Il compenso dell’amministratore di società revocato senza giusta causa non è equiparabile a quello di un dottore commercialista

Il compenso per l’amministratore di società revocato anticipatamente dal proprio incarico va determinato in via equitativa, in quanto la natura giuridica del rapporto con l’impresa collettiva non è assimilabile ad un contratto d’opera senza che le parti, al momento della nomina o nelle previsioni statutarie abbiano fatto esplicito riferimento all’applicabilità delle tariffe professionali previste per i dottori commercialisti.

Con la sentenza n. 22046, depositata il 17 ottobre 2014, la Corte di Cassazione si occupa dei criteri di determinazione giudiziale del compenso spettante ad un amministratore di società ingiustamente revocato dal proprio incarico ex art. 2383 c.c Il fatto. La vicenda processuale trae origine dalla revoca anzitempo ed implicita di un amministratore unico di società di capitali perché chiamato a far parte del C.d.A. aziendale. In mancanza di predeterminazione del compenso in sede assembleare, sia in primo che in secondo grado, si discute sulla quantificazione che la Corte territoriale aveva liquidato in via equitativa sulla scorta di quanto stabilito dall’assemblea per l’organo collegiale e non già sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti. L’amministratore, ricorrendo in Cassazione, si duole di questa opzione interpretativa denunciando sul punto, e per quanto ciò che qui più interessa, l’insufficiente e contraddittoria motivazione del giudice d’appello. Attività diverse. La Cassazione ritiene infondato il ricorso. Gli Ermellini deducono, innanzi tutto, come il ricorrente si fosse dedicato ad una semplice attività di gestione di una società di modeste dimensioni, senza assolvere in alcun modo le funzioni tipiche di un dottore commercialista. Detto altrimenti, aveva solo assolto ai compiti di pagare gli stipendi, le utenze e a gestire gli immobili concessi in locazione, non avendo fornito in sede istruttoria alcun utile elemento qualificante tale da collegare la sua attività a quella di un commercialista. Stando così le cose, le pretese del ricorrente non possono che andare disattese, nonostante si rilevi che la prassi degli statuti societari per la determinazione del compenso dei sindaci faccia riferimento alle tariffe dei dottori commercialisti. Ciò, invece, non si giustifica per l’amministratore che svolge una attività prettamente gestoria, non affatto riconducibile a quella di un professionista cui pretende per relationem di ancorare il proprio compenso. Rapporto tra società ed amministratore. D’altra parte, la decisione della Cassazione è in armonia con i suoi precedenti arresti giurisprudenziali cfr. ex multis Cass. n. 4769/2014 secondo cui il rapporto che intercorre tra società ed amministratore è di immedesimazione organica ed il contratto tipico che lega tali soggetti non è un contratto d’opera ex art. 2222 c.c. . Questo perché l’attività dell’amministratore si identifica con la società che rappresenta e, differentemente dal prestatore d’opera, l’opus di amministrazione non è predeterminabile aprioristicamente, caricandosi dei rischi connessi alle sorti aziendali. Non snatura questa soluzione neanche l’ipotesi in cui l’amministratore sia chiamato a risolvere questioni tecniche proprie di un professionista, giacché la remunerazione di queste resta assorbita nel compenso pattuito per la carica.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 25 settembre – 17 ottobre 2014, n. 22046 Presidente Forte – Relatore Nazzicone Svolgimento del processo Con sentenza del 2 dicembre 2008, la Corte d'appello di Roma, decidendo in sede di rinvio, ha, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma del 5 marzo 1996, condannato la Torre Argentina - Società di servizi s.p.a. al pagamento, in favore di D.S.M. , della somma di Euro 25.000,00, ivi compresa la rivalutazione, oltre agli interessi legali dalla sentenza e alle spese di lite, a titolo di risarcimento del danno per la revoca senza giusta causa dalla carica di amministratore unico della società. Preso atto della sentenza di legittimità del 7 maggio 2002, n. 6526 - la quale, cassando