Ufficio soppresso, dipendente ricollocato con mansioni minori: azienda condannata

Sacrosanto il diritto del lavoratore a vedersi risarcito per le ripercussioni negative subite a seguito della condotta tenuta dal datore di lavoro, che ora dovrà sborsare quasi 160mila euro. Decisiva la constatazione che i nuovi compiti assegnati al dipendente non prevedevano più i poteri di direzione e di coordinamento in precedenza espletati.

Ufficio soppresso e dipendente ricollocato. Tutto regolare, almeno in apparenza a stonare, difatti, sono i nuovi compiti, cui risultano estranei quei poteri di direzione e di coordinamento espletati in precedenza”. Legittime, secondo i giudici, le proteste del lavoratore, che va considerato vittima per anni di un evidente demansionamento e ha diritto ad essere risarcito dal datore di lavoro – un istituto di credito – con quasi 160mila euro Cassazione, ordinanza n. 16596/19, sez. Lavoro, depositata oggi . Compiti. Decisivo per l’esito della battaglia legale è il passaggio in Corte d’Appello. Lì i Giudici ribaltano la decisione presa dal Tribunale e condannano la banca a corrispondere al dipendente quasi 160mila euro a titolo di risarcimento per i danni conseguiti al demansionamento subito dal lavoratore, demansionamento accertato per il periodo luglio 1999-febbraio 2008 e caratterizzato anche da periodi di protratta inattività . Irrilevante per i Giudici è la circostanza che l’ufficio al quale in precedenza il lavoratore era assegnato fosse stato soppresso, non giustificandosi comunque l’assegnazione di compiti ai quali risultavano estranei quei poteri di direzione e di coordinamento in precedenza espletati . Evidente, sempre secondo i giudici, non solo il danno biologico riportato dall’uomo, ma anche quello alla professionalità, alla reputazione e all’immagine . Lesioni. Infruttuoso, infine, il ricorso proposto in Cassazione dai legali dell’istituto di credito. Inutile, in particolare, il richiamo all’esercizio, da parte dell’azienda, del cosiddetto ‘ius variandi’. Su questo fronte, difatti, i giudici ribadiscono che l’equivalenza delle mansioni deve essere valutata anche nel caso in cui le mansioni in precedenza assegnate non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite – come con la soppressione di un ufficio – con la conseguenza che anche in tale caso può aversi demansionamento allorché le nuove mansioni siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore . Per quanto concerne poi il tema dei danni riportati dal lavoratore a seguito della condotta tenuta dall’azienda, i giudici osservano che l’assegnazione a mansioni inferiori rappresenta pacificamente fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale . In particolare, l’inadempimento datoriale può comportare, innanzitutto, un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali . Riferimento principale, concludono i giudici, è la tutela della dignità personale del lavoratore , e in questa ottica è legittima la condanna dell’istituto di credito a risarcire il dipendente per averlo demansionato, arrecandogli grossi danni personali e professionali.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 28 marzo – 20 giugno 2019, n. 16596 Presidente Patti – Relatore Amendola Rilevato che 1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 14 luglio 2014, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena a corrispondere ad F.I. la somma complessiva di Euro 159.467,00, oltre accessori, a titolo di risarcimento dei danni conseguiti al demansionamento del lavoratore che la stessa Corte ha accertato per il periodo dal luglio 1999 al febbraio 2008 con periodi di protratta inattività 2. la Corte - per quanto qui rileva - ha considerato che non valesse ad escludere l’illegittimità dello ius variandi la circostanza che l’ufficio al quale in precedenza il F. era assegnato fosse stato soppresso, non giustificandosi l’assegnazione di compiti ai quali risultavano estranei quei poteri di direzione e di coordinamento in precedenza espletati ha liquidato un danno biologico sulla base di una invalidità permanente accertata dal CTU nella misura del 4%, pari ad Euro 4.967,00 secondo le tabelle milanesi poi la Corte territoriale, considerando il danno alla professionalità , emergente con evidenza dalla entità qualitativa e quantitativa del demansionamento subito, protrattosi per circa nove anni, nonché dalla documentazione prodotta ed in particolare dalle schede di valutazione, dalle quali risulta che l’appellante, che sino al 1999 aveva avuto una brillante carriera e ricevuto solo apprezzamenti positivi, è stato ritenuto parzialmente in linea con le attese” nell’anno 2001 e solo adeguato” nel 2007 nonché circostanze istruttorie significative della lesione all’immagine ed alla reputazione , ha stimato un danno non patrimoniale pari ad Euro 1.500,00 per ogni