Non si continua l’attività d’impresa pagando i debiti e mantenendo il marchio su un sito

Pagare i debiti e mantenere il marchio dell’impresa, su un sito internet accanto a quello della società di proprietà del figlio dell’imprenditore, non prova che l’attività d’impresa sia ancora in atto.

E’ stato così deciso dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 16107, depositata il 14 luglio 2014. Il caso. La Curatela fallimentare proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza di secondo grado, pronunciata dalla Corte d’appello di Bari, che aveva accolto il reclamo ex art. 18 l.f., proposto dall’imprenditore fallito, revocando il fallimento. Veniva dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 10 l.f. fallimento dell'imprenditore che ha cessato l'esercizio dell'impresa e dell’art. 2082 c.c. imprenditore , oltre all’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, dal momento che la Corte non aveva tenuto conto che le attività svolte dall’imprenditore potevano essere legittimamente interpretate come prosecutive dell’attività d’impresa. In particolare, secondo la ricorrente, le operazioni espletate a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, quali il pagamento dei debiti pregressi e la presenza su un sito internet del marchio dell’impresa, erroneamente erano state considerate insufficienti ai fini della dimostrazione della continuazione dell’attività ai sensi dell’art. 10 l.f. per la declatoria del fallimento. Pagare i debiti e mantenere il marchio non sono attività economiche imprenditoriali. Il motivo è infondato. Spiega la Corte di Cassazione, che nell’impugnata sentenza, le attività prese in considerazione dai Giudici territoriali sono state ampiamente e motivatamente esaminate e ritenute non idonee a dimostrare la continuazione dell’attività d’impresa in quanto non costituenti operazioni tali da rivelarsi come manifestazioni di un’attività economica, sia pure svolta esclusivamente in funzione della disgregazione dell’azienda Cass., n. 15716/2000 . Correttamente la Corte d’appello aveva ritenuto che pagare i debiti scaduti non potesse comportare nessuna attività d’impresa, quanto piuttosto un’attività atta a evitare azioni esecutive in danno. Non rileva nemmeno il mantenimento sul sito internet della società del figlio dell’imprenditore, del marchio. Il giudice di merito aveva adeguatamente motivato la decisione. Ai fini della decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell’attività – specifica la Cassazione – intendendosi quest’ultima come il concreto esercizio dell’attività di impresa, entro il quale, ai sensi dell’art. 10 l.f., può essere dichiarato il fallimento dell’imprenditore, anche la dismissione di tale qualità deve intendersi correlata al mancato compimento, nel periodo di riferimento, di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle poste normalmente in essere nell’esercizio d’impresa, ed il relativo apprezzamento compiuto dal giudice di merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato in sede di legittimità Cass., n. 4455/2001 . Sulla base di tali argomenti, la Corte rigetta il ricorso e condanna alle spese il curatore ricorrente.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 10 giugno – 14 luglio 2014, numero 16107 Presidente Di Palma – Relatore Ragonesi Fatto e diritto La Corte, rilevato che sul ricorso numero 9803/12 proposto dal fallimento di C.A. nei confronti di C.A. il Consigliere relatore ha depositato la relazione che segue Il Cons. Ragonesi, letti gli atti depositati RILEVATO Che la Curatela fallimentare di C.A. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di due motivi avverso la sentenza numero 246/11 pronunciata dalla Corte di appello di Bari con la quale veniva accolto il reclamo ex art. 18 l. fall. proposto da C.A. e veniva revocato il fallimento che la Corte territoriale ha sostenuto in primo luogo, che la curatela avesse addotto in sede di reclamo elementi ulteriori alla cognizione del primo giudice e sui quali non si era compiuta alcuna istruttoria in secondo luogo che le operazioni espletate a seguito della cancellazione dal registro delle imprese, quali il pagamento di debiti pregressi o la presenza su un sito internet del marchio, non potessero essere considerate sufficienti ai fini dimostrazione della continuazione dell'attività ai sensi dell'art. 10 l.fall. per la declaratoria del fallimento che C.A. ha resistito con controricorso. OSSERVA Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 18 l. fall. in relazione all'art. 360 numero 3 c.p.c Il fallimento