Riorganizzazione aziendale e licenziamento: l’onere della prova del datore di lavoro in tema di repechage

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per riorganizzazione aziendale e onere di repechage, il datore di lavoro deve dimostrare che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa, nonchè di aver inutilmente prospettato al dipendente la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 29099/19, depositata l’11 novembre. Il caso. La Corte d’Appello di Roma rigettava il reclamo proposto da un ex dipendente e confermava così il rigetto dell’impugnazione del licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo dovute a ragioni riorganizzattive consistenti nella soppressione del posto del lavoratore ed esternalizzazione dell’attività. Il lavoratore ha proposto ricorso per la cassazione della pronuncia. Licenziamento e repechage. La Corte ricorda in primo luogo che in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo è sufficiente che le ragioni addotte dal datore di lavoro e riguardanti la riorganizzazione dell’attività produttiva determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di una specifica posizione lavorativa. Quanto all’onere di repechage, i Giudici ricordano che il datore di lavoro ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche di aver inutilmente prospettato al dipendete la possibilità di reimpiego in mansioni inferiori rientranti comunque nel suo bagaglio professionale. Nell’interpretazione dell’art. 2103 c.c. deve infatti essere perseguito il bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale efficiento con quello del lavoratore al mantenimento del posto di lavoro. Avendo la Corte territoriale correttamente applicato tali principi al caso di specie, il ricorso viene rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 26 settembre – 11 novembre 2019, n. 29099 Presidente Nobile – Relatore Patti Fatti di causa Con sentenza in data 21 aprile 2016, la Corte d’appello di Roma rigettava il reclamo proposto da S.S. , dipendente di Continental Automotive Trading Italia s.r.l. con qualifica di viaggiatore 2 livello e compiti di venditore di tachigrafi e prodotti affini con marchio VDO, avverso la sentenza di primo grado di reiezione dell’opposizione avverso l’ordinanza all’esito del procedimento sommario introdotto dalla L. n. 92 del 2012 di rigetto della sua impugnazione di licenziamento, intimatogli dalla datrice il 25 febbraio 2014 per giustificato motivo oggettivo, e delle conseguenti condanne reintegratoria e risarcitoria, nonché di improponibilità, con il rito speciale, delle domande di preavviso e di risarcimento del danno per screditamento professionale. Preliminarmente ravvisata l’ammissibilità del reclamo per la sua conformità al paradigma legale e l’individuazione dallo stesso ricorrente delle ragioni di impugnazione del licenziamento nell’inesistenza di un giustificato motivo oggettivo, la Corte territoriale riteneva l’effettiva sussistenza delle ragioni riorganizzative, consistenti nella soppressione del posto del lavoratore, per esternalizzazione dell’attività di vendita dal medesimo svolta e l’adempimento datoriale all’onere di repechage, per l’offerta, nell’incontestata indisponibilità di posizioni del suo livello di inquadramento, di un posto per mansioni inferiori con adeguamento del contratto in pejus. Avverso tale sentenza, con atto notificato il 20 21 giugno 2016, il lavoratore ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva la società con controricorso entrambe le parti comunicavano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2103, 2697, 2729, 2731 c.c., L. n. 604 del 1966, artt. 3, 5, artt. 113, 115, 116 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto mancante la prova, a carico della datrice di lavoro, dell’effettiva soppressione del posto di lavoro del ricorrente senza avere esaminato alcuno dei contratti di esternalizzazione dell’attività prima svolta dal medesimo e pertanto l’effettiva riorganizzazione aziendale, nonché dell’impossibilità di una propria collocazione in posizione equivalente, non ricavabile da dichiarazioni rese dallo stesso in sede di interrogatorio libero, integranti meri argomenti di prova così reputando legittima un’offerta di reimpiego peggiorativa, per il livello delle mansioni, la novazione del rapporto, con deteriore trattamento economico e trasferimento della sede di lavoro. 2. Con il secondo, egli deduce nullità della sentenza per difetto del requisito di validità della motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., in riferimento all’effettiva soppressione del posto del lavoratore, sul presupposto di una sua dichiarazione, resa nel libero interrogatorio, di esternalizzazione dell’attività in precedenza svolta e di assoluzione dell’onere di repechage, su pari presupposto. 