mese di demansionamento 3. per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società con 3 motivi, cui resiste F.I. con controricorso entrambe le parti hanno comunicato memorie. Considerato che 1. con il primo motivo di ricorso la Banca denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2103 c.c. sostenendo che la Corte territoriale, pur avendo dato atto della soppressione dell’ufficio cui era adibito il F. , avrebbe erroneamente ritenuto sussistente il demansionamento senza accertare la colpa nella condotta della banca e senza che il lavoratore avesse indicato altri posti di lavoro nei quali egli avrebbe potuto essere utilmente ricollocato il motivo è privo di fondamento la Corte territoriale ha correttamente applicato il principio, con cui parte ricorrente neanche si misura piuttosto invocando oneri di allegazione gravanti sul lavoratore neanche più applicati per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo v. Cass. n. 5592 del 2016 , secondo cui in tema di esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro, l’equivalenza delle mansioni deve essere valutata anche nel caso in cui le mansioni in precedenza assegnate non siano state affidate ad altro dipendente, ma si siano esaurite, con la conseguenza che anche in tale caso può aversi demansionamento, allorché le nuove mansioni siano inferiori a quelle proprie della qualifica o alle ultime svolte dal lavoratore Cass. n. 1575 del 2010 conf. Cass. n. 7435 del 2018 2. con il secondo motivo di ricorso la Banca denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2087, 2103, 2697 e 2729 c.c. , lamentando che la Corte romana avrebbe scorrettamente applicato le plurime disposizioni richiamate in relazione all’accertato demansionamento liquidando sia il risarcimento del danno biologico, sia il risarcimento del danno non patrimoniale da dequalificazione, quest’ultimo, peraltro, liquidato sulla base di mere presunzioni senza alcuna prova concreta il motivo non merita accoglimento esso, nonostante la veste formale della denuncia di violazione e falsa applicazione di legge, nella sostanza censura quello che è un accertamento di fatto concernente la sussistenza o meno di pregiudizi risarcibili alla professionalità del lavoratore, che avrebbe potuto essere contestato solo nei ristretti limiti imposti dal novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 in ordine, poi, alla pretesa duplicazione del danno biologico con il danno alla professionalità va rilevato quanto segue l’assegnazione a mansioni inferiori pacificamente rappresenta fatto potenzialmente idoneo a produrre una pluralità di conseguenze dannose, sia di natura patrimoniale che di natura non patrimoniale, non legate esclusivamente alla lesione dell’integrità psico-fisica innanzi tutto l’inadempimento datoriale può comportare un danno da perdita della professionalità di contenuto patrimoniale che può consistere sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di un maggior saper fare, sia nel pregiudizio subito per la perdita di chance, ossia di ulteriori possibilità di guadagno o di ulteriori potenzialità occupazionali tra le altre v. Cass. n. 11045 del 2004 Cass. n. 14199 del 2009 inoltre la modifica in peius delle mansioni è potenzialmente idonea a determinare un pregiudizio a beni di natura immateriale, anche ulteriori rispetto alla salute, atteso che, nella disciplina del rapporto di lavoro, numerose disposizioni assicurano una tutela rafforzata del lavoratore, con il riconoscimento di diritti oggetto di tutela costituzionale, con la configurabilità di una danno non patrimoniale risarcibile ogni qual volta vengano violati, superando il confine dei sacrifici tollerabili, diritti della persona del lavoratore oggetto di peculiare tutela al più alto livello delle fonti infatti questa Corte, a Sezioni unite sent. nn. 26972, 26973, 26974, 26975 dell’11 novembre 2008 , dichiarando risarcibile il danno non patrimoniale da inadempimento contrattuale, ha dedicato adeguato rilievo alla dignità personale del lavoratore che, in riferimento agli artt. 2, 4 e 32 Cost., costruisce come diritto inviolabile descrive quale lesione di tale diritto proprio i pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa dunque dal riconoscimento costituzionale della personalità morale e della dignità del lavoratore deriva il diritto fondamentale di questi al pieno ed effettivo dispiegamento del suo professionalizzarsi espletando le mansioni che gli competono la lesione di tale posizione giuridica soggettiva ha attitudine generatrice di danni a contenuto non patrimoniale, in quanto idonea ad alterare la normalità delle relazioni del lavoratore con il contesto aziendale in cui opera, del cittadino con la società in cui vive, dell’uomo con se stesso in termini Cass. n. 12253 del 2015 quanto alla liquidazione di tali danni, la non patrimonialità - per non avere il bene persona un prezzo - del diritto leso, comporta che, diversamente da quello patrimoniale, il ristoro pecuniario del danno non patrimoniale non può mai corrispondere alla relativa esatta commisurazione, imponendosene pertanto la valutazione equitativa, anche attraverso il ricorso alla prova presuntiva, che potrà costituire pure l’unica fonte di convincimento del giudice ancora Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit. precisato che dall’inadempimento datoriale non deriva automaticamente l’esistenza di un danno, il quale non è immancabilmente ravvisabile solo in ragione della potenzialità lesiva dell’atto illegittimo Cass. SS.UU. n. 6572 del 2006 e fermi gli oneri di allegazione e di prova gravanti su chi denuncia di aver subito il pregiudizio, compete tuttavia al giudice di merito non solo ogni accertamento e valutazione di fatto circa la concreta sussistenza e la individuazione della specie del danno, ma anche la sua liquidazione - in ipotesi anche equitativa - sindacabile, in sede di legittimità, soltanto per vizio di motivazione in tal senso, v. Cass. n. 14199 del 2001 altresì Cass. n. 9138 del 2011, Cass. n. 2352 del 2010, Cass. n. 10864 del 2009, Cass. n. 5333 del 2003 Cass. n. 10268 del 2002 Cass. n. 18599 del 2001, Cass. n. 104 del 1999 i criteri di valutazione equitativa, la cui scelta ed adozione è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice, debbono consentire una valutazione che sia adeguata e proporzionata v. Cass. n. 12408 del 2011 , in considerazione di tutte le circostanze concrete del caso specifico, al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la personalizzazione del risarcimento v. Cass. SS.UU. n. 26972/2008 cit. Cass. n. 7740 del 2007 Cass. n. 13546 del 2006 essendo la liquidazione del quantum dovuto per il ristoro del danno non patrimoniale inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimazione, si esclude che l’esercizio del potere equitativo del giudice di merito possa di per sé essere soggetto a controllo in sede di legittimità, se non in presenza di totale mancanza di giustificazione che sorregga la statuizione o di macroscopico scostamento da dati di comune esperienza o di radicale contraddittorietà delle argomentazioni cfr. Cass. n. 12918 del 2010 Cass. n. 1529 del 2010 Cass. n. 18778 del 2014 in particolare, in tema di dequalificazione, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l’esistenza del danno, determinandone anche l’entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità colpita, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto cfr,, ex plurimis, Cass. n. 19778 del 2014 Cass. n. 4652 del 2009 Cass. n. 28274 del 2008 Cass. SS.UU n. 6572/2006 cit. nella specie la sentenza impugnata indica gli elementi di fatto in base ai quali ha ritenuto accertato un danno alla professionalità, avuto riguardo alla entità qualitativa e quantitativa del demansionamento ed al suo perdurare nel tempo, oltre che ai riflessi sulle valutazioni professionali e sulla lesione all’immagine ed alla reputazione, stimando equo commisurare il danno in Euro 1.500,00 mensili per l’intero periodo del grave demansionamento questa Corte ha considerato anche la retribuzione mensile parametro del danno da impoverimento professionale v. Cass. n. 9228 del 2001 cfr. pure Cass. n. 7967 del 2002 e Cass. n. 835 del 2001 più di recente Cass. n. 12253/2015 cit. con un percorso motivazionale che, senza discostarsi da dati di comune esperienza e non palesando radicale contraddittorietà delle argomentazioni, sorregge a sufficienza l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa, idoneo a precludere la cassazione della sentenza impugnata sulla base delle censure che parte ricorrente muove 3. con il terzo motivo di ricorso la Banca denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2087 e 2103 c.c. per non avere la sentenza impugnata detratto dalla quantificazione del danno i periodi di assenza dal lavoro del Signor F. il motivo si palesa inammissibile non solo perché denuncia un error in iudicando sulla base di circostanze di fatto cui questa Corte di legittimità non ha accesso ma anche per il suo carattere di novità, atteso che, non essendo stata la questione affrontata dalla Corte di Appello, non viene specificato come e quando la medesima sia stata posta nell’ambito del giudizio di merito cfr. Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014 Cass. n. 2730 del 2012 Cass. n. 20518 del 2008 Cass. n. 25546 del 2006 Cass. n. 3664 del 2006 Cass. n. 6542 del 2004 4. conclusivamente il ricorso va respinto, con liquidazione delle spese secondo soccombenza occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 6.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge nonché rimborso forfettario al 15%. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.