig. B.A. . La sezione lavoro della Corte di Cassazione, cui il ricorso era stata assegnato, lo rimetteva alle sezioni unite, ravvisando un contrasto giurisprudenziale sulla compatibilità dell'impresa familiare con la forma societaria. All'udienza del 16 settembre 2014 il Procuratore generale ed il difensore del ricorrente precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate. Motivi della decisione Le incertezze ermeneutiche rivelate dal contrasto giurisprudenziale traggono origine dalla mancata previsione testuale, nell'articolo 230 bis cod. civile, dell'esercizio in forma societaria di un'impresa familiare nel cui ambito possa trovare, del pari, applicazione la tutela speciale del lavoro innovativamente introdotta dalla riforma del diritto di famiglia senza dubbio modulata, prima facie , sulla figura dell'imprenditore individuale. Il silenzio della norma sulla forma alternativa dell'imprenditore collettivo si palesa di non univoca lettura, dando luogo, oggettivamente, al dubbio se esso corrisponda ad una deliberata mens legis , o non sia piuttosto il portato di un'enunciazione sintetica, applicativa del principio di economicità ipotesi del legislatore non ridondante , secondo cui la ripetizione logora la forza persuasiva dei messaggi e si giustifica solo se aggiunga un novum , non contenuto implicitamente nella proposizione principale tecnica normativa di non infrequente riscontro, che lascia spazio all'integrazione della fattispecie in via ermeneutica. Un primo indirizzo, partendo dal riconoscimento della natura eccezionale della norma, ne esclude l'applicazione all'impresa in forma societaria sul presupposto che sarebbe il frutto di una non consentita interpretazione analogica, e non solo estensiva, nell'ambito di una lacuna c.d. impropria, significativa dell'inequivoca volontà del legislatore ad excludendum , in omaggio al noto broccardo ubi lex dixit voluti articolo 14 disp. sulla legge in generale . Il principio di diritto, pur affermato da questa Corte in ordine al diverso problema del riconoscimento di un'impresa familiare all'interno di una famiglia di fatto Cass., sez. 2, 29 novembre 2004 numero 22405 Cass., sez. lavoro, 2 maggio 1994 numero 4204 , riuscirebbe risolutivo, in astratto, anche del problema in esame, dal momento che la dizione dell’articolo 230 bis cod. civile, incentrata sulla nozione soggettiva dei familiari dell'imprenditore identificati entro precisi gradi di parentela ed affinità , non potrebbe applicarsi al familiare del socio, a copertura di un oggettivo vuoto di disciplina legale, se non in virtù di analogia legis . Ma la tesi della natura eccezionale non appare convincente. Al riguardo, si osserva come siffatta qualificazione discenda, in sede concettuale, dal contrasto con principi e valori generali accolti nell'ordinamento, la cui deroga sia giustificata solo entro gli stretti limiti letterali dell'enunciato. In questo senso, il connotato dell'eccezionalità, genericamente definito dall'articolo 14 della disposizioni sulla legge leggi che fanno eccezioni alla regola generale o ad altre leggi , trovava una più puntuale configurazione nel precedente storico dell'articolo 4 delle preleggi al codice civile 1865 leggi che restringono il libero esercizio dei diritti ed in tale accezione non si confa, con tutta evidenza, alla fattispecie in esame, in cui si riconoscono diritti patrimoniali a chi abbia erogato prestazioni utili all'imprenditore. Appare quindi corretto parlare, piuttosto, di un istituto autonomo - cui si può riconoscere natura speciale, ma non eccezionale - creato ex novo nell'ambito della riforma del diritto di famiglia L. 19 maggio 1975 numero 151 con una norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali. La medesima opinione negativa sull'applicabilità dell'articolo 230 bis cod. civ. all'impresa societaria è svolta, con iter argomentativo diverso, da Cass., sez. lavoro, 6 agosto 2003 numero 11.881 alla quale aderisce espressamente la Corte d'appello di Torino nella sentenza impugnata , la cui ratio decidendi valorizza il presupposto sostanziale della fattispecie astratta, costituito dal rapporto di parentela o affinità con l'imprenditore - qualifica, spettante solo alla società, e non pure al socio - in cui favore il familiare presti la sua attività di lavoro tanto più se questa sia erogata all'interno del nucleo familiare, e dunque senz'alcun collegamento diretto con l'impresa. Esito finale di tale ricostruzione esegetica è l'esclusione di una compresenza di rapporti l'uno fondato sul contratto di società tra il debitore e terzi soci e l'altro derivante dal vincolo di subordinazione al primo di un suo familiare. Ad essa si contrappone il diverso indirizzo giurisprudenziale, sostenuto da parte della dottrina, che, ravvisando più o meno esplicitamente nell'impresa familiare dei tratti associativi, ne riconosce in linea di principio estensibile la disciplina anche ad attività continuative di lavoro svolte dal parente o affine del soggetto beneficiario, partecipe di una società, pur se con terzi estranei all'aggregato familiare con i riflessi patrimoniali previsti dall'articolo 230 bis cod. civile, pur se limitati, naturalmente, alla quota di partecipazione Cass., sez. lavoro, 23 settembre 2004 numero 19116 Cass., sez. lavoro, 19 ottobre 2000 numero 13861 . La suddetta tesi interpretativa si articola, poi, in un ampio spettro di variazioni dottrinarie, in funzione del tipo di società e della posizione, più o meno preminente al suo interno, del socio tenuto alle prestazioni economiche in favore del familiare. Sotto il primo profilo, appare diffusa l'esclusione delle società di capitali dal perimetro applicativo dell'articolo 230 bis cod. civile - non senza aperture possibiliste, peraltro, in tema di s.p.a. ed s.r.l. unipersonali ed anzi, riguardo alle s.r.l., financo se plurisoggettive, in virtù della connotazione personale più accentuata acquisita con la riforma del diritto societario d. lgs. 6/2003 , che le renderebbe configurabili, secondo una diffusa opinione, ad una società di persone a responsabilità limitata. Per altro verso, la tesi in esame, pur ristretta entro i confini delle società di persone, palesa poi ulteriori divergenze interpretative nell'identificazione del socio obbligato alternativamente identificato nel titolare dell'effettivo potere di gestione - e dunque nell'amministratore con esclusione, ad es., del socio accomandante - o invece in ciascun socio, indipendentemente dal suo peso e ruolo, nei limiti della quota di spettanza. Ai fini della soluzione del problema in scrutinio, vanno altresì ricordati ulteriori precedenti giurisprudenziali, che hanno lumeggiato aspetti dell'impresa familiare rilevanti sotto il profilo ricostruttivo della fattispecie quali, la natura individuale dell'impresa familiare Cass., sez. lavoro, 18 gennaio 2005 numero 874 Cass., sez. lavoro, 15 aprile 2004 numero 7223 Cass., sez. lavoro 6 marzo 1999 numero 1917 ed il regime fiscale dei reddito dei familiari collaboratori definito di lavoro, e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa Cass., sez.5, 2 dicembre 2008 numero 28.558 . Così riassunto, nei suoi lineamenti essenziali, il pregresso contrasto esegetico, ritiene questo collegio di aderire alla tesi dell'incompatibilità dell'impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo. Al riguardo, occorre premettere, in sede metodologica, la primazia, tra i canoni ermeneutici legali, del criterio letterale emergente dallo stesso ordine prioritario di enunciazione seguito nell'articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale e riconosciuta dalla giurisprudenza di gran lunga prevalente di questa Corte Cass., sez. 3, 21 maggio 2004 numero 9700 Cass., sez. lavoro,13 aprile 1996 numero 3495 Cass., sez. lavoro, 17 novembre 1993, numero 11359 Cass. sez. lavoro 26 febbraio 1983 numero 1482 . Nel contesto letterale della disposizione in esame, la scelta del legislatore di utilizzare costantemente il lemma impresa , di carattere oggettivo, significativo dell'attività economica organizzata, piuttosto che far riferimento all'imprenditore come soggetto obbligato, resta di per sé neutra, lasciando adito alla possibile inclusione anche dell'impresa collettiva, esercitata in forma societaria pur se già la rilevanza riconosciuta contestualmente al lavoro svolto nella famiglia fornisce un primo elemento semantico plausibilmente riferibile ad un imprenditore-persona fisica. Ma ciò che davvero si palesa irriducibile ad una qualsiasi tipologia societaria è la disciplina patrimoniale concernente la partecipazione del familiare agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, anche al di fuori dell'impresa e non, quindi, in proporzione alla quota di partecipazione. E se è appropriato parlare di un diritto agli utili del socio di società di persone, articolo 2262, cod. civile, che però ammette il patto contrario - mentre, solo una mera aspettativa compete al socio di società di capitali, in cui la distribuzione di utili dipende da una delibera assembleare o da una decisione dei soci artt. 2433 e 2479, secondo comma, numero 1, cod. civ. - nessun diritto esigibile può essere reclamato, nemmeno dal socio, sui beni acquisiti al patrimonio sociale, e tanto meno sugli incrementi aziendali, durante societate . Ancor più confliggente con regole imperative del sottosistema societario appare, poi, il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio tale, da introdurre un inedito metodo collegiale maggioritario - integrato con la presenza dei familiari dei soci - nelle decisioni concernenti l'impiego degli utili, degli incrementi e altresì la gestione straordinaria e gli indirizzi produttivi e financo la cessazione dell'impresa stessa disciplina, in insanabile contrasto con le relative modalità di assunzione all'interno di una società, che le vedono riservate, di volta in volta, agli amministratori o ai soci, in forme e secondo competenze distintamente previste il più delle volte da norme inderogabili , in funzione del tipo societario, ma univoche nell'esclusione di soggetti estranei alla compagine sociale. Siffatta conclusione appare confortata anche dalla verifica della mens legis criterio teleologico . Al riguardo, è comune l'opinione che l'istituto dell'impresa familiare, introdotto con la riforma del diritto di famiglia articolo 89 legge 19 maggio 1975 numero 151 , in chiusura di regolamentazione del regime patrimoniale della famiglia, abbia natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile come si evince dallo stesso incipit dell'articolo 230 bis cod. civ. a norma salvo che sia configurabile un diverso rapporto . Appare quindi coerente la conclusione che la disciplina sussidiaria dell'impresa familiare sia da intendere recessiva, nel sistema di tutele approntato, allorché non valga a riempire un vuoto normativo, stante la presenza di un rapporto tipizzato, dotato di regolamentazione compiuta ed autosufficiente. Né vi è ragione di limitare il criterio della residualità al solo rapporto individuale tra imprenditore e familiare e cioè quando sia ravvisabile, in concreto, un vero e proprio contratto associativo eventualmente, nella forma della società occulta o di scambio associazione in partecipazione, lavoro subordinato, opera intellettuale ecc dovendosi altresì escludere la configurabilità stessa dell'istituto, in ragione della sua ricordata residuante, quando già in limine l'esercizio dell'impresa rivesta forma societaria. Non per questo, dall'eventuale inconfigurabilità di un rapporto contrattuale tipico deriverebbe un assoluto vuoto di tutela del lavoro prestato dal familiare del socio quando non connotato da mera affectionis vel benevolentiae causa , in contrasto con l'intenzione del legislatore ed in sospetto di incostituzionalità restando applicabile, in ultima analisi, il rimedio sussidiano, di chiusura, dell'arricchimento senza causa articolo 2041 cod. civ. . Alla luce dei rilievi suesposti, non può neppure condividersi la lettura correttiva della norma, sostenuta da una parte della dottrina e riflessa nei precedenti giurisprudenziali difformi, volta a salvare la coerenza del sistema mediante un'applicazione selettiva delle regole dettate per l'impresa familiare e cioè, operando una destrutturazione della norma, sul discrimine tra un suo nucleo essenziale ed indefettibile, di applicazione necessaria, costituito dal diritto al mantenimento - riconoscibile anche in un rapporto tra familiare e socio - e il restante complesso di poteri implicitamente, di riconosciuta incompatibilità con le regole societarie , che verrebbe ad assumere natura accessoria ed eventuale, nell'esclusivo ambito di un'impresa individuale. Più che di una forzatura ortopedica, si tratterebbe di un'amputazione della norma nella parte in cui si riveli inconciliabile con il sottosistema societario, al fine di preservarne l'applicazione in parte qua in favore del familiare del socio. A questa stregua, la portata della tutela, anziché posterius del precetto normativo, verrebbe ad assurgere al rango di valore sovraordinato ed incondizionato, cui piegare il dato letterale. Con una forzatura ermeneutica che traligna in sostanziale infedeltà al testo. Anche se è venuto meno l'argomento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese nel contesto familiare - costantemente affermata prima della riforma del 1975 - deve restare fermo, infatti, il principio che l'estensione della tutela non può essere stabilita a priori , bensì vada ricostruita per via interpretativa nel rigoroso rispetto della norma positiva, nell'integrante del suo enunciato, senza arbitrarie manipolazioni. Si aggiunga, per completezza di analisi, che l'assimilazione, in tal modo implicitamente presupposta, tra imprenditore e socio, appare altresì in contrasto con la distinzione consolidata tra le due figure che nella prevalente giurisprudenza Cass., sez. 1^ 6 novembre 2006 numero 23669 e dottrina restano, per contro, ben distinte. È tralatizia, infatti, la tesi che attribuisce alla società di persone, dotata di autonoma soggettività artt. 2266, 2659 e 2839 cod. civ. , la qualifica di imprenditore. E sotto questo profilo, neppure la società di fatto si caratterizza per l'attenuazione della titolarità di situazioni giuridiche, pur sempre autonoma rispetto a quella dei soci, non dipendendo dalla formalizzazione del rapporto mentre, viene esclusa, simmetricamente, la qualità di imprenditore commerciale in capo al socio in particolare, ai fini della dichiarazione del fallimento in estensione, laddove prevista in ragione della sua istituzionale responsabilità illimitata articolo 147, primo comma, l. fall. , che non presuppone affatto l'autonoma insolvenza personale Cass., sez. 1 19 maggio 2000, numero 6541 Cass., sez. 1^ 11 dicembre 2000 numero 15596 e che resta, per contro, esclusa per il socio di una società di capitali unipersonale, ove pure l’assimilazione con la figura dell'imprenditore potrebbe apparire non arbitraria Cass., sez. 1^, 14 marzo 2014 numero 6028 . Né maggiore valore persuasivo, da ultimo, rivela il riferimento al pencolo di elusione della tutela del lavoro del familiare tramite l'adozione maliziosa di uno schermo societario. L'argomento prova troppo, giacché la creazione di un diaframma, più o meno impermeabile, tra società e socio nei rapporti obbligatori, lungi dall'essere un fenomeno patologico, costituisce l’ in sé della forma societaria di gestione di un'impresa. Alla luce dei predetti rilievi, il ricorso del S. è dunque infondato e va respinto. Il contrasto giurisprudenziale pregresso giustifica l'integrale compensazione delle spese di giudizio. P.Q.M. - Rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese di giudizio.