3. Il primo motivo, relativo alla violazione di legge suindicata per mancanza di prova dell’effettiva soppressione del posto di lavoro del lavoratore, è inammissibile. 3.1. In via di premessa, giova ribadire che, in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è sufficiente, per la legittimità del recesso, che le addotte ragioni inerenti all’attività produttiva e all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette a una migliore efficienza gestionale ovvero a un incremento di redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa non essendo la scelta imprenditoriale, che abbia comportato la soppressione del posto di lavoro, sindacabile nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’art. 41 Cost. Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 Cass. 3 maggio 2017, n. 10699 sempre che, s’intende, dette ragioni incidano, in termini di causa efficiente, sulla posizione lavorativa ricoperta dal lavoratore licenziato, soltanto così non risultando il recesso pretestuoso Cass. 28 marzo 2019, n. 8661 . 3.2. Quanto all’onere di repechage, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui era addetto il lavoratore, il datore ha l’onere di provare non solo che al momento del licenziamento non sussistesse alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, ma anche, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale Cass. 13 agosto 2008, n. 21579 Cass. 8 marzo 2016, n. 4509 Cass. 6 dicembre 2018, n. 31653 . L’art. 2103 c.c., deve, infatti, essere interpretato alla stregua del bilanciamento del diritto del datore di lavoro a perseguire un’organizzazione aziendale produttiva ed efficiente e di quello del lavoratore al mantenimento del posto, in coerenza con la ratio di numerosi interventi normativi, quali il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 7, comma 5, L. n. 68 del 1999, art. 1, comma 7, D.Lgd. n. 223 del 1991, art. 4, comma 11, anche come da ultimo riformulato dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, comma 2 senza necessità, ove il demansionamento rappresenti l’unica alternativa al recesso datoriale, di un patto di demansionamento o di una richiesta del lavoratore in tal senso anteriore o contemporanea al licenziamento, essendo onere del datore di lavoro, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, prospettare al dipendente la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori compatibili con il suo bagaglio professionale Cass. 19 novembre 2015, n. 23698 . 3.3. E la Corte territoriale ha esattamente applicato i suenunciati principi di diritto, in base ad accertamento in fatto congruente con le scrutinate risultanze di effettiva soppressione del posto del lavoratore per incontestata esternalizzazione della sua attività, dallo stesso espressamente riconosciuta così al primo capoverso di pg. 4 della sentenza e di inesistenza di posti disponibili del suo livello di inquadramento, con la conseguente, corretta offerta di una posizione di mansione inferiore di ispettore di rete , rifiutata dal lavoratore così all’ultimo capoverso di pg. 4, in riferimento al terz’ultimo di pg. 2 della sentenza e pertanto insindacabile in sede di legittimità. 3.4. Nè la Corte capitolina ha mal governato i principi di valutazione della prova in riferimento alle dichiarazioni rese dal lavoratore in sede di interrogatorio libero, ben potendo la dichiarazione ivi resa, nonostante la sua natura giuridica non confessoria, essere liberamente valutata dal giudice, che ne può legittimamente trarre un convincimento contrario all’interesse della parte ed utilizzarla quale unica fonte di prova Cass. 2 aprile 2009, n. 8066 Cass. 1 ottobre 2014, n. 20736 Cass. 22 giugno 2016, n. 12961 Cass. 7 giugno 2017, n. 14195 . 4. Il secondo motivo, relativo a nullità della sentenza per difetto del requisito di validità della motivazione in riferimento all’effettiva soppressione del posto del lavoratore, è infondato. 4.1. Non si configura, infatti, il denunciato error in procedendo. E ciò alla luce della congrua argomentazione dell’accertamento compiuto dalla Corte di merito, che ne esclude la sussistenza posto che il vizio di apparente motivazione, integrante nullità della sentenza, ricorre qualora essa sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione, per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perché perplessa ed obiettivamente incomprensibile, realizzandosi in tal caso una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940 Cass. 25 settembre 2018, n. 22598 . 5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e il raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il lavoratore alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.