con rinvio la precedente decisione della corte territoriale confermativa di quella di primo grado, ha affermato il principio che la nomina, in seno ad una società di capitali, di un consiglio di amministrazione, del quale venga chiamato a far parte chi fino ad allora abbia espletato le funzioni di amministratore unico, comporta la revoca implicita di questi dalla carica e l'obbligo di risarcirgli il danno, ove avvenuta senza giusta causa - la Corte d'appello, per quanto ancora rileva, ha liquidato il danno con riguardo al periodo successivo alla revoca del 13 novembre 1990 e sino alla naturale scadenza dell'originario mandato. Non ha, invece, reputato accoglibile la richiesta di liquidazione del danno anche con riguardo al compenso nel periodo in cui egli ha effettivamente svolto le mansioni di amministratore unico settembre 1989-novembre 1990 , trattandosi di inadempimento di un'obbligazione autonoma e non ricollegabile alla revoca. In mancanza della predeterminazione del compenso in sede assembleare, la corte territoriale ha liquidato il danno non sulla base delle tariffe professionali dei dottori commercialisti, come richiesto dall'ex amministratore, ma in via equitativa, tenuto conto dei parametri del compenso stabilito dall'assemblea per l'organo collegiale L. 30.000.000 annui per ciascuno dei tre membri, per un totale di L. 90.000.000 complessivi per il consiglio , dell'ampliamento dell'oggetto sociale, dell'aumento del capitale e dell'attività svolta dal D.S. quale amministratore unico, che si era limitato ad una semplice attività di gestione di una società di modeste proporzioni, senza alcun assolvimento dei compiti tipici del dottore commercialista o di natura legale o tecnica, in quanto volta unicamente al pagamento di stipendi, bollette, fornitori e prestatori d'opera, oltre alla gestione degli immobili concessi in locazione sollecito di pagamenti e cura, a mezzo di tecnici all'uopo incaricati, della ristrutturazione dell'immobile rilasciato alla società . Ciò posto, la corte territoriale ha liquidato, ai sensi dell'art. 1226 c.c., il risarcimento dovuto per il periodo successivo alla revoca in L. 30.555.556, pari ad Euro 15.789 considerando in via equitativa quello per l'intero triennio pari a L. 50.000.000 , condannando la società a corrispondere la somma di Euro 25.000,00, compresa l'attualizzazione del dovuto e con gli interessi legali dalla sentenza. Avverso questa sentenza propone ricorso D.S.M. , affidato a quattro motivi. Resiste la Torre Argentina Società di Servizi s.p.a. con controricorso. Il ricorrente ha altresì depositato la memoria di cui all'art. 378 c.p.c Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo, il ricorrente denunzia l'insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere la sentenza impugnata liquidato il danno derivante dalla revoca anticipata dalla carica sulla base della tariffa professionale dei dottori commercialisti. Con il secondo motivo, deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1226 c.c., oltre al vizio di contraddittoria motivazione, per avere la corte del merito ridotto il compenso risultante dal parametro di quello dall'assemblea stabilito per l'intero consiglio di amministrazione, sebbene invece la società avesse mantenuto le stesse dimensioni e non avendo, del resto, neppure il nuovo c.d.a. svolto attività di natura professionale non gestoria, ma anzi essendo più gravoso lo svolgimento di una funzione monocratica. Inoltre, l'ampliamento dell'oggetto sociale, attuato con la deliberazione del 13 novembre 1990, non dimostra di per sé un'espansione dell'attività sociale, non avendo valore incrementativo la semplice megalomania dei soci che abbiano ampliato l'oggetto statutario mentre la società non ha prodotto bilanci da cui risulti l'aumento di fatturato. I ventidue mesi dalla revoca, mancanti sino al completamento dell'incarico gestorio monocratico, dovevano quindi essere compensati nella misura di L. 165.000.000 posto che L. 90.000.000 annui equivalgono a L. 7.500.000 mensili, per 22 mesi . Con il terzo motivo, deduce il vizio di motivazione, per avere la corte d'appello, nel liquidare la somma dovuta a titolo di debito di