Shopping con i soldi del datore di lavoro: licenziato nonostante il risarcimento

Licenziamento confermato per il lavoratore di un ateneo. Fatale l’avere comprato diversi elettrodomestici coi soldi dell’ente pubblico. Irrilevante il richiamo dell’uomo alla mancanza di precedenti disciplinari e all’avere egli risarcito il danno arrecato.

Shopping sfrenato coi soldi, però, del datore di lavoro. Legittimo il licenziamento del dipendente, che non può giustificarsi richiamando un presunto stato psicologico di grave turbamento. Irrilevante, infine, anche l’avere risarcito il danno questa condotta non gli consente di salvare il posto di lavoro Cassazione, sentenza n. 12641/21, sez. Lavoro, depositata il 12 maggio . Chiara l’accusa nei confronti del lavoratore, dipendente di un ateneo gli viene contestato di avere effettuato acquisti di merce spendendo il nome dell’Università e addebitandone ad essa il costo . Una volta venute alla luce queste condotte, concretizzatesi nell’acquisto di diversi elettrodomestici, il dipendente viene messo alla porta dall’ateneo. E questa decisione è ritenuta corretta dai giudici di merito, i quali, prima in Tribunale e poi in Appello, ritengono evidente la gravità delle azioni compiute dal lavoratore. Quest’ultimo prova a difendersi sostenendo che all’epoca dei fatti egli si trovava in uno stato psicologico di grave turbamento, tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere, determinato dall’essere stato coinvolto nel naufragio della nave Costa Concordia, a bordo della quale viaggiava . I giudici di secondo grado, in particolare, ribattono che i consulenti sono pervenuti alla conclusione che il lavoratore era in grado di comprendere il disvalore sociale della condotta e anche capace di autodeterminarsi nella scelta fra il compiere o meno l’azione . In sostanza, si è escluso, secondo i giudici d’Appello, che il lavoratore fosse affetto da shopping compulsivo , anche perché gli acquisti erano avvenuti con soldi non propri e secondo una progettualità meditata e ben congegnata . E ciò rende legittima la sanzione adottata dall’ateneo, poiché, osservano ancora i giudici d’Appello, ci si trova di fronte a una condotta idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario , pur in assenza di precedenti disciplinari e di persistente pregiudizio economico per l’Università che aveva ottenuto dal lavoratore il risarcimento del danno subito. In Cassazione il dipendente si gioca le ultime carte per provare a salvare il posto di lavoro. Col ricorso egli sostiene che l’incapacità naturale non richiede l’assoluta privazione delle facoltà intellettive e volitive mentre, al contrario, è sufficiente un turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente , e in questa ottica egli pone in evidenza la patologia da cui era affetto nel periodo dello shopping a raffica, ossia un disturbo misto ansioso depressivo reattivo ad evento traumatico Peraltro, l’uomo ritiene anche che solo la malattia poteva spiegare il comportamento di un funzionario che, dopo aver prestato per oltre venti anni il servizio senza mai incorrere in alcun rilievo, acquista un numero considerevole di elettrodomestici sette televisori, quattro notebook, un congelatore, un frigorifero ed altro per poi regalarli o accatastarli nel garage . E proprio alla luce della anzianità lavorativa priva di ombre l’uomo ritiene esagerato il licenziamento, poiché, osserva con amarezza, non si è tenuto conto della condotta impeccabile tenuta nel lungo periodo di servizio, della malattia e dell’avvenuto risarcimento del danno . Le obiezioni proposte dal lavoratore vengono però respinte in modo netto dalla Cassazione. Per i Giudici di terzo grado va perciò confermato il licenziamento deciso dall’ateneo. Decisivo è il richiamo alla relazione del consulente tecnico d’ufficio, il quale ha escluso che il lavoratore versasse in una condizione di privazione delle facoltà intellettive e volitive e che queste ultime fossero così diminuite da far venire meno la sua capacità di autodeterminazione e la consapevolezza in ordine all’atto che stava per compiere . Al contrario, il consulente ha accertato che il lavoratore possedeva l’idoneità sia a comprendere il disvalore sociale dell’azione, sia a determinarsi consapevolmente nella scelta fra il compiere o meno l’atto . In questo quadro, poi, si inserisce la constatazione che gli acquisti effettuati spendendo il nome dell’Università ed utilizzando illecitamente risorse dell’ente pubblico erano avvenuti secondo una progettualità meditata e ben congegnata . Ciò consente di escludere l’ipotesi dello shopping compulsivo e di ritenere acclarate l’indiscutibile intenzionalità della condotta e la gravità dell’addebito . Questi elementi sono sufficienti, secondo i magistrati, per catalogare il comportamento tenuto dal lavoratore come idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario col datore di lavoro e a neutralizzare, elementi di fatto quali l’assenza di precedenti disciplinari a carico del lavoratore e il risarcimento da lui compiuto in favore dell’ateneo.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 20 gennaio – 12 maggio 2021, n. 12641 Presidente Torrice – Relatore Di Paolantonio Fatti di causa 1. La Corte d’ Appello di Catania ha respinto l’appello di S.A.F. avverso la sentenza del locale Tribunale che aveva rigettato il ricorso proposto nei confronti dell’Università degli Studi di [], con il quale era stato impugnato il licenziamento disciplinare per giusta causa, intimato con nota del 21 novembre 2013. 