ricorrente sostiene a tal riguardo che nel giudizio di impugnazione avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, la riforma dell'art. 18 l.fall. ha ridenominato tale mezzo come reclamo, in luogo del precedente appello, che è caratterizzato da un effetto devolutivo pieno cui non si applicano i limiti previsti, in tema di appello dagli artt. 342, 345 c.p.c., da cui ne consegue che il debitore, quand'anche non costituito davanti al tribunale può indicare anche per la prima volta in sede di reclamo i mezzi di prova di cui intende avvalersi. Il motivo appare infondato. A nulla rileva la giurisprudenza richiamata dal ricorrente, giacché, come il giudice d'appello afferma nella sentenza, le circostanze dedotte dalla curatela per la prima volta in sede di reclamo, quand'anche fossero state prese in considerazione, non avrebbero fornito la prova che il C. avesse proseguito realmente l'attività nel senso di attività economica organizzata della impresa individuale pur dopo la sua cancellazione, dal momento che sarebbe stata necessaria apposita e puntuale istruttoria che invece non è stata espletata. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell'art. 10 l.fall. e dell'art. 2082 c.c. n relazione all'art. 360 numero 3 c.p.c., nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all'art. 360 numero 5 c.p.c. dal momento che la Corte non ha tenuto in considerazione che le attività compiute dal C. potessero essere legittimamente interpretate come prosecutive dell'attività d'impresa. Anche questo motivo appare infondato e per certi versi inammissibile. Non si ravvisa, infatti, nella impugnata sentenza, il vizio di omessa motivazione dal momento che le attività prese in considerazione dalla Corte d'appello sono ampiamente e motivatamente esaminate e ritenute non idonee a dimostrare la continuazione dell'attività d'impresa in quanto non costituenti operazioni tali da rivelarsi come manifestazioni di un'attività economica, sia pure svolta esclusivamente in funzione della disgregazione dell'azienda Cass. 15716/00 . A tale proposito la Corte distrettuale ha osservato che è chiaro che pagare debiti scaduti non è svolgimento di alcuna attività d'impresa in sé considerata - e cioè, se contemporaneamente il pagamento non sia finalizzato a gestire sul fronte finanziario un'attività economica corrente - quanto piuttosto a evitare azioni esecutive in danno . Ma egualmente poco significativo è anche il secondo elemento, rappresentato dal fatto che il C. abbia mantenuto su un sito internet il brand della sua ditta individuale AC Trailers accanto a quello della società DI.BA. di suo figlio, per propagandare la vendita di veicoli industriali. È utile, sul punto, richiamare la giurisprudenza di questa Suprema Corte la quale afferma che, ai fini della decorrenza del termine annuale dalla cessazione dell'attività, intendendosi quest'ultima come il concreto esercizio dell'attività di impresa, entro il quale, ai sensi dell'art. 10 legge fall., può essere dichiarato il fallimento dell'imprenditore, anche la dismissione di tale qualità deve intendersi correlata al mancato compimento, nel periodo di riferimento, di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle poste normalmente in essere nell'esercizio dell'impresa, ed il relativo apprezzamento compiuto dal giudice del merito, se sorretto da sufficiente e congrua motivazione, si sottrae al sindacato in sede di legittimità. Cass. 4455/01 . Pertanto, nel caso di specie, in presenza di sufficiente e adeguata motivazione della corte d'appello che si è pronunciata sulle circostanze addotte dalle parti, ogni ulteriore esame investente il merito è precluso a questa Corte. Ove si condividano i testé formulati rilievi, il ricorso può essere trattato in camera di consiglio ricorrendo i requisiti di cui all'art. 375 c.p.c P.Q.M Rimette il processo al Presidente della sezione per la trattazione in Camera di Consiglio. Roma, 03.04.2014 Il Cons. Relatore . Vista la memoria del ricorrente rilevato che non sussistono le condizioni per la trattazione congiunta del presente procedimento con quello numero 28903/12 considerato che non emergono elementi che possano portare a diverse conclusioni di quelle rassegnate nella relazione di cui sopra e che pertanto il ricorso va rigettato con condanna del fallimento al pagamento delle spese di giudizio liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il fallimento al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 2800,00 oltre Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie ed oltre accessori di legge.