Ausiliario del traffico patteggia la pena per droga: licenziamento possibile

Ritorna in bilico la posizione del dipendente di una municipalizzata. Smentita in Cassazione la decisione con cui i Giudici d’appello avevano considerato non gravi i fatti contestati al lavoratore e accertati sul fronte penale.

Prima l’arresto, poi il processo e infine il patteggiamento in merito all’accusa di detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio. Plausibili anche conseguenze in ambito lavorativo, col rischio concreto di un licenziamento Cassazione, sentenza n. 5897/20, sez. Lavoro, depositata il 3 marzo . Droga. A dare il ‘la’ alla vicenda è il sorprendente arresto di un ausiliario del traffico. L’uomo è stato beccato in possesso di droga, destinata, secondo l’accusa, allo spaccio. Inevitabile il processo, concluso rapidamente col patteggiamento della pena. Allo stesso tempo, però, si apre un altro fronte giudiziario, perché il lavoratore si vede sanzionato dalla propria azienda – una municipalizzata – col licenziamento disciplinare”. Inevitabile l’opposizione dell’uomo, che reagisce all’idea di perdere il proprio posto di lavoro. A dargli ragione sono i giudici d’Appello che, smentendo la decisione presa in Tribunale, annulla il licenziamento e ordina all’azienda di reintegrare il dipendente” e di versargli anche un’indennità risarcitoria. La decisione dei Giudici di secondo grado è basata su una semplice considerazione la destituzione del dipendente è prevista dal ‘Codice disciplinare’ quando egli abbia subito condanne penali in conseguenza di delitti che non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro in ragione della loro specifica gravità , ma in questa vicenda i fatti , esaminati da un processo penale conclusosi con patteggiamento, non sono suscettibili di essere qualificati in termini di specifica gravità , neanche alla luce della accertata esecrabile condotta del lavoratore di fare uso abituale di sostanze stupefacenti . Lavoro. La vittoria del lavoratore viene contestata fortemente dall’azienda, che presenta ricorso in Cassazione, criticando aspramente la decisione presa dai giudici di Appello e sottolineando la gravità della condotta addebitata al proprio dipendente, ossia la detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio . In premessa i Giudici del ‘Palazzaccio’ annotano che in secondo grado la condotta posta in essere dal lavoratore non è stata valutata come grave e quindi come giusta causa di licenziamento. Ciò anche alla luce del convincimento sul rilievo della inidoneità della sentenza di patteggiamento ad estendere gli effetti del giudicato penale nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Ciò in quanto non si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o ad esso equiparato . Evidenti gli errori compiuti in Appello. Innanzitutto, dalla Cassazione ribadiscono il principio secondo cui la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 del Codice di procedura penale ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l’imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l’applicazione, il che sta unicamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità . Di conseguenza, in questa vicenda devono ritenersi dimostrati i fatti storici” attribuiti al lavoratore – cioè attività di detenzione di stupefacenti a fini di spaccio – e accertati con la sentenza penal”, con la conseguente loro idoneità ad acquisire rilevanza in sede disciplinare . Necessario perciò valutare con grande attenzione la condotta con relativa condanna del lavoratore, e su questo fronte i giudici della Cassazione forniscono un’indicazione ai giudici d’Appello, sottolineando che la società datrice di lavoro ha correttamente evidenziato che l’uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti non sono consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte di un dipendente esplicante mansioni di operatore della mobilità addetto alla verifica del pagamento del parcheggio per le vetture in sosta inserito in un ufficio di rilevanza pubblica .