Divieto di concorrenza se il cedente si avvale di schemi societari per dissimulare la propria posizione

Il divieto di concorrenza interviene per tutelare l’avviamento del nuovo esercizio commerciale. Il cedente dell’attività commerciale che inizi un’attività similare a quella ceduta, entrando con una quota minoritaria nell’impresa familiare, viola il suddetto divieto.

E’ stato così affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 14471, depositata il 25 giugno 2014, con la quale gli Ermellini si sono espressi in relazione alla questione relativa al divieto di concorrenza sancito nell’art. 2557 c.c. Chi aliena l''aziendadeve astenersi, per il periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che per l'oggetto, l'ubicazione o altre circostanze sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta . . Il caso. Il ricorrente chiedeva l’inibizione del convenuto per l’esercizio di attività concorrenziale illecita e che lo stesso fosse condannato per risarcimento dei danni. Il ricorrente aveva acquistato dal convenuto un esercizio commerciale per la rivendita di frutta e verdura. Dopo un anno, lo stesso cedente era entrato con uno quota di minoranza nell’impresa familiare, che gestiva un’attività commerciale similare a quella ceduta. Il supermercato, il cui titolare era la sorella del cedente, aveva all’interno un reparto di prodotti ortofrutticoli, di fatto gestito dal cedente stesso. Mentre il giudice di primo grado assolveva l’originario cedente, risultando che lo stesso si era limitato ad una collaborazione di fatto nell’ambito dell’impresa gestita dalla sorella, il Giudice d’appello, invece, lo riteneva responsabile della violazione del divieto di concorrenza ex art. 2557, comma 1, c.c In aggiunta, riteneva responsabile di concorrenza sleale la sorella del convenuto ex art. 2598 c.c Avverso la sentenza di condanna di secondo grado, proponevano ricorso per cassazione i soccombenti, lamentando la falsa applicazione della norma sul divieto di concorrenza, perché il ricorrente, cedente di un’azienda per il commercio di prodotti ortofrutticoli, era divenuto poi socio di minoranza di un’impresa familiare che commerciava diverse tipologie di merce di cui solo una, nella misura del 25%, era costituita da prodotti ortofrutticoli. Deduce ulteriormente che l’art. 2557 c.c., in quanto norma eccezionale, non doveva essere interpretata analogicamente, come invece sostiene essere avvenuto nel caso di specie. Il divieto di concorrenza non ha natura eccezionale. La Corte, nel decidere la questione, ricorda il principio, affermato nella giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, la disposizione contenuta nell’art. 2557 c.c., che inibisce per 5 anni il cedente di un’azienda dall’iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell’azienda ceduta, appropriandosi dell’avviamento, non ha il carattere dell’eccezionalità. Con essa il legislatore non ha infatti posto una norma derogativa del principio della libera concorrenza, ma ha inteso disciplinare nel modo più appropriato la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti Cass., n. 27505/2008 . La Cassazione ha poi affermato che non può essere esclusa l’estensione analogica della suddetta norma all’ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società di capitali, ove il giudice di merito accerti che tale cessione abbia realizzato un caso simile all’alienazione d’azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell’azienda. Tale principio ha portata generale e perciò è applicabile sia sotto il profilo della titolarità apparente dell’azienda in effetti ceduta, sia sotto quello in cui il venditore inizi a svolgere un’attività commerciale concorrente avvalendosi di schemi societari per dissimulare la propria posizione. Il Giudice deva valutare discrezionalmente l’idoneità della condotta. Inoltre, il Collegio ha più volte affermato il carattere di relatività della norma civilistica, nel senso che l’operatività del divieto rimane subordinata ad un giudizio di idoneità della nuova impresa a sviare la clientela di quella ceduta, che va apprezzato caso per caso dal giudice con riguardo all’ubicazione e ad ogni altra circostanza influente, valutazioni quindi discrezionali. Nel caso di specie, la Corte ha riconosciuto, nel giudizio dei Giudici