Ufficio postale preso d’assalto dai rapinatori, pistola alla tempia di una dipendente: risarcita

Confermato in Cassazione il quantum stabilito in appello quasi 64mila euro per la lavoratrice. Evidenti, secondo i giudici, le carenze nelle misure adottate dall’azienda, misure mirate più alla conservazione del patrimonio che alla tutela dei dipendenti.

Dispositivi di sicurezza orientati più alla conservazione del patrimonio aziendale che alla tutela dei lavoratori. Legittima, di conseguenza, la condanna di Poste Italiane a risarcire la dipendente che durante l’azione di alcuni rapinatori nell’ufficio si è ritrovata con una pistola puntata alla nuca Cassazione, ordinanza n. 16378/21, sez. Lavoro, depositata il 10 giugno . All’origine dell’azione giudiziaria portata avanti da una dipendente di Poste Italiane c’è una rapina verificatasi in un ufficio postale nelle Marche. In quell’occasione la lavoratrice è stata minacciata dai malviventi e si è ritrovata con una pistola puntata alla tempia. Inevitabile la richiesta di risarcimento avanzata dalla donna nei confronti dell’azienda, a cui ella addebita la mancata predisposizione di adeguate misure di sicurezza per i dipendenti. Questa visione, respinta dai giudici del Tribunale, è invece ritenuta corretta dai giudici d’Appello, i quali condannano Poste al risarcimento del danno per l’infortunio lavorativo occorso alla dipendente , risarcimento quantificato in quasi 64mila euro. I legali della società impugnano la decisione d’Appello, mettono in discussione la responsabilità di Poste per l’infortunio lavorativo occorso alla dipendente e, soprattutto, sostengono che le misure adottate dall’istituto di credito erano funzionali alla protezione dei dipendenti , e non, contrariamente a quanto stabilito dai giudici di secondo grado, mirate esclusivamente alla preservazione del patrimonio aziendale . Queste obiezioni non convincono i magistrati della Cassazione, i quali, invece, confermano la responsabilità datoriale per la disavventura vissuta dalla lavoratrice e il connesso risarcimento. Acclarato l’ infortunio patito dalla dipendente, che, nel corso di una rapina avvenuta all’interno dell’ufficio postale ove prestava servizio, era stata minacciata da un rapinatore che le aveva puntato la pistola alla nuca , è emerso l’azienda non ha adottato tutti le misure idonee a garantire la sicurezza dei lavoratori presenti nell’ufficio , soprattutto considerando che l’ubicazione dell’ufficio postale, posto sotto i portici di un condominio in una zona periferica della città e quindi non visibile dalla strada e la possibilità di ingresso libero a chicchessia nei locali dell’ufficio, senza filtro di sicurezza rendevano altamente probabile il verificarsi di rapine . A inchiodare l’azienda, poi, anche la constatazione, effettuata dai giudici, che le misure adottate, quali vetri antisfondamento, sensori di allarme, telecamere per la visione degli accessi collegate a videoregistratori, dispensatori di denaro a tempo e pulsanti di allarme antirapina erano per lo più idonee a tutelare il patrimonio della società ma non anche funzionali a garantire la sicurezza dei dipendenti . Per i magistrati della Cassazione, infine, è evidente la responsabilità di ‘Poste’ alla luce della inidoneità delle concrete misure adottate a ostacolare il verificarsi di rapine, risultando i dispositivi di sicurezza orientati piuttosto alla tutela del patrimonio aziendale anziché alla effettiva tutela della incolumità dei dipendenti .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 novembre 2020 – 10 giugno 2021, n. 16378 Presidente Berrino – Relatore Pagetta Rilevato che 1. la Corte di appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, ha condannato Poste Italiane s.p.a. al risarcimento del danno per l’infortunio lavorativo occorso alla dipendente M.S. che ha quantificato in Euro 63.947,28 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria 2. per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Poste Italiane s.p.a. sulla base di due motivi la parte intimata ha resistito con controricorso entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380- bis.1 c.p.c Considerato che 1. con il primo motivo di ricorso la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c. ascrive alla sentenza impugnata di avere, nel porre a carico di essa Poste, la responsabilità