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 novembre 2019 – 3 marzo 2020, numero 5897 Presidente Berrino – Relatore Lorito Fatti di causa La Corte d'Appello di Roma, in riforma della pronuncia di prime cure, annullava il licenziamento disciplinare intimato in data 13/11/2015 da ATAC s.p.a. nei confronti di Ro. Di. a seguito dell'arresto disposto per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti e condannava la società a reintegrare il Di. nel posto di lavoro nonché alla corresponsione dell'indennità risarcitoria prevista dall'articolo 18 c.4 L.300/70 pro tempore vigente. A fondamento del decisum la Corte di merito argomentava, per quanto qui rileva, che il lavoratore era stato licenziato ai sensi dell'articolo 6 del codice disciplinare, in base al quale è sancita la destituzione del dipendente nel caso in cui abbia subito condanne penali in conseguenza di delitti che non consentono la prosecuzione del rapporto di lavoro in ragione della loro specifica gravità. La Corte negava, tuttavia, che i fatti in relazione ai quali il Di. era stato tratto a giudizio, con procedimento conclusosi ex articolo 444 e segg. c.p.p., fossero suscettibili di essere qualificati in termini di specifica gravità secondo la previsione codicistica. Riteneva innanzitutto non applicabile alla fattispecie il disposto di cui all'articolo 653 c.1 bis c.p.p. secondo cui la sentenza penale irrevocabile, e quindi, quella di patteggiamento ad essa equiparata, ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità ciò in quanto non si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o di rapporto ad esso equiparato. Pur muovendo, poi, dalla considerazione che - come emerso dai dati istruttori acquisiti in giudizio - il ricorrente era abituale consumatore di stupefacenti, osservava come tale dato non potesse costituire presupposto logico-giuridico su cui fondare l'accusa di detenzione a fini di spaccio, ostando a tale conclusione una serie di elementi fattuali di natura indiziaria escludeva, quindi che, sotto il profilo soggettivo, la pur esecrabile condotta ascrivibile al reclamante - limitata all'uso abituale di sostanze stupefacenti senza finalità di spaccio - fosse connotata da peculiare intensità. Avverso tale decisione la società ATAC interpone ricorso per cassazione sostenuto da tre motivi, illustrati da memoria ex articolo 378 c.p.c. Resiste con controricorso la parte intimata. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli articolo 445 ci bis, 653 ci bis e 654 c.p.p. in relazione all'articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c. Si critica la statuizione con la quale è stato escluso che la sentenza di patteggiamento faccia stato nel presente giudizio, non vertendosi in tema di rapporto di pubblico impiego. Si sostiene per contro, che in forza del combinato disposto di cui agli articolo 445 c.1 bis, 653 c.1 bis c.p.p. -secondo cui la sentenza di patteggiamento ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e della affermazione che l'imputato lo ha commesso - la sentenza di patteggiamento emessa nei confronti del Di., passata in giudicato, fa stato anche nel presente giudizio, quanto alla realizzazione della condotta di detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, che non può, pertanto essere oggetto di ulteriore valutazione in sede di giudizio civile ciò tenendo conto anche del requisito di specialità che connota il rapporto degli autoferrotranvieri più volte rimarcate dalla giurisprudenza di legittimità che si è espressa nel senso della sussunzione di detto rapporto nell'ambito della disciplina del pubblico impiego. 2. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell'articolo 2119 c.c. nonché dell'articolo 18 c.4 L. 300 del 1970 in relazione all'articolo 360 comma primo numero 3 c.p.c. Si stigmatizzano gli approdi ai quali è pervenuto il giudice del gravame in relazione alla accertata insussistenza della specifica gravità del fatto, tale da non consentire la continuazione, neanche in via provvisoria, del rapporto. Si deduce che la Corte di merito, nell'esaminare gli stessi fatti, sia pure nella autonomia di giudizio ad essa spettante, riconosciuti dal Tribunale penale , non abbia fatto corretta applicazione delle norme poste a base del recesso, non considerando che la condotta posta in essere dal Di. era tale da aver irrimediabilmente leso il vincolo di fiducia con la società convenuta , stante l'obiettivo disvalore del fatto contestato, alla stregua degli standards valutativi invalsi nella realtà sociale. 3. Con la terza censura si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c. Ci si duole che il giudice del gravame, nel valutare il requisito della specifica gravità del fatto, abbia tralasciato di considerare un fatto decisivo, costituito dalla detenzione da parte del dipendente, di sostanze stupefacenti a fini di spaccio, nonostante ciò risultasse dal procedimento penale e fosse stato evidenziato negli atti difensivi del giudizio di appello. 