I marchi degli uomini e delle donne sono uguali … ma uno è contraffatto

Una società produce abbigliamento da uomo e l’altra da donna, tuttavia i marchi sono troppo simili e confondibili tra loro. La contraffazione c’è eccome.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 15957/2012, depositata il 20 settembre. Il caso. Una azienda di abbigliamento conveniva in giudizio un’altra società, chiedendo che fosse accertata la contraffazione, da parte della convenuta, del proprio marchio. Chiedeva, dunque, l’accertamento dell’avvenuto compimento da parte della convenuta di atti di concorrenza sleale e le conseguenti condanne alla inibitoria ed al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio. Contraffazione acclarata. Nei giudizi di merito veniva affermata la contraffazione e la società soccombente veniva inibita all’uso del marchio ed alla prosecuzione dei comportamenti contestati. Quest’ultima presenta ricorso per cassazione. La & amp ” non basta a rendere i loghi differenti. La sola & amp ” commerciale inserita in uno solo dei loghi non è sufficiente a salvare l’azienda che ha copiato” il marchio. Neanche il fatto che l’azienda produca capi di abbigliamento destinato a un pubblico di sesso diverso da quello per cui crea il concorrente scongiura il rischio di confusione tra i marchi. L’abbigliamento venduto dalle aziende è per un consumatore di sesso diverso ma la confusione rimane. La confondibilità dei marchi – secondo l’orientamento prevalente della Cassazione - nasce dall’idoneità del prodotto a soddisfare il medesimo tipo” di bisogni, cosicché la clientela, attesa la ontologica vicinanza tra i prodotti offerti al mercato, è indotta, per somiglianza dei due segni, a confondere .

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 luglio – 20 settembre 2012, n. 15957 Presidente Carnevale – Relatore Berruti Svolgimento del processo Con citazione del 10 febbraio 2003 la Daniel & amp Mayer s.r.l., operante nel settore dell'abbigliamento, conveniva davanti al Tribunale di Milano la società Naman chiedendo fosse accertata la contraffazione, da parte della convenuta, del marchio, ditta, ed insegna Daniel & amp Mayer depositato da essa attrice il 2 novembre 1981, successivamente concesso e poi rinnovato. Chiedeva quindi l'accertamento dell'avvenuto compimento da parte della convenuta di atti di concorrenza sleale e le conseguenti condanne alla inibitoria ed al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio. Resisteva la Sri Gruppo Naman chiedendo il rigetto delle domande e la condanna dell'attrice ai sensi dell'articolo 96 del codice di procedura civile. Il Tribunale accoglieva la domanda dell'attrice accertando la affermata contraffazione e dando i conseguenti provvedimenti di inibitoria all'uso del marchio ed alla prosecuzione dei comportamenti contestati. Emetteva condanna generica al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio e fissando una penale per ogni violazione futura. Proponeva appello la società soccombente con atto del luglio 2007. Resisteva la Sri Daniel & amp Mayer proponendo anche appello incidentale ed insistendo per la condanna della convenuta alla pubblicazione della sentenza che definitivamente avesse accertato l'illecito affermato. La Corte d'appello di Milano respingeva entrambi gli appelli. La sentenza in esame, premesse alcune considerazioni di carattere giuridico generale circa la nozione dell'illecito di cui si trattava, riportava, in ampi brani, la decisione dell'Ufficio Armonizzazione del mercato interno, Uami , relativa alla procedura numero 2514 e, emessa in data 2 marzo 2009, avente ad oggetto in quella sede amministrativa il conflitto tra gli stessi segni di cui si tratta. Riteneva confondibili i due segni posti in comparazione e li considerava relativi peraltro a prodotti affini quali l'abbigliamento femminile o maschile ovvero ancora alla produzione e commercializzazione di accessori di abbigliamento. Contro questa sentenza ricorre per cassazione con atto articolato su quattro motivi il Gruppo Narnan S.r.l Resiste con controricorso la Daniel & amp Mayer S.r.l Le parti hanno depositato memorie. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo del suo ricorso il Gruppo Naman lamenta la violazione dell'articolo 1 della legge marchi, oggi articolo 20 comma 1, del decreto legislativo n. 30 del 2005, in relazione all'articolo 360 n. 3, cpc. Ritiene che nella materia della contraffazione dei marchi occorra procedere a due diversi e distinti raffronti, l'uno tra i segni e l'altro tra i prodotti contraddistinti. Cosicché confondibilità tra segni ed identità, o affinità, tra prodotti danno luogo a due distinti giudizi che non possono essere considerati tra loro indipendenti essendo invece entrambi essenziali all'accertamento dell'illecito concorrenziale. Ritiene la ricorrente che la Corte di merito abbia rigettato l'appello confondendo i due predetti esami ovvero dimenticando che la mera relazione tra le classi merceologiche di riferimento non è sufficiente quando, come nel caso di cui si tratta, i beni marcati ovvero i prodotti di commerciali sono destinati a consumatori finali diversi, ed a mezzo di reti di distribuzione e di vendita diverse. Ciò in particolare avverrebbe quando si tratta di abiti per uomo rispetto agli abiti per donna, ed agli abiti in generale ed al prodotto di cuoio quale è la scarpa. 2. Con il secondo motivo di ricorso il Gruppo Naman lamenta l'omessa motivazione circa un fatto controverso, decisivo della controversia. Proseguendo nella doglianza innanzi sintetizzata infatti, ritiene che la Corte d'appello nella valutazione dei prodotti ovvero della loro identità o affinità, accertamento essenziale e complementare a quello della astratta confondibilita tra i segni, non ha considerato la diversità dell'attività nel settore di abbigliamento femminile rispetto a quella che si svolge nel campo della abbigliamento maschile, attività che concernono il soddisfacimento di gusti differenti, rilevanti in mercati del tutto distinti. 3. Con il terzo motivo di ricorso Naman lamenta ancora la motivazione insufficiente circa un fatto controverso e decisivo, in relazione all'articolo 360, n. 5, cpc. Proseguendo la doglianza che si è innanzi sintetizzata,lamenta che il giudice di merito non abbia considerato che i consumatori finali dell'abbigliamento femminile rispetto a quelli dell'abbigliamento maschile sono distinti cosicché il rischio di confusione nel pubblico tra i due segni non poteva sussistere. 4. Con l'ultimo motivo la società ricorrente lamenta ancora la violazione dei principi di cui all'articolo 360, n. 5 cpc conseguente alla motivazione insufficiente sul fatto controverso e decisivo per il giudizio relativo alla comparazione fra i segni. La corte di merito, secondo siffatta doglianza, pur partendo da astratte e condivisibili premesse giuridiche tuttavia non motiva in ordine alla incidenza del cosiddetto fattore concettuale nella valutazione globale dei segni in conflitto. 5. Ritiene il collegio che i motivi, in parte anche sostanzialmente coincidenti, sono comunque tutti connessi da una identità di ragione logica essi contestano l'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito, in quanto non motivato ovvero dimentico di specifici principi giuridici. I motivi pertanto possono essere esaminati insieme. 5.a. Va premesso che la sentenza in esame ha adottato una specifica tecnica di redazione. Essa infatti riporta analiticamente i capi saldi della decisione di primo grado della quale dunque indica oltre ai capi poi impugnati, pur sinteticamente, le ragioni adottate. Quindi riporta nella sua motivazione larghi brani, s'è detto, della decisione amministrativa dello Uami riguardanti specifici punti in contestazione, ovvero la astratta comparazione fra i segni, la considerazione delle classi merceologiche rispetto ai quali erano stati rilasciati, classe numero 25 due abbigliamento , e la comparazione fra i prodotti offerti al mercato dai due imprenditori oggi in lite. La Corte di merito quindi precisa di condividere i passaggi essenziali, per