Inattività forzata per il dipendente: riconosciuto il suo diritto al risarcimento

Confermata la responsabilità della società datrice di lavoro. Respinta però la pretesa del lavoratore, ormai giunto alla pensione, di ottenere un ristoro economico maggiore rispetto a quello stabilito in appello.

Forzata inattività – fino al pensionamento – per il funzionario dell’istituto di credito. Legittima la condanna della società, obbligata a risarcire l’oramai ex dipendente Cassazione, ordinanza n. 28810/20, depositata il 16 dicembre . A porre sotto accusa la banca è il dipendente – intanto giunto alla pensione – che lamenta di essere stato demansionato . Nello specifico, egli spiega di aver svolto l’attività nell’ambito della gestione del credito e della valutazione delle posizioni di rischio, quale preposto sino al marzo 1999 all’ ”Area Portafogli” e dall’aprile 1999 al servizio recupero crediti” della Direzione Generale e sostiene di essere stato demansionato a seguito del trasferimento del servizio in una nuova sede, specificando che solo nel febbraio 2001 è stato assegnato al comparto recupero crediti” con l’incarico di gestire le pratiche e curare i rapporti con la società esterna incaricata del contenzioso e che, poi, venuto meno l’incarico alla società esterna e conseguentemente il suo e soppressa l’area accentrata in un’altra sede, è stato formalmente trasferito, pur restando a lavorare nella sua sede fino a quando il trasferimento è stato revocato e lui è stato assegnato all’istruttoria delle pratiche di fido sempre nella sua sede ed al recupero crediti”, attività questa svolta dagli impiegati e non dai funzionari . Evidente, secondo il lavoratore, il demansionamento subito, con legittima pretesa risarcitoria nei confronti della banca. Questa visione è condivisa dai Giudici di merito. In Tribunale è accertato il demansionamento ma escluso il mobbing denunciato e viene quindi respinta la domanda risarcitoria per mancanza di prova di un danno derivante dall’inadempimento datoriale, se non con riguardo al danno biologico , quantificato nella misura del 6% e liquidato, sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano, in 8mila e 278 euro . In Appello, poi, i Giudici stabiliscono che il comportamento tenuto dalla banca non era scusabile e che il demansionamento era provato e riconducibile alle decisioni dell’istituto di credito, con annesso danno biologico subito dal dipendente. A proposito di danni, i Giudici di secondo grado precisano che il danno non patrimoniale da dequalificazione va quantificato nella misura del 10% della retribuzione dovuta al dipendente a decorrere dal mese di maggio del 2001 e sino alla proposizione del ricorso di primo grado . Sul fronte economico batte il ricorso proposto in Cassazione dal legale del lavoratore. Quest’ultimo si lamenta perché in secondo grado è stata riconosciuta l’esistenza anche di un danno alla professionalità , stante l’accertata situazione di sostanziale inattività nel periodo in esame ma non se n’è tenuto doverosamente conto nello stabilire la misura del danno da liquidare . Secondo il lavoratore, i Giudici di merito hanno confuso la forzata inattività, cui egli è stato costretto, con la fattispecie meno grave del demansionamento e hanno quantificato nella misura del 10% un danno che era ben più importante, stante il riflesso della forzata inattività su diritti quali l’integrità personale, la salute, il diritto al lavoro ed alla dignità umana e professionale che, in tal modo, non sono stati integralmente ristorati , nonostante, aggiunge il lavoratore, dalle prove assunte in giudizio e dalle osservazioni svolte dal CTU sia risultata dimostrata la loro esistenza e la loro importanza, stante il protrarsi dell’inadempimento datoriale fino alla cessazione del rapporto in occasione del pensionamento . In aggiunta, poi, il lavoratore ritiene erronea la decisione d’Appello anche perché è stato limitato il risarcimento del danno alla data di presentazione del ricorso introduttivo del giudizio, senza considerare che, come allegato nel corso del giudizio, il licenziamento del dipendente, decorrente dal giorno successivo alla data del compimento del 60esimo anno di età, era stato dichiarato illegittimo e posticipato al dicembre 2012 e perciò per aversi un pieno ristoro, il danno andava calcolato fino a tale data . In premessa, i