territoriali, adeguate e esaustive motivazioni circa l’accertamento della condotta illecita del cedente. Questi avevano accertato che il cedente aveva di fatto gestito in proprio il settore ortofrutticolo del supermercato ove era giornalmente presente, provvedendo agli acquisti dei prodotti, all’allestimento dello stand, a sottoscrivere bolle ed a consigliare i clienti. La ricostruzione e le valutazioni dei giudici di primo grado sono quindi incensurabili. Sulla base di tali ragionamenti la Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 13 maggio – 25 giugno 2014, numero 14471 Presidente Vitrone – Relatore Ragonesi Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato l'11.5.98 M.R. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Teramo M.R. e la ditta Mule idee di M.I. , esponendo che con atto in data 7-3-1996 aveva acquistato da M.R. un esercizio commerciale sito in Giulianova Lido, al viale , per la rivendita di frutta e verdura che, iniziata l'attività. commerciale, aveva notato che, a partire dal marzo 1997, sullo stesso viale Orsini di Giulianova ed a poca distanza dall'esercizio commerciale da lui acquistato aveva avuto inizio l'attività di un piccolo supermercato denominato omissis , gestito dalla ditta Mule idee , la cui titolare era la sorella del venditore che all'interno del supermercato il reparto di prodotti ortofrutticoli era di fatto gestito da M.R. , il quale aveva associato il proprio nome a quello della ditta Mule idee provvedendo alla realizzazione anche di attività pubblicitaria. Ciò esposto, assumendo l'illiceità dell'attività concorrenziale di M.R. e del comportamento dell'impresa Mule idee ai sensi degli artt. 2557 e 2598 numero 3 c.c., chiedeva che fosse inibito ai convenuti l'esercizio dei comportamenti illeciti e che gli stessi fossero condannati al risarcimento dei danni da lui subiti. Avendo resistito alla domanda entrambi i convenuti, all'esito del procedimento,con sentenza in data 24-6-2003, notificata il 24-2-2004, il Tribunale adito rigettava la domanda, condannando l'attore al pagamento delle spese di giudizio. Premesso che la norma di cui al'art. 2557 c.c. restava sottesa ad impedire che l'alienante con la nuova attività potesse mettere in pericolo la clientela dell'azienda ceduta, osservava il Giudicante che dalla svolta attività istruttoria non erano emersi sufficienti elementi di prova idonei a comprovare comportamenti, configuranti l'attività concorrenziale vietata dalla legge a carico del M. . Riteneva, in particolare, che non era rimasta dimostrata un'attività di gestione e di direzione dell'azienda da parte di quest'ultimo nel nuovo esercizio commerciale, essendo risultato che il convenuto si limitava ad una collaborazione di fatto e senza poteri, di carattere solo materiale, nell'ambito dell'impresa gestita dalla sorella. Non potevano infatti integrare attività di gestione l'acquisto, il ritiro presso i fornitori o lo scarico dei prodotti ortofrutticoli, né il semplice consiglio che il M. del tutto saltuariamente prodigava ai clienti nel reparto del supermercato attrezzato a self-service, essendo stato per contro confermato da numerosi testimoni che il nuovo esercizio commerciale era gestito esclusivamente da M.I. , quale titolare della sua ditta. Riteneva peraltro il Tribunale del tutto irrilevante la circostanza dell'avvenuta costituzione di un'impresa familiare da parte dei due fratelli, in primo luogo poiché dalla documentazione acquisita risultava che tale impresa aveva tutt'altro oggetto vendita di abiti da sposa rispetto al commercio dei prodotti ortofrutticoli, ed inoltre poiché nell'ambito della detta società il convenuto titolare del solo 20% delle quote non risultava rivestisse ruoli direttivi come quelli di socio di maggioranza o di amministratore unico . Quanto all'utilizzo di buste di plastica con la dicitura M.R. riteneva il Tribunale che neppure siffatto elemento fosse idoneo a connotare l'illecita attività concorrenziale, atteso che l'indirizzo ivi stampato si riferiva al vecchio esercizio commerciale sito alla via Orsini numero 60, e non già al supermercato, sito alla via omissis . Analoga opinione esprimeva in ordine alla distribuzione dei biglietti da visita, recanti nell'indirizzo il numero civico 60. Per quanto riguardava la pubblicità radiofonica, dalla