2. Il S. , al quale era stato contestato di avere effettuato acquisti di merce spendendo il nome dell’Università e addebitandone a quest’ultima il costo, si era difeso, nel procedimento disciplinare ed in sede giudiziale, sostenendo che le condotte di rilievo disciplinare erano state tenute in quanto all’epoca egli si trovava in uno stato psicologico di grave turbamento, tale da incidere sulla capacità di intendere e di volere, determinato dall’essere stato coinvolto nel naufragio della nave Co.Co. , a bordo della quale viaggiava. 3. La Corte territoriale, riassunti i termini della controversia ed evidenziato che in grado d’appello era stata disposta consulenza tecnica d’ufficio medico legale, ha richiamato le conclusioni alle quali i consulenti erano pervenuti ed ha ritenuto che al momento dei fatti l’appellante possedesse l’idoneità a comprendere il disvalore sociale della condotta e fosse anche capace di autodeterminarsi nella scelta fra il compiere l’azione o l’astenersi dalla stessa. 4. Il giudice d’appello ha escluso che il S. fosse affetto da shopping compulsivo ed ha sottolineato al riguardo che gli acquisti erano avvenuti con soldi non propri e secondo una progettualità meditata e ben congegnata, incompatibile con la natura stessa e con le caratteristiche dell’allegata patologia. 5. Infine la Corte ha ritenuto che la sanzione fosse proporzionata all’addebito perché idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, pur in assenza di precedenti disciplinari e di persistente pregiudizio economico dell’Università, alla quale l’appellante aveva risarcito il danno. 6. Per la cassazione della sentenza S.A.F. ha proposto ricorso sulla base di tre motivi, ai quali l’Università degli Studi di [] ha opposto difese con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 428 e 2729 c.c. nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c. e addebita alla Corte territoriale di avere ritenuto erroneamente che l’incapacità naturale richieda l’assoluta privazione delle facoltà intellettive e volitive quando, al contrario, è sufficiente un turbamento psichico che impedisca la formazione di una volontà cosciente. Il ricorrente sostiene che la patologia dalla quale era affetto, ossia disturbo misto ansioso depressivo reattivo ad evento traumatico, era stata accertata dai consulenti tecnici d’ufficio, i quali non potevano essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica dei fatti. Aggiunge che la Corte, tenuto conto della patologia pacificamente sussistente, avrebbe dovuto ritenere provata l’incapacità naturale in ragione di una serie di indizi gravi, precisi e concordanti, considerando anche che solo la malattia poteva spiegare il comportamento di un funzionario che, dopo aver prestato per oltre venti anni il servizio senza mai incorrere in alcun rilievo, acquista un numero considerevole di elettrodomestici sette televisori, quattro notebook, un congelatore, un frigorifero ed altro per poi regalarli o accatastarli nel garage. 2. La seconda critica denuncia l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione fra le parti ravvisato nella mancata considerazione dei rilievi critici formulati dal consulente tecnico di parte, quanto alla specifica patologia di shopping compulsivo pianificato ed alla mancata somministrazione da parte dei periti dei test specifici che avrebbero consentito l’accertamento della malattia. 3. Con il terzo motivo è denunciata la violazione degli artt. 2104 e 2106 c.c., dell’art. 115 c.p.c. nonché dell’art. 46, comma 1, del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto dell’Università e si addebita alla Corte territoriale di avere espresso un giudizio di proporzionalità non corretto, non avendo tenuto conto della condotta impeccabile tenuta nel lungo periodo di servizio, della malattia e dell’avvenuto risarcimento del danno. 4. I motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica, sono infondati nella parte in cui denunciano la violazione dell’art. 428 c.c., ed inammissibili per il resto. La disposizione invocata disciplina l’azione di annullamento degli atti dispositivi compiuti da persona che, sebbene non interdetta, sia incapace di intendere e di volere, sicché errato è il richiamo alla stessa allorquando si discuta della responsabilità che deriva dal compimento di condotte integranti illecito disciplinare. Ciò, peraltro, non significa che per queste ultime sia priva di rilievo l’eventuale incapacità naturale del prestatore, la cui rilevanza deriva innanzitutto dal principio, di carattere generale, secondo cui la responsabilità del soggetto per gli atti compiuti non è di carattere oggettivo e presuppone l’imputabilità, che è il presupposto indefettibile affinché possa essere ravvisato l’elemento soggettivo sotteso alla condotta. Infatti l’orientamento consolidato alla stregua del quale, in tema di responsabilità disciplinare, la valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla mancanza del lavoratore deve essere effettuata con riferimento agli aspetti oggettivi e soggettivi del caso concreto, è stato sviluppato da questa Corte con l’affermazione che la condizione psichica del lavoratore è pienamente implicata nel giudizio di proporzionalità, che non può prescindere dall’accertamento in ordine a fattori eventualmente idonei ad incidere sulla determinazione responsabile del soggetto agente. È stato, quindi, affermato che il giudice del merito, prima ancora di indagare sul grado della colpa o sull’intensità dell’elemento intenzionale, deve accertare se il lavoratore abbia tenuto quel comportamento con coscienza e volontà Cass. n. 13883/2004 e Cass. n. 2720/2012 , qualora risultino allegate circostanze di fatto che mettano in discussione la riferibilità soggettiva della condotta all’agente. 