giudici della Cassazione ricordano che in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione , il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno . Ciò comporta che tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale . Proprio sul nodo rappresentato dalla prova del danno i Giudici aggiungono che essa può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni , per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno . Va escluso, quindi, che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all’esistenza della dequalificazione e perciò il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa . A fronte di questo quadro, i Giudici della Cassazione confermano il quantum risarcitorio stabilito in Appello, poiché esso è poggiato sui fatti allegati dal lavoratore e alla luce della accertata incidenza del demansionamento .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 15 settembre – 16 dicembre 2020, numero 28810 Presidente Balestrieri – Relatore Garri Rilevato che 1. Ni. Ca. convenne in giudizio la Banca Popolare Italiana Soc. coop. deducendo di aver svolto la sua attività nell'ambito della gestione del credito e della valutazione delle posizioni di rischio, quale preposto sino al marzo 1999 all'Area Portafogli e dall'aprile 1999 al servizio recupero crediti della Direzione Generale. 2. Dedusse di essere stato demansionato a seguito del trasferimento del servizio da Messina a Palermo e che solo nel febbraio 2001 era stato assegnato al comparto recupero crediti con l'incarico di gestire le pratiche e curare i rapporti con la società esterna incaricata del contenzioso. 3. Espose che venuto meno l'incarico alla società esterna e conseguentemente il suo, soppressa l'area di Messina accentrata a Catania, era stato quindi formalmente trasferito a Catania, pur restando a lavorare a Messina, fino a quando il trasferimento fu revocato e venne assegnato all'istruttoria delle pratiche di fido sempre a Messina ed al recupero crediti, attività questa svolta dagli impiegati e non dai funzionari. 4. Ritenendo di essere stato demansionato e di averne ricevuto un danno anche alla salute chiese la condanna della convenuta al risarcimento del danno sofferto. 5. Il Tribunale di Messina pur accertato il demansionamento ma escluso il mobbing denunciato, respinse la domanda risarcitoria per mancanza di prova di un danno derivante dall'inadempimento datoriale se non con riguardo al danno biologico quantificato nella misura del 6% e liquidato sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano in Euro 8.278,00. 6. La Corte di appello di Messina ha rigettato l'appello principale della Banca ed ha ritenuto che il comportamento tenuto dalla Banca non fosse scusabile che il demansionamento fosse provato e ad esso riconducibile che il danno biologico fosse stato correttamente accertato. Quanto al gravame proposto in via incidentale dal Ca. la Corte di merito lo ha parzialmente accolto riformando la sentenza nella parte in cui aveva quantificato il danno non patrimoniale da dequalificazione che ha ritenuto di quantificare nella misura del 10% della retribuzione dovutagli a decorrere dal mese di maggio del 2001 e sino alla proposizione del ricorso di primo grado oltre agli interessi ed alla rivalutazione monetaria condannando la Banca alla rifusione delle spese del giudizio. 7. Per la cassazione della sentenza propone ricorso Ni. Ca. che articola un unico motivo al quale resiste il Banco BPM s.p.a. che propone a sua volta ricorso incidentale affidato anch'esso ad un unico motivo e deposita memoria illustrativa ai sensi dell'articolo 380 bis 1 cod. proc.civ Considerato che 8. Con il ricorso proposto in via principale da Ni. Ca. è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 cod. proc.civ., degli artt. 2, 32 e 35 Cost e degli artt. 1226, 2087 e 2103 cod. proc. civ. in relazione all'articolo 360 primo comma numero 3 cod.proc.civ 8.1. Deduce il ricorrente che la sentenza della Corte territoriale sarebbe incorsa nella denunciata violazione di legge poiché pur avendo riconosciuto l'esistenza anche di un danno alla professionalità, stante l'accertata situazione di sostanziale inattività nel periodo in esame, non ne ha tenuto doverosamente conto nello stabilire la misura del danno da liquidare. 