Preleva dal conto senza permesso e paga i debiti della società: nulla da risarcire

L’amministratore prende del denaro senza il consenso del presidente del c.d.a., salda delle fatture e transa una lite con un ex dipendente, ma non è responsabile verso la s.p.a. se questa non dimostra l’utilizzo improprio e il danno lamentato.

Secondo la regola imposta dall’art. 2697 c.c. spetta a chi vuol far valere un diritto in giudizio provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel caso di un amministratore che preleva delle somme dal conto della s.p.a. per pagare alcuni debiti della stessa e per sostenere i costi di una transazione con un ex dipendente, tocca alla società dimostrare l’utilizzo improprio del denaro. Così afferma la Prima sezione Civile della Corte di Cassazione nella sentenza numero 434/12, depositata il 16 gennaio scorso. Il caso. L’amministratore di una s.p.a. effettua dei prelievi di denaro dal conto corrente della società. Una parte viene impiegata per la transazione di una lite con un ex dipendente. Un’altra parte viene utilizzata per il pagamento di alcune fatture relative alle prestazioni offerte da una società di servizi ecologici. L’ammontare restante viene trattenuto dall’amministratore a copertura degli emolumenti dovutigli per gli esercizi degli ultimi due anni. La società ritiene, però, che le condotte poste in essere dall’amministratore violino le disposizioni statutarie che vietano di compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il consenso del presidente del consiglio di amministrazione. Si finisce dunque in Tribunale. La società chiede il risarcimento dei danni, ma i giudici di primo grado respingono la domanda e, successivamente, la Corte territoriale conferma la decisione. Si arriva quindi in Cassazione. La svantaggiosità dell’accordo transattivo va dimostrata. I giudici di merito ritengono le condotte dell’amministratore perfettamente rientranti nei poteri gestori esercitabili autonomamente dallo stesso. Rilevano inoltre il fatto che la società non ha mai dedotto la svantaggiosità dell’accordo transattivo concluso con l’ex dipendente, limitandosi a pretende dalla controparte la somma corrispondente a quella da versare. Nel ricorso in Cassazione, però, la s.p.a. denuncia violazione di norme e vizi di motivazione sostenendo che, avendo la transazione ad oggetto una somma di denaro rilevante, questa fosse da considerare eccedente l’ordinaria amministrazione e che il danno derivato dall’illecito fosse provato in re ipsa , essendo conseguenza del versamento di una cifra consistente. La Suprema Corte dichiara il motivo inammissibile. La parte, infatti, non ha precisato quali siano le circostanze allegate nel corso del giudizio di merito e trascurate dal giudice d’appello, che avrebbero dovuto convincere della sussistenza di un pregiudizio economico derivatole dalla stipula della transazione , ma si è limitata a dedurre, per la prima volta nel giudizio di legittimità, che la mera pendenza della lite con il suo ex dipendente è sufficiente a dimostrare l’infondatezza delle pretese da quest’ultimo avanzate e, di conseguenza, la sconvenienza del contratto concluso dall’amministratore. Argomento ritenuto di scarso pregio. L’onere della prova dell’improprio utilizzo del denaro incombe sulla società. La s.p.a. lamenta poi il fatto che la Corte d’appello ha posto a carico di questa l’onere di provare l’utilizzo a fini extrasociali della somma prelevata. Anche questo motivo è infondato. Nel giudizio di merito, l’amministratore ha fornito prova documentale dell’utilizzo del denaro impiegato per saldare alcuni debiti della società. La Suprema Corte ricorda come, del resto, sia una regola imposta dal codice civile quella secondo la quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. Nel caso specifico, toccava dunque alla s.p.a. dimostrare l’utilizzo improprio del denaro. In ogni caso però, questa genere di prova non sarebbe ammissibile in sede di legittimità, ma andrebbe prodotta nei precedenti gradi di giudizio.

Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 9 novembre 2011 – 16 gennaio 2012, n. 434 Presidente Vitrone – Relatore Cristiano Svolgimento del processo La Corte d'Appello di Milano, con sentenza del 10.12.04, ha respinto l'appello proposto da Re.Al. Service Pie s.p.a. avverso la sentenza 10.10.02 del Tribunale di Monza, che aveva a sua volta respinto la domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla società, ai sensi dell'art. 2392 c.c., nei confronti dell'amministratore B.S. . La Corte territoriale ha rilevato che Re.Al. Service Pie si era limitata ad imputare al B. di aver violato in due occasioni lo statuto societario - che gli vietava di compiere atti eccedenti l'ordinaria amministrazione senza il consenso del presidente del C.d.A. - per aver, di propria iniziativa, transatto una lite con un ex dipendente, riconoscendogli la somma di 55 milioni di lire, e per aver prelevato dal conto corrente ad essa intestato 180 milioni di lire, ma che non aveva provato che da tali condotte, peraltro non esulanti dai poteri gestori esercitabili autonomamente dall'appellato, le fosse derivato un pregiudizio economico che, in particolare, la società non aveva neppure dedotto che la transazione fosse stata svantaggiosa o contraria ai suoi interessi, tenuto conto delle pretese avanzate dall'ex dipendente dinanzi al giudice del lavoro, né aveva dimostrato che la somma prelevata dal B. , di cui risultava documentato l'utilizzo, fosse stata in realtà distratta a fini extrasociali. Real Service Pie s.p.a. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a due motivi. S B. non ha svolto difese. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo di ricorso, Re.AI Service Pie, denunciando violazione di non indicate norme di diritto e vizi di motivazione, rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, la stipula di una transazione comportante una spesa di 55 milioni delle vecchie lire era atto sicuramente eccedente l'ordinaria amministrazione assume, inoltre, che il danno derivato dall'illecito risultava provato in re ipsa , avendo essa dovuto versare una consistente somma di denaro ad un lavoratore le cui pretese erano contestate. Il motivo va dichiarato inammissibile. La domanda risarcitoria la cui causa petendi era costituita dall'avvenuta conciliazione della causa di lavoro è stata respinta dalla Corte di merito in base al duplice rilievo che l'atto non esulava dagli ordinari poteri di gestione dell'amministratore e che Re.Al. Service si era limitata a pretendere dal B. la somma corrispondente a quella da versare ., senza neppure prefigurare la svantaggiosità della transazione rispetto alle richieste avanzate avanti al giudice del lavoro dal dipendente . Tale seconda ratio decidendi non è stata sottoposta ad alcuna critica dalla ricorrente, che, anziché precisare quali circostanze, da essa allegate nel corso del giudizio di merito e trascurate dal giudice d'appello, avrebbero dovuto convincere della sussistenza di un pregiudizio economico derivabile dalla stipula della transazione, ha assiomaticamente dedotto, per la prima volta nella presente sede di legittimità, che la mera pendenza della lite con il suo ex dipendente era sufficiente a dimostrare l'infondatezza delle pretese da questi avanzate e la conseguente. i sconvenienza del contratto concluso da B. . L'assenza di una specifica censura concernente una delle due autonome rationes decidendi sulle quali si fonda il capo della sentenza impugnato, rende superfluo l'esame di quella volta a contestare che la transazione costituisse atto di ordinaria amministrazione, che, quand'anche fondata, non potrebbe da sola condurre all'accoglimento del motivo. 2 Col secondo mezzo la ricorrente, denunciando ulteriore violazione di non indicate norme di diritto nonché vizio di motivazione, lamenta che la Corte territoriale abbia posto a suo carico l'onere di provare che la somma indebitamente prelevata da B. era stata utilizzata per fini extrasociali. La doglianza è infondata. La Corte di merito ha infatti rilevato che, proprio dalla documentazione prodotta da Re.Al. Service, emergeva che l'appellato aveva utilizzato una parte della somma in questione per il pagamento di servizi fatturati dalla Axse s.r.l., mentre, per l'altra parte, l'aveva trattenuta a copertura degli emolumenti dovutigli per gli esercizi '99 e 2000. Ricorreva, pertanto, prova documentale che l'amministratore non aveva distratto a fini extrasociali la liquidità prelevata, ma l'aveva impiegata per saldare debiti gravanti sulla stessa Re.Al. Service ne consegue, che, secondo la regola imposta dall'art. 2697 c.c., spettava all'odierna ricorrente di fornire la prova contraria, ovvero di dimostrare che B. aveva, in realtà, utilizzato il denaro per eseguire, in tutto o in parte, pagamenti da essa non dovuti, in tal modo cagionandole un danno di ammontare corrispondente alle somme indebitamente versate o trattenute. Va aggiunto, per completezza, che la ricorrente non può pretendere di fornire tale prova nella presente sede di legittimità, attraverso l'inammissibile allegazione di documenti che avrebbe dovuto produrre nei precedenti gradi di merito. Poiché Serafino B. non ha svolto difese, non v'è luogo alla liquidazione delle spese del giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso.