Collocamento forzoso in ferie, aggredisce verbalmente l’amministratore giudiziario della società: licenziata

Respinte le obiezioni proposte dalla ricorrente. Confermata la legittimità del drastico provvedimento adottato dall’azienda. Evidente per i Giudici la gravità del comportamento tenuto dalla lavoratrice.

Collocamento forzoso in ferie per la dipendente, che mal digerisce il provvedimento e reagisce aggredendo verbalmente l’amministratore giudiziario della società. Legittimo il suo conseguente licenziamento. Cassazione, sentenza n. 553/21, sez. Lavoro, depositata oggi . A inchiodare la lavoratrice alle proprie responsabilità sono i Giudici dell’appello. Questi ultimi smentiscono i colleghi del Tribunale e sanciscono la legittimità del licenziamento disciplinare della donna, licenziamento frutto del comportamento da lei tenuto e consistito nel proferire frasi offensive e minacciose nei confronti dell’amministratore giudiziario della società . Fondamentale proprio la relazione sui fatti redatta dall’amministratore giudiziario . Per i Giudici dell’appello quella relazione fa piena prova di quanto avvenuto in quanto proveniente da pubblico ufficiale . Così, accertata la mancanza addebitata alla lavoratrice, e preso atto della gravità del comportamento da lei tenuto nei confronti dell’ amministratore giudiziario della società , è, secondo i giudici di merito, proporzionata la sanzione irrogata . Inutile il ricorso proposto dal legale della donna, che deve dire addio definitivamente al suo posto di lavoro. Per i giudici della Cassazione , difatti, il drastico provvedimento adottato dalla società è da ritenere legittimo. A inchiodare la donna, comunque, non solo la relazione dell’amministratore giudiziario ma anche gli esiti dell’istruttoria orale che hanno confermato l’episodio nei suoi contenuti essenziali e, comunque, in tutta la sua gravità . Respinto anche il richiamo difensivo al presunto abuso compiuto dalla società, e cioè il collocamento forzoso in ferie della lavoratrice. Su questo fronte i giudici ribadiscono che l’illegittimità in cui sarebbe incappata la società datrice di lavoro non può essere valutata così grave da legittimare la spropositata reazione verbale a cui si è lasciata andare la dipendente .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 ottobre 2020 – 14 gennaio 2021, n. 553 Presidente Raimondi – Relatore De Marinis Fatti di causa Con sentenza del 15 febbraio 2018, la Corte d'Appello di Bari, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Bari, rigettava la domanda proposta da Ma. Ca. nei confronti della Cavour 55 S.r.l. in amministrazione giudiziaria, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla Ca. per essersi resa responsabile di aver proferito frasi offensive e minacciose nei confronti dell'amministratore giudiziario della Società. La decisione della Corte territoriale discende dall'aver questa ritenuto che la relazione sui fatti redatta dall'amministratore giudiziario, provenendo da pubblico ufficiale fa piena prova di quanto avvenuto in presenza del medesimo, restando irrilevante l'assenza di terzietà rispetto alla Società rappresentata e dunque provata per questa via, come sulla base dell'espletata prova testimoniale, la mancanza addebitata e la sua gravità e proporzionata la sanzione irrogata. Per la cassazione di tale decisione ricorre la Ca., affidando l'impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la Cavour 55 S.r.l. in liquidazione. Il Pubblico Ministero faceva pervenire la sua requisitoria, ivi concludendo per il rigetto del ricorso Entrambe le parti hanno poi presentato memoria. Ragioni della decisione Con il primo motivo, la ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2700 c.c., 35 e 36 D.Lgs. n. 159/2011 e 116 c.p.c. lamenta la non conformità a diritto della qualificazione operata dalla Corte territoriale della relazione sui fatti redatta dall'amministratore giudiziario come facente fede privilegiata, dovendosi escludere, in relazione alle funzioni espletate nella specie dall'amministratore giudiziario, la qualifica di pubblico ufficiale e , conseguentemente la rilevanza probatoria degli atti relativi. Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 2700 c.c., la ricorrente ribadisce la censura relativa alla riconosciuta rilevanza probatoria della relazione redatta dall'amministratore giudiziario, contestandola sotto il profilo oggettivo, essendo stata attribuita fede privilegiata alle dichiarazioni delle parti come le manifestazioni di scienza e di opinione. Nel terzo motivo la violazione e falsa applicazione degli artt. 116 c.p.c. e 2700 c.c. è prospettata in relazione alla contraddittorietà del contenuto della relazione dell'amministratore giudiziario con riguardo a parti della stessa facenti entrambe fede privilegiata. Con il quarto motivo, rubricato con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. la ricorrente lamenta a carico della Corte territoriale l'aver dato rilievo alla prova testimoniale, nonostante l'abbia qualificata ultronea rispetto all'atto qualificato come facente fede privilegiata. Con il quinto motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per non aver la Corte territoriale motivato il convincimento desunto dalla valutazione della prova. Il sesto motivo è inteso a denunciare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio con riferimento all'aver la Corte territoriale ritenuto l'attendibilità di dichiarazioni testimoniali nonostante l'essere le stesse contrastanti con quelle rese dallo stesso teste nel verbale redatto dall'amministratore giudiziario. Il medesimo vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio è dedotto nel settimo motivo in relazione all'aver la Corte territoriale limitato la propria valutazione alla condotta addebitata in sé senza relazione alcuna alle ragioni ed, in particolare, all'illegittimo provvedimento datoriale di collocamento forzoso in ferie che la stessa avevano determinato. Con l'ottavo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per non essere motivata con riferimento alla valenza esimente del comportamento inadempiente dell'amministratore giudiziario, profilo illegittimamente trascurato. A riguardo è a dirsi come, al di là della sua articolazione su descritti otto motivi, l'impugnazione possa essere globalmente valutata e ritenuta inammissibile in quanto inidonea a contrastare efficacemente la ratio decidendi della pronunzia resa dalla Corte territoriale, per essersi questa espressa nel senso della legittimità del recesso intimato alla ricorrente, non in considerazione della peculiare efficacia probatoria riconosciuta alle dichiarazioni del soggetto che quell'atto aveva posto in essere, a motivo della fede privilegiata che stante il ruolo di amministratore giudiziario da quel soggetto rivestito, sarebbe stata riconosciuta alle predette dichiarazioni con riguardo ad atti viceversa compiuti quale mero datore di lavoro, bensì sulla base del rilievo, qui non fatto oggetto di specifica impugnazione, per cui anche gli esiti dell'istruttoria orale confermano l'episodio nei suoi contenuti essenziali e, comunque, in tutta la sua gravità , rilievo che riflette quanto emerge dalla sentenza impugnata in ordine all'accertamento, sulla base di un puntuale e logicamente inappuntabile analisi della prova testimoniale, dei fatti nella loro materialità ed alla valutazione della loro rilevanza, da ritenersi ampia e corretta anche sotto il profilo della comparazione tra la valenza del comportamento inadempiente addebitabile alla lavoratrice ricorrente, ragionevolmente apprezzata in termini di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, ed efficacia esimente dell'illegittimità in cui sarebbe incorsa la Società datrice nella persona dell'amministratore giudiziario, che altrettanto ragionevolmente è stata ritenuta tale da non legittimare la spropositata reazione verbale cui si è lasciata andare la ricorrente. Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.