Il danno da demansionamento va allegato e provato

La responsabilità del datore di lavoro di cui all'art. 2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa di demansionamento o dequalificazione, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze, l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro con l’ordinanza n. 11777/19, pubblicata il 6 maggio. La vicenda domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima dequalificazione subita da un lavoratore. Un dipendente agiva in giudizio al fine di ottenere l’accertamento della dequalificazione subita ed il conseguente risarcimento dei danni. Il Tribunale rigettava la domanda, ritenendo non raggiunta la prova circa il lamentato danno subito. Proposto appello da parte del lavoratore, la Corte territoriale lo rigettava, ribadendo la carenza di allegazione specifica e di prova delle voci di danno rivendicate. Ricorreva in Cassazione il lavoratore. Il danno da demansionamento. Il Supremo Collegio si sofferma sul riconoscimento del diritto del lavoratore a vedersi risarcito il danno professionale e biologico in presenza di accertato illegittimo demansionamento. Afferma infatti la Corte che in materia di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo e dalla necessità di specifica prova dell'esistenza del danno stesso e del nesso di causalità, che per il danno esistenziale può risultare anche in via presuntiva. Occorre infatti distinguere tra violazione degli obblighi contrattuali e produzione del danno da inadempimento. Quest’ultimo non necessariamente scaturisce sempre da un inadempimento, essendo infatti necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene affinché si possa configurare un danno e procedere di conseguenza alla sua liquidazione. Indispensabile l’allegazione e la prova del danno lamentato. La Suprema Corte richiama principi di diritto già in precedenza affermati in punto, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è di carattere contrattuale, atteso che il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c., dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale. Ne consegue che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'art. 1218 c.c. circa l'inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile e, cioè, di aver adempiuto interamente all'obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno. Di conseguenza, incombe al lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, senza che occorra anche la indicazione delle norme antinfortunistiche violate o delle misure non adottate, mentre, quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. Nella specie la Corte d'appello, con valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità perché assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, ha ritenuto che non fosse stata raggiunta la prova del lamentato danno alla salute , né la nocività dell'ambiente di lavoro, né infine il nesso causale tra i due elementi. Applicando correttamente i principi di diritto sopra richiamati. La valutazione delle prove non consentita in sede di legittimità. Né coglie nel senso la censura del ricorrente circa le valutazioni effettuate dalla corte di merito riguardo alle risultanze probatorie. E’ stato più volte affermato infatti che il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio della motivazione non può essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. in caso contrario, il motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, ovvero di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. Ed in effetti, secondo gli ermellini, il motivo proposto ricade in quest’ultima fattispecie. Pertanto il ricorso è stato ritenuto nel suo complesso infondato e così rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 2 ottobre 2018 – 6 maggio 2019, n. 11777 Presidente Balestrieri – Relatore De Gregorio Osserva in fatto Con sentenza numero 264 del 9 aprile 7 giugno 2010 il giudice del lavoro di Ascoli Piceno rigettava la domanda dell’attore T.G. , il quale con ricorso del 13 maggio 2004 aveva lamentato tra l’altro svuotamento di mansioni con decorrenza dal 1998, a seguito di unificazione del reparto elettrico con quello di manutenzione, per mancata adibizione alle mansioni strumentista, considerata altresì la carenza del mobbing e quindi del danno alla salute. L’anzidetta pronuncia veniva appellata dal T. , che lamentava l’errata interpretazione delle risultanze istruttorie, sebbene testimoni avessero sostanzialmente confermato le proprie lamentele, in relazione sia alla mancata dotazione dell’apparecchio dosimetro, in occasione degli interventi su apparecchiature