Lancia un pezzo di legno contro un collega: fatto non sufficiente a giustificare il licenziamento

Vittoria per il lavoratore finito sotto accusa riconosciuto il suo diritto ad essere reintegrato in azienda. Per i Giudici l’episodio incriminato non è davvero grave, anche perché il lavoratore preso di mira non è stato colpito, e comunque può essere visto come un mero gesto dimostrativo di protesta.

Lanciare un grosso oggetto – un pezzo di legno, per la precisione – contro un collega di lavoro – senza riuscire a colpirlo, peraltro – è comportamento sì censurabile ma non così grave, secondo i Giudici, da portare al licenziamento. Così è stata respinta la visione adottata dai legali di una grossa azienda che aveva messo alla porta il dipendente per l’inconsulto gesto rivolto verso un altro lavoratore Cassazione, sentenza n. 14054/19, sez. Lavoro, depositata oggi . Lancio. L’episodio incriminato risale a cinque anni fa. Scenario è lo stabilimento dell’azienda lì un lavoratore si rende protagonista di un gesto assurdo, cioè scagliare un pezzo di legno – lungo circa 60 centimetri, largo 6 centimetri e spesso 4 centimetri – in direzione di un collega, senza però riuscire a colpirlo . A provocare l’attimo di follia pare le operazioni ad elevata rumorosità compiute dal lavoratore preso di mira, operazioni che avevano già precedentemente provocato una reazione di fastidio, accompagnata da espressioni offensive nell’operaio resosi poi protagonista del lancio. Tutti gli elementi a disposizione spingono i vertici della società a optare per il licenziamento del lavoratore finito sotto accusa per avere provato a colpire il collega. Gli stessi elementi, però, vengono letti diversamente dai giudici, che, prima in Tribunale e poi in Appello, azzerano il licenziamento, ritenendo non sussistente il fatto oggetto di contestazione disciplinare, identificato in un tentativo di lesioni volontarie , poiché il lancio del pezzo di legno in direzione della postazione di lavoro del collega, distante oltre dieci metri non è sufficiente per parlare di azione oggettivamente idonea a colpire con intensità apprezzabile la persona presa di mira. Piuttosto, sempre secondo i giudici, si può parlare plausibilmente di mero gesto dimostrativo di protesta . Liceità. La lettura data all’episodio in appello è ritenuta corretta e confermata dai giudici della Cassazione. Inutile il ricorso proposto dai legali della società e finalizzato a porre in evidenza la gravità del comportamento tenuto nello stabilimento aziendale dal lavoratore. Applicabile, in sostanza, il principio secondo cui il fatto è sì sussistente ma privo del carattere di illiceità , e quindi non così grave da legittimare il provvedimento sanzionatorio più drastico, cioè il licenziamento. Respinta la tesi secondo cui ci si trova di fronte ad una condotta contraria alla vita e all’organizzazione aziendale . Vittoria, quindi, per il lavoratore, che vede riconosciuto il proprio diritto a tornare di nuovo ad essere operativo nello stabilimento.

Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza 10 gennaio – 23 maggio 2019, n. 14054 Presidente Nobile – Relatore Della Torre Fatti di causa 1. Con sentenza n. 412/2017, depositata il 4 aprile 2017, la Corte di appello di Firenze respingeva il reclamo di Metalzinco S.p.A. e confermava la sentenza con cui il Tribunale di Siena aveva rigettato l'opposizione proposta dalla società nei confronti dell'ordinanza, emessa nella fase sommaria, che aveva annullato il licenziamento per giusta causa dalla stessa intimato a Ma. Ma., con lettera del 30/10/2014, per avere il dipendente scagliato un pezzo di legno lungo circa 60 cm, largo 6 e spesso 4, senza colpirlo, in direzione del collega Ve. addetto a operazioni che per la loro elevata rumorosità ne avevano in precedenza provocato una reazione di fastidio accompagnata da espressioni offensive. 2. La Corte riteneva insussistente il fatto oggetto di contestazione disciplinare, identificato in un tentativo di lesioni volontarie, posto che, pur essendo pacifico il lancio del pezzo di legno in direzione della postazione di lavoro del collega ad oltre 10 metri di distanza, non poteva, tuttavia, considerarsi provato né che l'azione fosse oggettivamente idonea a colpire con intensità apprezzabile la persona del Ve., né che essa esprimesse un intento lesivo ai suoi danni, anziché un mero gesto dimostrativo di protesta ciò che portava il giudice di appello, sul presupposto della equiparazione tra fatto materialmente insussistente e fatto sussistente ma privo del carattere della illiceità, a condividere la decisione di primo grado anche in ordine all'applicazione nel caso di specie del regime di tutela di cui all'art. 18, comma 4, L. n. 300/1970. 3. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società con cinque motivi, cui ha resistito il Ma. con controricorso. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, deducendo il vizio di cui all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ. con riguardo a norme di diritto artt. 2119, 2043, 1375 e 1175 cod. civ. art. 1, commi 42 e 43, L. 28 giugno 2012, n. 92 e di fonte collettiva artt. 9 e 10 C.C.N.L. Metalmeccanici , la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere adeguatamente considerato che l'episodio oggetto della contestazione disciplinare e del successivo licenziamento, pur non essendo stato produttivo di danno, rivestiva comunque il carattere della illiceità, la quale ben può essere connessa ad un fatto di natura colposa e a qualsiasi condotta contraria alla vita e all'organizzazione aziendale, e per non avere considerato - una volta accertata la illegittimità del comportamento posto in essere dal lavoratore e al fine di escluderne la punibilità con l'adozione della sanzione espulsiva - se esso potesse rientrare nell'ambito di applicazione delle misure conservative previste dal C.C.N.L. di settore, nessuna delle quali peraltro aveva ad oggetto comportamenti contro la persona. 2. Con il secondo motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2043 cod. civ., in relazione all'art. 2119 cod. civ. e all'art. 1, commi 42 e 43, L. 28 giugno 2012, n. 92, la ricorrente censura la sentenza per avere ritenuto che il datore di lavoro dovesse dimostrare che il lancio del pezzo di legno era diretto a colpire il collega e come tale dimostrazione non fosse stata conseguita, senza, tuttavia, valutare l'impossibilità di una prova attinente alla sfera puramente interna del soggetto agente e la sussistenza di sufficienti indizi per la qualificazione della condotta come ostile. 3. Con il terzo e con il quarto motivo, rispettivamente deducendo il vizio di cui all'art. 360 n. 3, con riferimento agli artt. 3 L. n. 604/1966, 2118 cod. civ. e 112 cod. proc. civ., e di cui all'art. 360 n. 4 cod. proc. civ., la società ricorrente si duole che la Corte di appello non si sia pronunciata sulla possibilità di riqualificare il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. 4. Con il quinto motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione dell'art. 1, commi 42 e 43, L. n. 92/2012, la ricorrente si duole dell'applicazione della tutela reintegratoria in luogo del pagamento di una indennità risarcitoria compresa tra un minimo di dodici e un Ma. di ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. 5. Il primo e il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto connessi, risultano inammissibili. 6. La società ricorrente, infatti, pur denunciando con entrambi i motivi in esame il vizio di cui all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., non indica le affermazioni in diritto, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla Corte di cassazione di adempiere il proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunciata violazione cfr., fra le molte conformi, Cass. n. 16038/2013 . 7. In realtà, dietro lo schermo del vizio di cui all'art. 360 n. 3 la ricorrente propone una diversa ricostruzione dell'episodio, che ha dato origine alla contestazione disciplinare e al licenziamento, e cioè il compimento di un'attività che è certamente estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento alla Corte di legittimità ed è invece propria del giudice di merito, al quale - come ripetutamente precisato Cass. n. 25608/2013, fra le numerose conformi - spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l'attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova. 8. D'altra parte, la Corte di merito - svolta un'ampia e analitica indagine sulle circostanze e modalità dell'episodio, non oggetto di alcuna censura ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. nella formulazione ratione temporis vigente - ha correttamente applicato il principio di diritto, secondo il quale l'insussistenza del fatto contestato, di cui all'art. 18 St. lav., come modificato dall'art. 1, comma 42, della L. n. 92 del 2012, comprende l'ipotesi del fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, sicché in tale ipotesi si applica la tutela reintegratoria, senza che rilevi la diversa questione della proporzionalità tra sanzione espulsiva e fatto di modesta illiceità Cass. n. 20540/2015 conformi n. 18418/2016 n. 11322/2018 . 9. Consegue da quanto sopra che anche il quinto motivo non può trovare accoglimento. 10. Quanto al terzo e al quarto, da esaminarsi congiuntamente per identità di censura, ne è palese l'infondatezza. 11. Ed invero esattamente la Corte di merito non si è pronunciata sullo specifico motivo di gravame relativo alla riqualificazione del licenziamento, intimato per giusta causa, in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, avendo accertato l'insussistenza del fatto contestato. 12. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.q.m. La Corte rigetta il ricorso condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.