4. Avuto riguardo alla ratio decidendi della sentenza impugnata, il secondo motivo di ricorso va esaminato in via preliminare perché potenzialmente decisivo. Tanto in applicazione del principio della ragione più liquida, che, imponendo un nuovo approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell'impatto operativo, piuttosto che su quello tradizionale della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell'ordine di trattazione delle questioni cui all'articolo 276 cod. proc. civ., con una soluzione pienamente rispondente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, ormai anche costituzionalizzata ex multis, vedi Cass. 9/1/2019 numero 363, Cass. 30/3/2016 numero 6165 . 5. Esso è fondato e va accolto per le ragioni di seguito esposte. Deve premettersi che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che la legge - allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo - configura con disposizioni ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. L'accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale vedi ex aliis, Cass. 20/5/2019 numero 13534 Cass. 23/9/2016 numero 18715 . Nell'approccio che è stato definito dalla dottrina multifattoriale , secondo il quale la condotta disciplinarmente rilevante dev'essere collocata nel contesto complessivo in cui è avvenuta, possono poi emergere una serie di circostanze, soggettive od oggettive, che consentano al giudice di valutare, in concreto, la portata della condotta ascritta al lavoratore, definendone i profili di conformità al modello legale. Infatti, come questa Corte insegna per tutte Cass. 15/4/2005 numero 7838, Cass. 12/8/2009 numero 18247 , il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall'ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva. Dette specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge tra le innumerevoli Cass. 8/4/2016 numero 6901 non si sottrae, dunque, al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell'individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento per tutte v. Cass. 18/1/1999 numero 434 , traducendosi in un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma. E' stato poi evidenziato che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'articolo 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale cfr. Cass. 20/5/2019 numero 13534, Cass. 17/1/2017 numero 985 solo l'integrazione a livello generale e astratto della clausola generale si colloca, infatti, sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge. Poiché poi gli elementi da valutare ai fini dell'integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell'elemento intenzionale, etc. occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell'ambito della clausola generale vedi Cass. S.U. numero 23287 del 2010 . 6. Orbene, nello specifico, l'attività valutativa svolta dalla Corte di merito, si è articolata muovendo dalla individuazione della disposizione di legge in base alla quale è stata irrogata la massima sanzione disciplinare. L'art-.6 del codice disciplinare commina infatti la destituzione del dipendente in relazione a condanne penali subite in conseguenza di delitti che non consentano la prosecuzione del rapporto in ragione della loro specifica gravità . Il giudice del gravame ha tuttavia ritenuto che non potesse ricondursi la condotta posta in essere dal Di., all'archetipo normativo della giusta causa di licenziamento, ritenendo i fatti oggetto di condanna in sede penale, non assistiti dalla connotazione di specifica gravità del fatto. E' pervenuto a tale convincimento sul preliminare rilievo della inidoneità della sentenza di patteggiamento, - equiparata ad una pronuncia di condanna ai sensi dell'articolo 445 c.p.p. ci bis - ad estendere gli effetti del giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso ai sensi dell'articolo 653 ci bis c.p.p. ciò in quanto non si verteva in tema di rapporto di lavoro di pubblico impiego o ad esso equiparato. Ha quindi osservato, nello scrutinio della condotta posta in essere dal lavoratore, che non era stato visto nell'atto concreto di spacciare , non era stato reperito materiale alcuno atto al confezionamento di dosi singole apparendo insufficiente il rinvenimento di un coltellino intriso di diversa sostanza stupefacente ed insignificante il possesso sulla propria persona della somma di Euro 105 non vi era prova di commistione fra lavoro e tossicodipendenza perché la circostanza pur riferita da un sottufficiale dei carabinieri che egli aveva ricevuto una busta verosimilmente contenente marjuana da uno sconosciuto mentre si trovava a bordo della autovettura aziendale dal medesimo condotta non poteva ritenersi provata ai sensi dell'articolo 203 c.p.p. in quanto riferita da un informatore non esaminato come teste in sede penale . 