deposizione del titolare dell'emittente era risultato che quest'ultimo, di sua iniziativa e gratuitamente, aveva provveduto ad inserire il nominativo del M.R. senza che la ditta committente avesse approvato preventivamente il messaggio, sicché nessun atto di sviamento della clientela poteva imputarsi al convenuto, neppure sotto tale profilo. Inoltre, rilevava il Tribunale che dallo svolgimento dell'attività degli investigatori incaricati dall'attore non era possibile acquisire elementi di prova di segno favorevole alla sua tesi, dato il ridotto arco di tempo dell'osservazione, in base al quale poteva ritenersi accertata una presenza solo saltuaria del M. nel reparto del supermercato. Infine, con riferimento alle risultanze della consulenza tecnica di ufficio riteneva il primo Giudice che comunque non poteva giudicarsi comprovato il danno lamentato dall'attore in conseguenza dell'asserita illecita concorrenza. Con atto di citazione notificato in data 23-3-2004 proponeva appello avverso l'indicata decisione il Me. , il quale svolgeva motivi di censura a sostegno dell'impugnazione. Resistevano al gravame gli appellati, chiedendone il rigetto. La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza numero 764/08, in accoglimento dell'appello ed in riforma della impugnata sentenza, dichiarava M.R. responsabile della violazione del divieto di concorrenza ex art. 2557, 1 comma, c.c., ed M.I. , quest'ultima quale titolare della ditta Mule Idee , responsabile di concorrenza sleale ex art. 2598 numero 3 c.c., ai danni di Me.Ro. condannava M.R. e M.I. , quest'ultima nella qualità, in solido tra loro, al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, in favore di Me.Ro. , della somma di Euro.46.481,12, con accessori condannava M.R. e M.I. , quest'ultima nella. qualità, in solido tra loro, al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio. Avverso la detta sentenza ricorre per cassazione M.R. sulla base di due motivi cui resiste con controricorso il Me. . Motivi della decisione Con il primo motivo di ricorso il ricorrente contesta la sentenza impugnata deducendo che questa aveva erroneamente ritenuto sussistere atti di concorrenza sleale ex art. 2557 c.c. perché esso ricorrente, cedente di una azienda per il commercio di prodotti ortofrutticoli,era poi divenuto socio di minoranza di una impresa familiare che commerciava in diverse tipologie merceologiche di cui solo una nella misura del 25% era costituita da prodotti ortofrutticoli. Deduce ulteriormente il ricorrente che l'art. 2557 c.c., in quanto norma eccezionale, non sarebbe suscettibile di interpretazione analogica come invece sostiene essere avvenuto nel caso di specie. Con il secondo motivo si duole, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, per non avere la Corte d'appello tenuto conto delle censure mosse alla consulenza tecnica d'ufficio posta alla base della determinazione del danno. Il primo motivo è infondato. Va anzitutto disattesa la tesi difensiva secondo cui l'art. 2557 c.c. avrebbe natura eccezionale con esclusione, quindi, della sua applicazione in via analogica. La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente affermato il principio contrario ribadendo che la disposizione contenuta nell'art. 2557 cod. civ., la quale stabilisce che chi aliena l'azienda deve astenersi, per un periodo di cinque anni dal trasferimento, dall'iniziare una nuova impresa che sia idonea a sviare la clientela dell'azienda ceduta, appropriandosi nuovamente dell'avviamento, non ha il carattere dell'eccezionalità, in quanto con essa il legislatore non ha posto una norma derogativa del principio di libera concorrenza, ma ha inteso disciplinare nel modo più congruo la portata di quegli effetti connaturali al rapporto contrattuale posto in essere dalle parti. Cass. 27505/08 Cass. 9682/00 Cass. 549/97 Cass. 1643/98 . È stato pertanto affermato che non è esclusa l'estensione analogica del citato art. 2557 cod. civ. all'ipotesi di cessione di quote di partecipazione in una società di capitali, ove il giudice del merito, con un'indagine che tenga conto di tutte le circostanze e le peculiarità del caso concreto, accerti che tale cessione abbia realizzato un caso simile all'alienazione d'azienda, producendo sostanzialmente la sostituzione di un soggetto ad un altro