valore, quantificato l'importo finale in Euro 25.000,00, senza tener conto della regola del cumulo di rivalutazione ed interessi, da calcolare con riferimento ai singoli momenti in relazione ai quali la somma si incrementa nominalmente, e senza indicare il criterio seguito per tale attualizzazione, né il tasso applicato per gli interessi sulle somme rivalutate ed essendosi limitata ad aggiungere al compenso liquidato di Euro 15.78 9,00 la somma di Euro 9.211,00, per ben 18 anni, decorrenti fra la revoca dall'incarico nel novembre 1990 al deposito della sentenza il 2 dicembre 2008. Con il quarto motivo, deduce la violazione dell'art. 112 c.p.c. per l'omessa pronuncia sulla domanda di condanna alla restituzione delle spese di lite, corrisposte in esecuzione delle precedenti decisioni. 2. - Il primo motivo è infondato. 2.1. - La corte d'appello, in sede di rinvio, aveva il compito di liquidare il compenso all'amministratore per la revoca dalla carica senza giusta causa, ai sensi dell'art. 2383 c.c. La peculiarità del caso in esame, peraltro, consiste nella circostanza che mancava al giudice del merito il parametro costituito dalla quantificazione assembleare del compenso all'amministratore al momento della sua nomina. La questione relativa al criterio di liquidazione del danno dovuto per l'illegittima anticipata revoca dalla carica - nella specie, accertata da questa Corte con la sentenza rescindente del 7 maggio 2002, n. 6526 - si collega dunque a quella più generale della determinazione giudiziale del compenso dell'amministratore di società non pattuito fra le parti. A tale ultima questione si dedicheranno alcune considerazioni nel prosieguo, allo scopo della verifica della correttezza del procedimento seguito dalla sentenza impugnata al fine della risoluzione della distinta tematica della determinazione del danno patito dall'amministratore revocato senza giusta causa, ai sensi dell'art. 2383 c.c 2.2. - Rileva la corte territoriale, con accertamento non sindacabile in questa sede, che l'amministratore revocato non ha fornito alcun elemento cui agganciare la determinazione del compenso secondo le tariffe dei dottori commercialisti, avendo la società precisato che egli è un avvocato, né risultando lo svolgimento di attività riservate ai professionisti delle cui tariffe l'amministratore chiede l'applicazione, ma avendo la corte del merito accertato che non furono dal D.S. svolti compiti tipici della professione del commercialista, del legale o di altri tecnici. La pretesa dell'odierno ricorrente di vedere applicata alla propria prestazione gestoria, quale parametro per la liquidazione del danno, la tariffa dei dottori commercialisti è stata pertanto disattesa dal giudice del rinvio, che ha rilevato come il richiamo alle tariffe, eppure frequente negli statuti societari come in quello della Torre Argentina s.p.a. per la determinazione del compenso dei sindaci, non si giustifica però con riguardo all'amministratore, la cui attività ha contenuto prettamente gestorio, non riconducibile ai compiti del professionista cui si pretende di ancorare il compenso, ed, in particolare, con l'attività in concreto svolta dal D.S. . Tali affermazioni risultano affatto coerenti con l'orientamento, più volte espresso da questa Corte, e dal quale non vi è ragione di discostarsi, secondo cui il rapporto che intercorre tra società ed amministratore è di immedesimazione organica ed il contratto tipico che lega tali soggetti non è un contratto d'opera ex art. 2222 c.c., in quanto l'opus di amministrazione che egli si impegna a fornire non è, a differenza di quello del prestatore d'opera, determinato dai contraenti preventivamente né è determinabile aprioristicamente, identificandosi con la stessa attività d'impresa così, con riguardo al profilo della negazione del privilegio generale di cui all'art. 2751-bis, n. 2, c.c. Cass. 27 febbraio 2014, n. 4769 24 aprile 2007, n. 9911 23 luglio 2004, n. 13805 26 febbraio 2002, n. 2769 17 agosto 1998, n. 8083 14 settembre 1995, n. 9692 . Va, infatti, ribadito che l'attività del soggetto cui è affidata la gestione sociale non può essere equiparata a quella del prestatore d'opera, intellettuale o non