7. Al riguardo, non può tralasciarsi di considerare che - diversamente da quanto opinato dai giudici del gravame - questa Corte ha affermato il principio alla cui stregua la sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 c.p.p. ben può essere utilizzata come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile, atteso che in tal caso l'imputato non nega la propria responsabilità e accetta una determinata condanna, chiedendone o consentendone l'applicazione, il che sta univocamente a significare che il medesimo ha ritenuto di non contestare il fatto e la propria responsabilità vedi ex multis, Cass. 18/12/2017 numero 30328, Cass. 5/5/2005 numero 9358 La sentenza penale di applicazione della pena ex articolo 444 cod. proc. penumero costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione dettò riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall'efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova nel corrispondente giudizio di responsabilità in sede civile vedi Cass. cit. numero 30328/2017 Nell'ottica descritta ed in applicazione del ricordato insegnamento, devono ritenersi dimostrati i fatti storici accertati con la sentenza penale di cui all'articolo 444 c.p.p. e la loro idoneità ad acquisire rilevanza in sede disciplinare e, di conseguenza, lo svolgimento della attività di detenzione di sostanze stupefacenti a fini di spaccio in concorso con il collega Centra oggetto della sentenza di condanna penale. Incongruo, alla luce delle summenzionate considerazioni, è, dunque, da ritenersi il successivo giudizio espresso dalla Corte di merito sul tema della specifica gravità del delitto per il quale era stata subita condanna, perché muove da una premessa giuridica non corretta, e si dipana con ragionamento valutativo conseguentemente errato. La condotta posta in essere dal Di., come definita in sede penale nel giudizio concluso con sentenza di patteggiamento, deve essere oggetto di valutazione, con specifico riferimento al giudizio di sussunzione del fatto concreto, siccome accertato, nella norma generale la società ha infatti correttamente formulato specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio espresso dalla Corte di merito rispetto agli standard, conformi ai valori dell'ordinamento ed esistenti nella realtà sociale, in base ai quali l'uso e la detenzione, anche a fini di spaccio, di sostanze stupefacenti, non sono consoni allo svolgimento di una prestazione lavorativa implicante contatto con gli utenti da parte di un dipendente esplicante mansioni di operatore della mobilità addetto alla verifica del pagamento parcheggio per le vetture in sosta inserito in un ufficio di rilevanza pubblica. In tal senso appaiono significativi anche i recenti approdi ai quali è pervenuta questa Corte di legittimità in ordine a fattispecie non dissimile da quella in questa sede scrutinata, laddove ha affermato il principio alla cui stregua, viola certamente il minimo etico la condotta extralavorativa di consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite a rischio , a prescindere dal mancato riferimento, nell'ambito del r.d. numero 148 del 1931, alla descritta condotta vedi Cass. 24/5/2018 numero 12994 . 7. Alla luce delle sinora esposte considerazioni le doglianze formulate dalla società Atac col secondo motivo vanno accolte entro i termini descritti restando logicamente assorbite le censure formulate con il primo e terzo motivo di ricorso . La sentenza va pertanto cassata con rinvio, ex articolo 384 comma 2 c.p.c. alla Corte distrettuale indicata in dispositivo che provvederà a scrutinare compiutamente la vicenda considerata, attenendosi ai principi di diritto innanzi enunciati e tenendo presente che nella operazione di sussunzione del fatto nell'ipotesi normativa, è differenziata l'intensità della fiducia richiesta, a seconda della natura e della qualità del singolo rapporto, della posizione delle parti, dell'oggetto delle mansioni e del grado di affidamento che queste richiedono che la valutazione del fatto concreto deve investire la sua portata oggettiva e soggettiva che deve essere conferito rilievo determinante, ai fini in esame, alla potenzialità del medesimo di porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento. Al giudice del rinvio è demandato infine di provvedere anche in ordine alle spese inerenti al presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.