radioattive, sia all’assegnazione di mansioni deteriori e dequalificanti come lo spazzare il pavimento ed eseguire compiti di pulizia, secondo quanto riferito dal teste C. , sia con riferimento alla condizione di sostanziale isolamento in fabbrica in cui egli era stato relegato, tant’è che lo stesso C. era stato diffidato dal superiore dal frequentare il collega T. . Inoltre, l’appellante aveva lamentato il mancato rilievo dell’obbligo gravante a carico di parte datoriale circa il dovere di porre in essere tutte le misure necessarie alla tutela dell’integrità psicofisica del dipendente, sebbene costui avesse dimostrato le sue vicissitudini in ambiente di lavoro, con dequalificazione e violazione dell’art. 2103 c.c., iniziata nel lontano 1986, ed avesse comunque dimostrato la sostanziale inattività, alla quale era stato costretto dalla condotta datoriale. La Corte d’Appello di Ancona con sentenza n. 219 in data 7 marzo / 2 luglio 2013 rigettava l’interposto gravame, dichiarando compensate tra le parti le spese di secondo grado, poiché le circostanze di fatto addotte a sostegno sia del lamentato mobbing che del demansionamento dedotto anche nella forma dello svuotamento di mansioni non avevano trovato riscontro nelle risultanze istruttorie. Avverso l’anzidetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il sig. T.G. con atto notificato l’11 aprile 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito MUNKSJO ITALIA S.p.a. già AHLSTROM TURIN S.p.a. mediante controricorso in data 21/22 maggio 2014, con il quale peraltro è stata eccepita la tardività dell’impugnazione avversaria, per violazione del termine breve di giorni 60, essendo stata la sentenza de qua notificata in cancelleria il 16 ottobre del 2013, poiché il procuratore costituito dell’appellante avv. Stefania Tomassini, iscritta all’ordine degli avvocati di Ascoli Piceno, con domicili professionali sia in che in omissis , non aveva eletto rituale domicilio in Ancona, laddove si era limitata a dichiarare elezione di domicilio presso studio avv. G. Pangrazi, donde il difetto di chiara e valida indicazione di un procuratore domiciliatario, il cui nominativo non era stato indicato per esteso, parimenti mancante di indirizzo. Sono rimaste intimate le altre parti. Considerato in diritto che con il primo motivo il ricorrente ha denunciato violazione e / o falsa applicazione degli artt. 1218 e 2087 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, poiché il mobbing va inteso come fonte di responsabilità contrattuale, con conseguente obbligo per il datore di lavoro di provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psicofisica del dipendente, prova che nel caso di specie non era stata fornita, avendo l’impugnata sentenza omesso completamente di tener conto dell’obbligo, a carico di parte datoriale, di dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti necessari a scongiurare il verificarsi di pregiudizio per il dipendente. Nel caso di specie addirittura la Corte distrettuale aveva definito il dosimetro come mero strumento di misurazione, non necessario al T. , dimenticando però ogni riferimento alle radiazioni. In corso di causa esso T. aveva dimostrato le sue vicissitudini lavorative, iniziate nel lontano 1986, e l’inattività cui era stato costretto. Aveva, inoltre, allegato idonea certificazione medica attestante il nesso di causalità tra la sua condizione psico-fisica e la sua attività lavorativa in conseguenza delle mortificazioni indotte da parte datoriale, da cui era derivato un rilevante danno biologico. In tale ambito si era insistito per l’ammissione di c.t.u. medico-legale, assumendo il ricorrente di aver dimostrato gli elementi caratterizzanti di norma la condotta del mobbing, quale la durata, la reiterazione, la discrezionalità, la pretestuosità e le conseguenze dannose. Nessuna prova in senso contrario era stata, invece, offerta dalla convenuta società, la quale non aveva infatti provato, né chiesto di provare che il proprio reiterato comportamento non era costitutivo di molestia morale e che le proprie decisioni erano state giustificate da ragioni obiettive. Con il secondo motivo il ricorrente ha lamentato insufficiente e contraddittoria motivazione per erronea valutazione delle risultanze istruttorie, relativamente al fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. Nessuna rilevanza potevano avere in sede processuale le conclusioni cui era pervenuta la Direzione Provinciale del Lavoro, poiché l’istruttoria acquisita nel corso di questo procedimento non poteva superare le preclusioni e le decadenze di cui all’art. 416 c.p.c Il procedimento