intellettuale, posto che i compiti affidatigli riguardano la gestione di un'impresa costituita da un insieme variegato di atti materiali, negozi giuridici, operazioni complesse. Dunque, quand'anche taluni di tali atti ed operazioni possano compararsi all'attività di un prestatore d'opera, tuttavia essi assumono diversa valenza giuridica in ragione del rapporto di immedesimazione organica con la società. Nel rapporto corrente tra amministratore e società l'attività di amministrazione si salda con l'attività di impresa e il suo esercizio si carica dei rischi di quest'ultima, con svolgimento di un'attività imprenditoriale complessa, tanto sul piano interno organizzativo, quanto su quello esterno verso i terzi. Né rileva in sé la circostanza che a svolgerla possano essere chiamati dei professionisti legali o commerciali o che il compimento di una parte delle operazioni richieste possa implicare la soluzione di problematiche tecniche che, allora, restano assorbite nel compenso per la carica . In definitiva, la natura giuridica del rapporto con l'impresa collettiva - che non è assimilabile a quello derivante dal contratto d'opera - come esclude la riconoscibilità del privilegio, così non giustifica alcun automatico riferimento, al fine della liquidazione del compenso all'amministratore non determinato dalle parti al momento della nomina, alle tariffe dei dottori commercialisti. 3. - Il secondo motivo è infondato. In punto di fatto, la corte del merito ha accertato, con valutazione insindacabile in questa sede in quanto immune da vizi logico-giuridici, due distinte situazioni a da un lato, che l'amministratore revocato, nei quattordici mesi di espletamento del suo incarico, ebbe a compiere l'attività ordinaria propria di una società immobiliare di modeste dimensioni, quali pagamento di stipendi ai dipendenti, di bollette, di forniture e prestatori d'opera, e che curò la cessazione della locazione dell'immobile sociale, con disdette e diffide, sorvegliando l'attività del legale e del professionista che aveva curato la ristrutturazione dell'immobile b dall'altro lato, che la società, in concomitanza alla decisione assembleare di sostituzione dell'organo amministrativo monocratico con uno collegiale - decisione motivata proprio dall'esigenza di aumentata complessità della gestione sociale - ebbe a modificare l'oggetto sociale, espandendo la propria attività in molteplici e complesse articolazioni, con conseguente accresciuto impegno dell'ente e dell'organo destinato ad amministrarlo. La corte del merito ha perciò operato una liquidazione equitativa del danno, prendendo a riferimento il compenso stabilito per il consiglio di amministrazione dall'assemblea che lo ha nominato le attività di ordinaria gestione dei beni immobili sociali, compiute dall'amministratore unico fino a quel momento l'ampliamento dell'oggetto sociale statutario con la stessa delibera di nomina del nuovo organo consiliare l'assenza di qualità e di mansioni di dottore commercialista in capo all'odierno ricorrente. Ne ha dedotto che il parametro equitativo rappresentato dal compenso determinato dall'assemblea al momento della nomina del nuovo organo consiliare potesse bensì costituire un criterio di liquidazione del danno lamentato dall'organo monocratico revocato, ma che, tuttavia, non fosse possibile trasporre automaticamente quell'importo nel quantum del risarcimento, dovendo essere ridotta la somma attribuita ai tre componenti del consiglio di amministrazione, e determinando il compenso in L. 50.000.000 per l'intero triennio, pari a L. 30.555.556 per il periodo non fruito di ventidue mesi. Se l'accertamento in fatto resta una valutazione riservata al giudice del merito, la deduzione che il medesimo giudice ne ha tratto in punto di determinazione del danno ex art. 1226 c.c. è, dal suo canto, immune dal vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria, avendo, al contrario, la corte territoriale ampiamente spiegato il fondamento del suo convincimento. Né sussiste, in particolare, alcun vizio motivazionale nel rilievo attribuito all'ampliamento dell'oggetto sociale al fine di ipotizzare una più complessa attività gestoria nel successivo periodo posto che, costituendo l'oggetto sociale il programma imprenditoriale predisposto dalla società in vista della sua attività futura, un ampliamento dell'oggetto medesimo è senz'altro di per sé idoneo ad integrare il presupposto dell'attribuzione di un maggior compenso a chi quel programma sia chiamato ad attuare. 