Abuso del contratto a termine: il risarcimento del danno è una misura adeguata

La Corte afferma che in materia di pubblico impiego privatizzato, in caso di abuso di contratti a termine, non vi è l’obbligo di convertire il contratto a tempo determinato in indeterminato, ritenendo adeguato il risarcimento del danno.

Sul tema, la Suprema Corte con la sentenza n. 4773/21, depositata l’8 febbraio. Il Tribunale di Messina aveva dichiarato l’ illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati da una struttura sanitaria con un lavoratore ed aveva condannato lo stesso ente al risarcimento del danno. La decisione veniva però ribaltata in appello, negando il risarcimento del danno. Il lavoratore ricorreva in Cassazione, deducendo la violazione dell’art. 36, d.lgs. n. 165/20021 e sostenendo che il risarcimento può costituire una delle misure previste dalla direttiva 1999/70/CE ai fini della repressione dell’ abuso del contratto a termine solo qualora il lavoratore venga esonerato dalla prova del danno perché, altrimenti, la violazione della normativa eurounitaria rimarrebbe priva di sanzione, non essendo consentita nell’impiego pubblico la conversione del rapporto. Egli deduceva inoltre la violazione e la falsa applicazione dell’art. 32 della l. 183/2010, in quanto l’indennità deve essere liquidata d’ufficio. I motivi di ricorso sono fondati. La Corte territoriale, nell’affermare che il danno deve essere provato dal soggetto che assume di averlo subito, si è discostata dal principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite secondo cui in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE, sicchè, mentre va escluso - siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. 183/2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno comunitario, determinato tra un minimo e un massimo , salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile , per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito . Il diritto dell’Unione, quindi, non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, costituendo una misura adeguata anche il risarcimento del danno. Sul tema è intervenuta anche la Corte di Lussemburgo che ha evidenziato che la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento , al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’ indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno , anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni. La Corte, quindi, accoglie il ricorso, cassa con rinvio alla Corte d’Appello in diversa composizione, attenendosi al principio di diritto suddetto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 novembre 2020 – 8 febbraio 2021, n. 2980 Presidente Torrice – Relatore Di Paolantonio Rilevato che 1. la Corte d’Appello di Messina ha riformato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva dichiarato l’illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati con C.G. dall’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico G. Martino ed aveva condannato l’ente al risarcimento del danno, quantificato in misura pari a 20 mensilità della retribuzione percepita dal ricorrente in costanza di rapporto 2. la Corte territoriale ha premesso che fra le parti erano intercorsi diversi contratti, in forza dei quali il C. era stato utilizzato senza soluzione di continuità dal 15 gennaio 2007 al 31 marzo 2008 ed ha aggiunto che l’Azienda non aveva dimostrato ragioni idonee a giustificare il ricorso reiterato alla tipologia contrattuale 3. il giudice d’appello, peraltro, ha ritenuto che la declaratoria di illegittimità dei termini apposti ai singoli contratti fosse ininfluente in quanto dalla stessa non poteva derivare, con criterio di automatismo, il diritto al risarcimento del danno, non allegato e non provato dall’originario ricorrente 4. ha precisato che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 non prevede una sanzione civile con finalità repressive dell’abuso del contratto a termine e, pertanto, il danno che l’assunto a tempo determinato pretende di aver subito deve essere fondato quanto meno su elementi gravi, precisi e concordanti che consentano di fare ricorso alla prova presuntiva 5. per la cassazione della sentenza C.G. ha proposto ricorso sulla base di due motivi ai quali ha opposto difese l’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico G. Martino. Considerato che 1. con il primo motivo il ricorrente si duole della violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 in relazione alla L. n. 300 del 1970, art. 18 e sostiene che il risarcimento può costituire una delle misure previste dalla direttiva 1999/70/CE ai fini della repressione dell’abuso del contratto a termine solo qualora il lavoratore venga esonerato dalla prova del danno perché, altrimenti, la violazione della normativa Eurounitaria rimarrebbe priva di sanzione, non essendo consentita nell’impiego pubblico la conversione del rapporto 2. richiama giurisprudenza della Corte di Giustizia e di questa Corte per sostenere che, ove emerga l’inesistenza delle esigenze che giustificano il ricorso al rapporto a tempo determinato il danno, che va qualificato comunitario, deve essere in ogni caso liquidato e, in via equitativa, può essere utilizzato il meccanismo sanzionatorio previsto dalla L. n. 300 del 1970, commi 4 e 5 2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 perché l’indennità prevista dalla norma richiamata in rubrica deve essere liquidata d’ufficio ed applicata anche nei giudizi pendenti all’entrata in vigore della nuova disciplina 3. i motivi di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono fondati, nei limiti di seguiti precisati, perché la Corte territoriale, nell’affermare che il danno deve essere provato dal soggetto che assume di averlo subito e in nessun caso può essere ritenuto in re ipsa, si è discostata dal principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte secondo cui in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13 , sicché, mentre va escluso - siccome incongruo - il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come danno comunitario , determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito. Cass. S.U. n. 5072/2016 3.1. con la richiamata pronuncia, alla quale le stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la successiva sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacché può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno 3.2. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poiché la conversione è impedita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c. 3.3. peraltro, poiché la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere 3.4. sulla questione qui controversa è, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C - 494/16 Santoro 4. nel caso di specie la Corte territoriale se, da un lato, ha correttamente ritenuto che dall’illegittimità delle clausole appositive dei termini non potesse derivare l’instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, essendo a ciò ostativo il chiaro disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 dall’altro ha errato nel respingere la domanda risarcitoria perché non provata, finendo in tal modo per lasciare privo di sanzione l’abuso 5. la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nei punti che precedono e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità 6. la fondatezza del ricorso rende inapplicabile il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Messina, in diversa composizione, alla quale demanda anche il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.