nell'azienda Cass. 27505/08 Cass. 9682/00 Cass. 549/97 Cass. 1643/98 . Tale principio di portata generale è applicabile tanto sotto il profilo della titolarità apparente dell'azienda in effetti ceduta che sotto quello in cui il venditore inizi a svolgere una attività commerciale concorrente avvalendosi di schermi societari per dissimulare la propria posizione. Sono poi inammissibili le ulteriori censure contenute nel primo motivo di ricorso in base alle quali il ricorrente sostiene che il fatto di essere divenuto socio di minoranza di una impresa familiare che commerciava in diverse tipologie merceologiche, di cui solo una nella misura del 25% era costituita da prodotti ortofrutticoli costituenti l'oggetto dell'azienda da lui ceduta,escludeva la violazione dell'art. 2557 c.c Questa Corte ha a più riprese affermato che, il divieto sancito dall’art. 2557 c.c. riveste carattere di relatività nel senso che, pur nel limite temporale da essa previsto cinque anni , e pur nell'ambito dell'identica attività mercantile, l'operatività del divieto rimane subordinata a un giudizio d'idoneità della nuova impresa a sviare la clientela di quella ceduta , che va apprezzato caso per caso dal giudice con riguardo all'ubicazione della nuova impresa e ad ogni altra circostanza influente, e che non può, per sua stessa natura, non assumere carattere discrezionale Cass. 2225/75 Cass. 549/97 Cass. 1643/98 Cass. 27505/08 Cass. 9682/00 . Nel caso di specie, la Corte d'appello con argomentazione adeguata ed esaustiva ha accertato che il M. pochi mesi dopo la cessione dell'azienda al Me. era entrato con una quota minoritaria del 20% nella impresa familiare, la cui quota di maggioranza 51% era detenuta dalla sorella e di cui faceva parte anche la moglie del ricorrente ed il nipote, che gestiva minimercati alimentari sulla medesima strada dell'azienda ceduta ed a poca distanza da essa. La Corte d'appello ha accertato poi sulla base degli elementi acquisiti in giudizio, che il M. ha di fatto gestito in proprio il settore ortofrutticolo del supermercato ove era giornalmente presente provvedendo agli acquisti dei prodotti, all'allestimento dello stand, a sottoscrivere le bolle ed a consigliare i clienti. Inoltre il nome del ricorrente veniva pubblicizzato radiofonicamente ed era impresso sulle buste di plastica usate per contenere i prodotti ortofrutticoli ove in alcuni casi era riportato anche l'indirizzo dell'esercizio ceduto al resistente. Trattasi di valutazione in fatto che siccome adeguatamente motivata sotto il profilo logico - giuridico non si presta a sindacato in questa sede di legittimità. Le censure che il ricorrente muova a siffatta motivazione tendono in realtà a prospettare una diversa interpretazione delle risultanze processuali investendo in tal modo inammissibilmente il merito della decisione. Il secondo motivo è inammissibile prima ancora che infondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento non è quindi necessario che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte. Le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in tal caso in mere allegazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall'art. 360 numero 5 cod. proc. civ Cass. 8355/07 Cass. 17606/07 Cass. 12080/00 . Nel caso di specie, lo stesso ricorrente riporta nel ricorso un brano della CTU ova venivano prese in esame le contestazioni mosse dal consulente di parte onde nessuna specifica motivazione faceva carico sul punto alla Corte d'appello. Quest'ultima del resto non si è limitata a riportarsi alle risultanze della CTU ma,andando di diverso avviso rispetto al giudice di primo grado, ha ampiamente spiegato le ragioni per cui ha ritenuto che vi fosse la prova del danno subito dall'odierno resistente e del suo ammontare determinato sulla base del calo delle vendite e del mancato sviluppo dell'azienda. Anche in questo caso le censure del ricorrente tendono a prospettare una diversa interpretazione delle risultanze processuali investendo quindi il merito della decisione. Il ricorso va in conclusione respinto. Il ricorrente va di conseguenza condannato al pagamento delle spese processuali liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 4000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi ed oltre spese forfettarie 15% ed accessori di legge.