4. - Il terzo motivo è inammissibile. La corte d'appello ha tenuto conto sia della rivalutazione, sia degli interessi sulla somma rivalutata, sebbene abbia quantificato gli importi - pur sempre in esplicazione del potere di liquidazione equitativa del danno - in maniera omnicomprensiva e senza calcolo nel dettaglio. Dovendo, pertanto, reputarsi che il danno sia stato liquidato ex art. 1226 c.c. per i mesi successivi alla revoca, la liquidazione resta non sindacabile in questa sede. Ed invero, per pervenire alla valutazione con il criterio equitativo ex art. 1226 c.c., è sufficiente che il giudice dia l'indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale lo ha adottato, restando così incensurabile, in sede di legittimità, l'esercizio di questo potere discrezionale Cass. 9 agosto 2007, n. 17492 . 5. - Il quarto motivo - la cui ammissibilità deriva dalla chiara enucleazione del vizio di omessa pronuncia e del punto censurato - è fondato. La sentenza impugnata ha omesso di provvedere sulla condanna della società - dapprima vittoriosa nei due gradi di merito - alla restituzione della somma dovuta alla medesima a titolo di pagamento delle spese legali per detti gradi, pari ad Euro 10.469,80, pagate dal D.S. alla società vittoriosa il 10 maggio 2000. Secondo il principio da questa Corte enunciato Cass. 3 ottobre 2005, n. 19299 più di recente, 23 maggio 2014, n. 11519 , le pretese restitutorie conseguenti alla riforma di sentenze delle precedenti fasi possono trovare ingresso in quelle successive, al fine di precostituire il titolo esecutivo per la restituzione, in tal senso deponendo evidenti ragioni di economia processuale per il rispetto del principio di ragionevole durata del processo. In particolare, la richiesta di restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado, essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, non costituisce domanda nuova ed è perciò ammissibile in appello Cass. 8 luglio 2010, n. 16152 24 maggio 2010, n. 12622 11 giugno 2008, n. 15461 24 aprile 2008, n. 10765 v. pure Cass. 8 giugno 2012, n. 9287 . Pertanto, incorre nella violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato il giudice che, accogliendo l'appello avverso sentenza provvisoriamente esecutiva, ometta di ordinare la restituzione di quanto corrisposto in forza della decisione riformata, pur essendo stata ritualmente introdotta con l'atto di impugnazione la relativa domanda restitutoria Cass. 5 febbraio 2013, n. 2662 , risultando così nella specie integrato il vizio di cui all'art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c 6. - In definitiva, la sentenza va cassata, in relazione al motivo accolto, e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, è possibile decidere nel merito cfr. Cass. 15 febbraio 2005, n. 2977 ed altre con la condanna della società alla restituzione della somma corrisposta alla medesima a titolo di spese legali, pari ad Euro 10.469,80, con gli interessi legali dal 10 maggio 2000, trattandosi di debito di valuta. 7. - Atteso l'esito della controversia si ritiene conforme a diritto confermare le statuizioni dei giudici di merito in tema di spese processuali e compensare per la metà fra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso, respinti gli altri cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna la TORRE ARGENTINA SOCIETÀ DI SERVIZI S.P.A. alla restituzione in favore di D.S.M. della somma Euro 10.4 69,80, con gli interessi legali dal 10 maggio 2000. Conferma le statuizioni della sentenza impugnata in tema di spese processuali e condanna la controricorrente al pagamento della metà delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate, già operata la compensazione per il residuo, in Euro 3.600,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie sui compensi nella misura del 10% ed agli accessori come per legge.