amministrativo, inoltre, non poteva avere alcuna influenza e/o interferenza nel procedimento civile. I giudici di primo e secondo grado avevano, sostanzialmente, sposato le tesi di parte resistente, senza addurre alcunché sulle risultanze testimoniali, ma anzi dando rilievo esclusivo ai fini di rigetto della domanda sulla proposizione in corso di causa di un ricorso cautelare, peraltro definito per cessazione del contendere, per essere stato il ricorrente assegnato a mansioni diverse che non contemplassero il movimento carichi, che neppure poteva essere affrontato da esso ricorrente. Dunque, è stata eccepita la inopponibilità e la ininfluenza della procedura incidentale peraltro definita a seguito di riconoscimento della parte datoriale della fondatezza delle lagnanze del dipendente , laddove inoltre il lavoratore aveva legittimamente chiesto la modifica delle mansioni in conseguenza del suo precario stato di salute, compromesso da un infarto, sicché egli non poteva movimentare pesi eccessivi, sebbene in occasione degli sporadici episodi in cui gli veniva richiesto. Del resto, secondo il ricorrente, l’ipotesi di mobbing giuridicamente tutelato contempla oltre all’impossibilità di soddisfazione professionale per il dipendente anche le continue vessazioni, cui lo stesso viene ripetutamente sottoposto. Era ovvio che ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro aveva l’obbligo di inquadrare il dipendente con mansioni consone al suo stato fisico e appariva troppo comodo addurre ora la contraddittorietà di tale comportamento del T. nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato ultraventennale. Tanto premesso, il ricorso si appalesa inammissibile, non già per la tardività erroneamente eccepita da parte controricorrente laddove in effetti le indicazioni contenute nell’atto di appello erano in effetti sufficienti per individuare il procuratore domiciliatario in Ancona dove notificare, quindi, la sentenza ai fine della decorrenza del termine breve ex art. 325 c.p.c. , ma per carenza di esaurienti allegazioni ex art. 366 c.p.c., comma 1, tra cui specifici e pertinenti motivi idonei a confutare il percorso argomentativo seguito dalla Corte di merito a sostegno della decisione di rigetto del gravame. Inoltre, con le anzidette censure peraltro come detto irrituali, parte ricorrente inammissibilmente in questa sede di legittimità pretende di sovvertire quanto accertato ed apprezzato, mediante sufficienti corrette e logiche motivazioni dalla Corte di merito, di modo che non ricorrono nemmeno i presupposti dell’art. 360, nn. 3 e 5, del codice di rito in ordine ai vizi denunciati. Infatti, secondo la Corte distrettuale, gli elementi sintomatici del mobbing, allegati dall’appellante, erano stati essenzialmente smentiti dalle risultanze istruttorie, di guisa che dovevano escludersi nella fattispecie gli estremi del demansionamento e la violazione da parte della datrice di lavoro del suo obbligo di tutela delle condizioni di lavoro del dipendente. In base alla deposizione, giudicata qualificata, disinteressata e circostanziata, resa dal teste M. , risultava smentita l’assegnazione del T. a mansioni di ordinaria pulizia, fermo restando che la pulizia, preventiva successiva a fine lavoro, dei macchinari era senz’altro pertinente alle mansioni inerenti alla qualifica, tanto più che detto compito veniva svolto anche da altri colleghi di pari qualifica dell’appellante. Parimenti, veniva osservato circa la pretesa mancata dotazione degli apparecchi dosimetrici delle radiazioni, che tra l’altro essendo meri strumenti di misurazione non ricadevano nel novero di dispositivi di protezione individuale, a tale scopo richiamandosi ancora la deposizione del teste M. . Richiamata, inoltre, tra le altre, pure la testimonianza P. , secondo la Corte marchigiana gli interventi eseguiti dal T. su apparecchiature radioattive erano saltuari ed essenzialmente marginali, il che spiegava la sostanziale superfluità della misurazione per consimili posizioni lavorative. In definitiva, la mancata dotazione di dosimetri per il T. e più in generale per lavoratori cosiddetti giornalieri era una misura organizzativa, non integrando una discriminazione consumata in danno del ricorrente. La valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, compresi gli atti dell’indagine amministrativa svolta dalla Direzione Provinciale del Lavoro di Ascoli Piceno, smentiva, ad avviso della Corte di merito, la prospettazione del demansionamento per svuotamento delle mansioni, essendo più credibili i precisi riferimenti forniti dai testimoni qualificati come M. e P. , tenuto altresì conto di quanto