per l’infortunio lavorativo occorso alla dipendente, dilatato l’ambito di tale responsabilità fino a configurare una sorta di responsabilità oggettiva, come tale non prevista nel nostro ordinamento 2. con il secondo motivo di ricorso deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per avere, in sintesi, affermato, che le misure adottate dall’istituto di credito erano intese più alla preservazione del patrimonio aziendale che alla tutela dell’incolumità dei dipendenti deduce che, al contrario, tali misure per la loro efficacia deterrente erano funzionali alla protezione dei dipendenti ed in questa prospettiva contesta le diverse conclusioni attinte dalla Corte di merito anche sulla base di deposizioni testimoniali che assume non correttamente valutate 3. il primo motivo di ricorso è inammissibile in quanto fondato sulla inesatta ricostruzione delle ragioni che sorreggono la affermazione della responsabilità datoriale 3.1. la sentenza impugnata, premesso che in tema di verifica della responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c., il lavoratore è tenuto a provare l’inadempimento datoriale e non anche la colpa di controparte stante la operatività della presunzione di cui all’art. 1218 c.c., mentre sul datore di lavoro ricade l’onere della prova di avere adottato tutti gli strumenti di protezione necessari a garantire la sicurezza del lavoratore, ha ritenuto che Poste Italiane, con riferimento all’infortunio subito dalla dipendente M. - la quale nel corso di una rapina avvenuta all’interno dell’ufficio postale presso il quale prestava servizio era stata minacciata da un rapinatore che le aveva puntato la pistola alla nuca - non avesse adottato tutti le misure idonee a garantire la sicurezza dei lavoratori presenti nell’ufficio in particolare, ha considerato che l’ubicazione dell’ufficio postale, posto sotto i portici di un condominio, in una zona periferica della città e quindi non visibile dalla strada, la possibilità di ingresso libero a chicchessia nei locali dell’ufficio, senza filtro di sicurezza, rendeva altamente probabile il verificarsi di rapine, peraltro all’epoca frequenti le misure adottate, quali vetri antisfondamento, sensori di allarme, telecamere per la visione degli accessi collegate a videoregistratori, dispensatori di denaro a tempo e pulsanti di allarme antirapina erano per lo più idonee a tutelare il patrimonio della società ma non anche funzionali a garantire la sicurezza dei dipendenti 3.2. dalle argomentazioni sopraindicate, a differenza di quanto sostiene parte ricorrente, non è dato evincere, nè in via di principio nè nella concreta applicazione dell’art. 2087 c.c., che la Corte di merito ha considerato l’obbligo di protezione di cui alla norma richiamata quale generatore di una responsabilità oggettiva a carico della parte datoriale al contrario, la responsabilità di Poste è stata fondata sulla inidoneità delle concrete misure adottate, tenuto conto delle condizioni di luogo, a ostacolare il verificarsi di rapine risultando i dispositivi di sicurezza orientati piuttosto alla tutela del patrimonio aziendale anziché alla effettiva tutela della incolumità dei dipendenti 3.3. la decisione risulta quindi del tutto conforme alla giurisprudenza di questa Corte in tema di obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro e sulla ripartizione dei relativi oneri di allegazione e prova ex plurimis Cass. n. 8855/2013, n. 14469/2000 e si sottrae alla censura di avere voluto configurare una responsabilità oggettiva a carico della parte datoriale 4. il secondo motivo di ricorso è inammissibile sia perché con esso parte ricorrente tende a sollecitare direttamente un diverso apprezzamento di fatto del materiale probatorio, apprezzamento precluso al giudice di legittimità Cass. n. 24679/2013, n. 2197/2011, n. 20455/2006, n. 7846/2006, n. 2357/2004 , sia perché, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6, non risultano neppure trascritte le risultanze delle quali si pretende una diversa rivisitazione 5. alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue il regolamento delle spese di lite secondo soccombenza 6. sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis Cass. Sez. Un. 23535/2019 . P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Con distrazione. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.