8.2. Sostiene il ricorrente che la Corte di merito avrebbe confuso la forzata inattività cui era stato costretto il ricorrente con la fattispecie meno grave del demansionamento, quantificando nella misura del 10% un danno che era ben più importante, stante il riflesso della forzata inattività su diritti quali l'integrità personale, la salute, il diritto al lavoro ed alla dignità umana e professionale che, in tal modo, non sono stati integralmente ristorati sebbene, dalle prove assunte in giudizio e dalle osservazioni svolte dal CTU, fosse risultata dimostrata la loro esistenza e ne fosse agevolmente anche presumibile la loro importanza stante il protrarsi dell'inadempimento datoriale fino alla cessazione del rapporto con il pensionamento del ricorrente. Rileva poi il ricorrente che la Corte di merito avrebbe erroneamente limitato il risarcimento del danno alla data di presentazione del ricorso introduttivo del giudizio senza considerare che, come era stato allegato nel corso del giudizio, il licenziamento del dipendente decorrente dal giorno successivo alla data del compimento del sessantesimo anno, era stato dichiarato illegittimo e posticipato al dicembre 2012 e che perciò, per aversi un pieno ristoro, il danno andava calcolato fino a tale data. 9. Con il ricorso incidentale il Banco BPM s.p.a. ha dedotto che nell'accogliere il gravame incidentale del Ca. la sentenza sarebbe incorsa nella violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e degli artt. 2059 e 2697 cod.civ. in relazione all'articolo 360 primo comma numero 3 cod.proc.civ. in quanto, discostandosi dall'insegnamento della Cassazione in tema di accertamento e liquidazione del danno non patrimoniale conseguente ad una condotta illecita datoriale, avrebbe trascurato di individuare quali erano i singoli diritti lesi dal comportamento della Banca e non ha tenuto conto del fatto che il lavoratore, che ne era onerato, non l’ aveva provato. 10. Il ricorso principale e quello incidentale che censurano entrambi , seppur con finalità opposte, la sentenza nella parte in cui ha accertato il danno ed ha proceduto alla sua quantificazione, possono essere esaminati unitariamente e sono in parte inammissibili ed in parte infondati. 10.1. Va premesso in via generale che costituisce orientamento costante di questa Corte quello secondo cui in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex articolo 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale cfr. Cass. 05/12/2017 numero 29407 . Si tratta di prova che può essere offerta con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento ed assume in tal senso rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno Cass. 19/12/2008 numero 29832 . In definitiva escluso che il pregiudizio sia in re ipsa collegato all'esistenza della dequalificazione, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno anche nella sua eventuale componente di danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita, lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso, deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa cfr. Cass. 23/01/2011 numero 1248 e comunque già Cass. Sez. U., Sentenza numero 6572 del 24/03/2006 . 10.2. Orbene nel caso in esame la sentenza si è attenuta ai principi sopra enunciati ed ha ricostruito complessivamente i fatti allegati accertando l'incidenza del demansionamento e quantificando, sulla base del suo prudente apprezzamento del quadro probatorio sottoposto alla sua valutazione, la misura del danno da riconoscere. In tale contesto le censure mosse alla sentenza con il ricorso principale e con quello incidentale, pur costruite ai sensi dell'articolo 360 primo comma numero 3 cod. proc.civ. come violazioni di legge, sconfinano invece in una richiesta di diverso apprezzamento del materiale probatorio esaminato dal giudice di appello, ricostruzione questa che non è consentita nel giudizio di legittimità. 11. in conclusione, per le ragioni esposte, sia il ricorso principale che quello incidentale devono essere rigettati e le spese, in ragione della reciproca soccombenza, possono essere compensate. 11.1. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dell'articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi. Compensa le spese. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1 quater del D.P.R. numero 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma dell'articolo 13 comma 1 bis del citato D.P.R., se dovuto.