l'appunto riportati testualmente, della predetta decisione Uami, peraltro correlati agli essenziali punti della decisione di primo grado rispetto alla quale, esplicitamente, pure consente. Quindi dopo tale premessa che é strutturalmente argomentativa e motivazionale e non solo puramente narrativa, la sentenza di merito esamina i due segni in comparazione. Va detto che questo collegio ha omesso di prendere in esame i medesimi direttamente, come oggettivamente suggerito dal fatto che essi sono graficamente riportati nel testo della sentenza impugnata. Il collegio,piuttosto, ha fatto riferimento alle parole della sentenza impugnata, ovvero alla sua motivazione. Questa, condividendo e riportando i punti della decisione Uami, rileva l'essenzialità della parola Mayer in entrambi i segni, considera irrilevante il fatto che la predetta parola costituisca per uno dei due imprenditori nome patronimico e per altro invece prenome, rileva come i segni abbiano sostanzialmente la stessa lunghezza, che la & amp inclusa nel segno solo dell’attrice tra le parole David e Mayer non è sufficiente ad differenziarli e che la stessa lettura in lingua italiana ovvero la pronuncia della loro lettura da luogo ad una coincidenza di almeno il 50% delle sillabe costitutive. La Corte di merito rileva che i nomi di persone non rappresentano un concetto vero e proprio cosicché non è possibile far riferimento alla categoria della simiglianza o della diversità concettuale, utile tutte le volte in cui il marchio abbia un nucleo cosiddetto ideologico, individuante per l'appunto uno specifico concetto. Quindi ritiene che la confondibilità possa essere figlia anche di una situazione nella quale nel concreto ad un tenue grado di somiglianza tra prodotti o servizi si abbia invece un elevato grado di somiglianza tra i marchi, e viceversa. Ancora il giudice di merito,e sempre sulla scorta della decisione Uami che ancora una volta condivide, individua un'affinità specifica tra i prodotti di abbigliamento per uomo a quelli per donna nonché ancora benché meno forte, tra i prodotti di abbigliamento in generale e le scarpe che dei primi fanno comunque parte, anche in considerazione della circostanza della identità o della vicinanza dei canali di distribuzione. 2. Il collegio osserva che questa Corte di Cassazione da tempo ha dato luogo ad un orientamento dal quale non vi sono motivi per discostarsi, sulla esperienza della disciplina di cui all'articolo 1 RD n. 929 del 1942, oggi art. 20 CPI. L'orientamento suddetto individua uno specifico illecito concorrenziale nel fatto che l'imprenditore determini nel mercato il rischio di confusione adottando per il proprio prodotto un marchio confondibile con quello adoperato da un concorrente per distinguere un prodotto affine. Detta confondibilità nasce dalla idoneità del prodotto a soddisfare il medesimo tipo di bisogni, cosicché la clientela, attesa la ontologica vicinanza tra i prodotti offerti al mercato, é indotta, per somiglianza dei due segni, a confondere i produttori. Cass. nn. 4295 del 1997, 1424 del 2000, 23787 del 2004, 3548 del 2006, quest'ultima anche in termini di espansività dell'impresa titolare del, 6720 del 2008, 29775 del 2008 . 5.b. Ciò premesso i motivi sono tutti infondati. È infondato il primo motivo/giacché il giudice di merito ha accertato che,quanto agli articoli di abbigliamento per i quali i marchi erano stati richiesti al momento della registrazione per uomo e per donna classe 25 , essi sono identici ovvero affini. È infondato il secondo motivo, giacché la corte di merito sui punti predetti ha pienamente motivato anche facendo propria la decisione Uami e condividendone i passaggi riportati. È infondato il terzo motivo giacché la affinità con riferimento alle scarpe rispetto all'abbigliamento in generale è stata nella specie, e nel concreto, individuata anche in base alla identità dei canali di approvvigionamento al mercato, ancora una volta motivazione Uami riportata e fatta propria dal giudice di Milano . Ndr pagine mancanti da originale