Serranda giù, licenziamento legittimo. Irrilevanti i giorni di ulteriore apertura del negozio

Respinte le obiezioni proposte dall’oramai ex dipendente di un negozio di giocattoli. Inutile il richiamo al fatto che dopo la comunicazione del licenziamento l’attività sia rimasta aperta ancora alcuni giorni.

Legittimo il licenziamento per chiusura dell’impresa anche se, in realtà, l’attività rimane in piedi ancora per qualche settimana, con alcuni dipendenti impiegati per le operazioni di inventario Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza n. 9820/21 depositata il 14 aprile . All’origine della vicenda c’è la concreta prospettiva di chiusura per un negozio di giocattoli . La titolare si prepara a tirar giù definitivamente la serranda, e comunica ad alcuni dipendenti il licenziamento per cessazione dell’attività . Immaginabile la reazione dei lavoratori. Una dipendente in particolare, però, considera un abuso il comportamento della titolare del negozio, e la cita in giudizio per vedere dichiarata l’illegittimità del licenziamento . Questa richiesta è poggiata soprattutto su un dato l’attività del negozio è proseguita dopo il licenziamento , e a testimoniarlo c’è il fatto che alcuni lavoratori son rimasti e si sono occupati delle operazioni di inventario. Per i Giudici di merito, però, le obiezioni proposte dalla lavoratrice non sono decisive. Di conseguenza, viene ritenuto legittimo il licenziamento deciso dall’imprenditrice e frutto della inequivoca manifestazione, nella lettera di licenziamento, della volontà di recesso per cessazione dell’attività , poi, tempo dopo, verificatasi in concreto. Irrilevante, precisano i Giudici, il fatto che la chiusura del negozio sia avvenuta alcuni giorni dopo il licenziamento della dipendente, e che siano state effettuate le operazioni di inventario, evidentemente non riconducibili , osservano i giudici, all’attività tipica dell’esercizio commerciale . Inutile si rivela il ricorso proposto in Cassazione dalla lavoratrice. Inutile, in particolare, il riferimento a presunte trattative della titolare della ditta con due dipendenti per conferire l’azienda in una costituenda società partecipata al 50% dalla datrice e al 50% dalle due lavoratrici . I Giudici si soffermano però soprattutto su un aspetto la presunta mancata chiusura del negozio. Su questo fronte la dipendente sostiene che l’attività è proseguita, non è mai cessata ma è stata soltanto sospesa e pone in evidenza la verificata mancanza di cancellazione della ditta dal registro delle imprese . I magistrati ribattono che, accertata la totale cessazione dell’attività imprenditoriale da parte del datore di lavoro , la legittimità del licenziamento non è esclusa né dal fatto che lo stabilimento sede dell’impresa non sia stato immediatamente alienato o altrimenti dismesso, rimanendo però nella disponibilità dell’imprenditore come mera entità non funzionante, né dal fatto che uno o pochi altri dipendenti siano stati mantenuti in servizio per il compimento delle pratiche relative alla cessazione . Ciò anche alla luce del principio secondo cui non sono sindacabili, nel quadro della libertà d’iniziativa economica riconosciuta dalla Costituzione, le ragioni dei licenziamenti dovuti a cessazione dell’attività .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 novembre 2020 – 14 aprile 2021, n. 9820 Presidente Della Torre – Relatore Patti Fatti di causa Con sentenza 22 notificata il 29 novembre 2018, la Corte d’appello di Trento rigettava l’appello proposto da V.M. avverso la sentenza di primo grado, di reiezione della sua impugnazione del licenziamento intimatole il 14 novembre 2016 dalla datrice C.R. , titolare della ditta individuale Giochi Creativi, per giustificato motivo oggettivo. A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva l’interpretazione del Tribunale di inequivoca manifestazione, nella lettera di licenziamento, della volontà datoriale di recesso per cessazione dell’attività, in effetti risultata essendo irrilevante che essa peraltro neppure oggetto di specifica indicazione nella lettera, piuttosto contenente quella del rapporto al 31 dicembre 2016 si fosse verificata alcuni giorni dopo e così pure che si fossero poi svolte le operazioni di inventario, evidentemente non riconducibili a quella tipica di esercizio. Con atto notificato il 28 gennaio 2019, la lavoratrice ricorreva per cassazione con tre motivi, cui la datrice resisteva con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e segg., per l’erronea interpretazione giudiziale della lettera datoriale del 14 novembre 2016 come intimazione di licenziamento, alla stregua di manifestazione di una volontà attuale anziché di mera intenzione, secondo quella comune delle parti, anche tenuto conto della pendenza di trattative della titolare della ditta con le due dipendenti per conferire l’azienda in una costituenda società con le stesse partecipata al 50% dalla datrice e al 50% dalle due dipendenti . 2. Esso è inammissibile. 3. Innanzi tutto, il motivo difetta di specificità, in violazione della prescrizione a pena di inammissibilità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, in assenza di trascrizione nè di specifica indicazione della sede di produzione della lettera oggetto della contestata interpretazione Cass. 11 gennaio 2016, n. 195 Cass. 18 settembre 2017, n. 21554 Cass. 3 maggio 2019, n. 11599 . 