5. A detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale la quale, all’esito della disposta consulenza tecnica d’ufficio, ha escluso che il S. versasse in una condizione di privazione delle facoltà intellettive e volitive e che queste ultime fossero così diminuite da far venire meno la sua capacità di autodeterminazione e la consapevolezza in ordine all’atto che stava per compiere ed ha accertato che, al contrario, il ricorrente possedeva l’idoneità sia a comprendere il disvalore sociale dell’azione, sia a determinarsi consapevolmente nella scelta fra il compiere l’atto o l’astenersi dall’azione. Il giudice d’appello ha precisato che gli acquisti effettuati, spendendo il nome dell’Università ed utilizzando illecitamente risorse dell’ente pubblico, erano avvenuti secondo una progettualità meditata e ben congegnata , e per questo, oltre ad escludere che l’appellante fosse affetto da shopping compulsivo , ha ritenuto provate l’indiscutibile intenzionalità della condotta e la gravità dell’addebito, tale da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, perché idonea a neutralizzare del tutto altri elementi di fatto quali l’assenza di precedenti disciplinari e l’avvenuto risarcimento del danno. 6. Si tratta, quindi, di un giudizio compiutamente espresso dal giudice del merito, nel pieno rispetto dei principi affermati da questa Corte quanto alla specificazione della giusta causa di licenziamento, in relazione alla quale si è ripetutamente evidenziato che la stessa ricorre allorquando, la specifica mancanza commessa dal dipendente, considerata e valutata non solo nel suo contenuto obiettivo, ma anche nella sua portata soggettiva, risulti obiettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo irreparabile la fiducia che il datore di lavoro necessariamente deve riporre nella correttezza dell’adempimento delle obbligazioni che dal rapporto scaturiscono cfr. fra le tante Cass. n. 12798/2018 Cass. n. 8816/2017 Cass. n. 18715/2016 . 7. Il ricorso, con il primo ed il terzo motivo, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di norme di legge artt. 2104 e 2106 c.c. artt. 115 e 116 c.p.c. e di disposizioni contrattuali art. 46 CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università , in realtà censura il giudizio di merito espresso dalla Corte territoriale in relazione all’imputabilità della condotta, alla gravità della stessa ed alla proporzionalità della sanzione, e sollecita una revisione di quel giudizio non consentita in sede di legittimità. È ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020 Cass. n. 3340/2019 Cass. n. 640/2019 Cass. n. 24155/2017 . In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018 Cass. n. 10017/2016 Cass. n. 6498/2012 Cass. n. 5095/2011 . Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perché, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso finiscono tutti per prospettare una diversa lettura della documentazione medica prodotta e delle risultanze di causa. Queste censure non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità prospettando la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., perché la violazione delle norme processuali invocate può essere ravvisata solo qualora il ricorrente alleghi che siano state poste a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o che il giudice abbia disatteso delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione cfr. fra le più recenti Cass. n. 1229/2019, Cass. n. 23940/2017, Cass. n. 27000/2016 . 8. Infine è inammissibile il secondo motivo di ricorso giacché il vizio tipizzato dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, riguarda l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, da intendersi riferito ad un preciso accadimento o una determinata circostanza in senso storico-naturalistico, e quindi non può essere ricondotta a detto vizio l’omessa valutazione di deduzioni difensive o di argomentazioni sviluppate dal consulente tecnico di parte Cass. n. 26305/2018 Cass. n. 22397/2019 . 9. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo. Al riguardo va precisato che ai fini del regolamento delle spese deve essere valutata l’attività difensiva svolta dall’Università, perché infondata è l’eccezione di inammissibilità del controricorso, sollevata dalla difesa del S. nella memoria ex art. 378 c.p.c Questa Corte ha già affermato, ed il principio deve essere qui ribadito, che la sostituzione della persona fisica titolare dell’organo munito del potere di rappresentare in giudizio l’ente non è causa di estinzione dell’efficacia della procura alle liti, la quale continua ad operare a meno che non sia revocata dal nuovo rappresentante legale Cass. n. 2183/2019 Cass. n. 8821/2017 Cass. n. 1373/2016 . Nella fattispecie, pertanto, le dimissioni del Rettore dell’Università di [], seppure rassegnate prima della notifica del controricorso, non hanno privato di effetti il rilascio della procura, avvenuto in epoca in cui la persona fisica rivestiva la qualità di organo dell’ente. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 6.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 1 5 % ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1bis, se dovuto.