3.1. Esso poi censura l’interpretazione del documento da parte della Corte territoriale, senza neppure un’enunciazione dei canoni ermeneutici contrattuali violati pure applicabili agli atti unilaterali, come il recesso in questione, a norma dell’art. 1324 c.c. , nè tanto meno specificazione delle ragioni nè del modo in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178 Cass. 21 giugno 2017, n. 15350 , con la singolare invocazione del canone della comune intenzione delle parti in riferimento ad un atto unilaterale, come detto. 3.2. D’altro canto, la Corte trentina ha pure fornito un’interpretazione del testo assolutamente plausibile, insindacabile in sede di legittimità, in quanto indagine di fatto riservata al giudice di merito congruamente argomentata per le ragioni esposte al secondo capoverso di pg. 8 della sentenza , sicché la ricorrente ha ad essa meramente contrapposto la propria, con altro profilo di insindacabilità in sede di legittimità Cass. 10 maggio 2018, n. 11254 , anche consistendo l’oggetto della censura, in sostanza, in una contestazione del risultato interpretativo in sé Cass. 10 febbraio 2015, n. 2465 Cass. 26 maggio 2016, n. 10891 . 4. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 3 e L. n. 300 del 1970, art. 18, per inesistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, intimato per cessazione dell’attività al 31 dicembre 2016, invece proseguita oltre ed anzi mai di fatto cessata, ma soltanto sospesa, nell’attuale verificata mancanza di cancellazione della ditta dal registro delle imprese. 5. Esso è parimenti inammissibile. 6. Non si configura il vizio di violazione di legge denunciato, posto che la censura non consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo, che è stato pure esattamente risolto ed infatti, nel caso in cui sia accertata la totale cessazione dell’attività imprenditoriale da parte del datore di lavoro, la legittimità del licenziamento intimato ai lavoratori per giustificato motivo oggettivo non è esclusa nè dal fatto che lo stabilimento sede dell’impresa non sia stato immediatamente alienato o altrimenti dismesso, rimanendo però nella disponibilità dell’imprenditore come mera entità non funzionante, nè dal fatto che uno o pochi altri dipendenti siano stati mantenuti in servizio per il compimento delle pratiche relative alla cessazione, non essendo sindacabili nel quadro della libertà d’iniziativa economica riconosciuta dall’art. 41 Cost., le ragioni dei licenziamenti dovuti a cessazione dell’attività Cass. 24 settembre 2010, n. 20232 . 6.1. Nel caso di specie, la ricorrente ha piuttosto dedotto un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione Cass. 11 gennaio 2016, n. 195 Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155 Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340 , ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qui non sussistente sicché, la censura consiste in una contestazione dell’accertamento di fatto della Corte territoriale di cessazione dell’attività di impresa, ai fini della verificata sussistenza del giustificato motivo oggettivo, congruamente argomentata per le ragioni esposte dall’ultimo capoverso di pg. 9 al penultimo di pg. 10 della sentenza . 7. Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 3 Cost., per la negata compensazione delle spese di giudizio, benché richiesta dalla lavoratrice, quale parte debole destinataria di un favor nelle controversie di lavoro, infatti osservato in altra controversia, posta la lesione del principio di uguaglianza da un tale difforme applicazione giurisprudenziale. 8. Esso è infondato. 9. Occorre premettere che ogni statuizione del giudice di merito relativa alle spese del giudizio inclusa quella di compensazione tra le parti sia insindacabile in sede di legittimità, con il solo limite che esse non possono essere poste a carico della parte interamente vittoriosa Cass. 19 giugno 2013, n. 15317 Cass. 31 marzo 2017, n. 8421 . 9.1. La Corte territoriale ha fatto una corretta applicazione del principio di soccombenza, in assenza di gravi ed eccezionali ragioni altre, rispetto al caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimentì, secondo il testo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come sostituito dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, conv. con mod. in L. n. 162 del 2014, applicabile ratione temporis, alla luce della dichiarata illegittimità costituzionale in parte qua da Corte Cost. 19 aprile 2018, n. 77 , non ravvisabili in quelle genericamente dedotte dalla ricorrente, tanto meno integranti violazione del principio di uguaglianza, in riferimento a diversa statuizione giudiziale sulle spese in differenti controversie. 10. Dalle superiori argomentazioni discende allora il rigetto del ricorso, con la statuizione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la lavoratrice alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali nella misura del 15 per cento e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.