verificato in sede di audizione ispettiva, atteso il reciproco riscontro logico circa il normale svolgimento delle mansioni da parte del T. , per di più coerenti con le stesse iniziative a tutela intraprese dal lavoratore. Né andava trascurato che in sede di inchiesta sul luogo di lavoro - giusta il processo verbale del 12 aprile 2007, redatto all’esito dell’inchiesta amministrativa - erano stati acquisiti tabulati con l’elenco dei lavori affidati al T. registrati in ordine cronologico dal luglio 2004 in avanti dal suo caporeparto Pe.Se. , atteso che detta documentazione obiettivamente smentiva la prospettata inopia sul posto di lavoro. Pertanto, non poteva dubitarsi che il T. , dopo aver iniziato in cartiera con le mansioni di elettricista nel reparto di manutenzione elettrica, avesse svolto le mansioni di strumentista - nel reparto di manutenzione strumenti - fino al termine del 1993, per poi passare nel reparto di nuova costituzione di elettrostrumentistica, occupandosi come operaio cartotecnico specializzato sia di lavori di manutenzione e aggiustaggio delle parti elettriche ed elettroniche dei macchinari, sia della strumentazione con mansioni di elettrostrumentista. Di scarsa attendibilità risultava, per contro, a giudizio della Corte d’Appello, la deposizione del teste C. , andata ben oltre le stesse deduzioni delle circostanze enunciate nel ricorso introduttivo del giudizio. Del resto, la scarsa attendibilità del C. emergeva dalla incoerenza logica della asserita permanente inopia con l’iniziativa del T. , il quale nel 2006 si era rivolto al giudice del lavoro di Ancona per chiedere tutela in via di urgenza sul presupposto della incompatibilità delle mansioni strumentista con il suo stato di salute procedimento poi definito per cessazione della materia del contendere, avendo le parti accettato la valutazione di idoneità alle mansioni, sia pure con qualche prescrizione, espressa dalla Commissione sanitaria unica regionale all’esito della visita medica collegiale disposta ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 5 . L’enfasi del teste C. , poi, mal si conciliava con la stessa posizione processuale del T. , il quale non solo nel procedimento ex art. 700 c.p.c., ma anche in altri atti processuali, aveva segnalato situazioni di lavoro attive, ben differenti quindi dalla generale inopia raccontata dal C. . In definitiva, secondo la Corte d’Appello, la sentenza impugnata non meritava censura, posto che in ogni caso l’attore non aveva assolto l’onere probatorio del mobbing e del demansionamento, all’uopo richiamando i principi di diritto affermati da questa Corte con la sentenza n. 3788 del 17 febbraio 2009 circa la portata della responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., per cui incombe al lavoratore, il quale lamenti un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale nocumento, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno nell’altro elemento, mentre spetta al datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le anzidette circostanze - l’onere di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di avere adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo. Quanto, poi, al bossing o mobbing doveva escludersi una responsabilità per danni di inosservanza degli obblighi di sicurezza ex art. 2087 c.c., nel caso di specie, in assenza di atti obiettivamente vessatori nel corso del rapporto di lavoro. A tal proposito, inoltre, la Corte distrettuale rilevava come non fosse superfluo ricordare che non possono ricadere nella fattispecie di mobbing i normali conflitti in ambiente di lavoro, tali da restare confinati nella fisiologica prassi quotidiana della generalità dei luoghi di lavoro, fermo restando che la reciprocità degli attacchi e la reazione del dipendente colpito da un atto arbitrario o illegittimo del datore di lavoro caratterizza soltanto il conflitto lavorativo, inidoneo come tale a cagionare danno ingiusto alla salute. Pertanto, alla stregua di quanto accertato e valutato dalla Corte di merito, non è ravvisabile in punto di diritto alcuna violazione degli artt. 1218 e 2087 c.c Invero, quanto al primo motivo, va ricordato, in particolare, come la responsabilità contrattuale, ex art. 2087 c.c., non sia di natura oggettiva, sicché il mero fatto di lesioni riportate dal dipendente in occasione dello svolgimento dell’attività lavorativa non determina di per sé l’addebito delle conseguenze dannose al datore di lavoro, occorrendo la prova, tra l’altro, della nocività dell’ambiente di lavoro, nella specie mancata, così come d’altro canto nemmeno risulta dimostrato alcun particolare inadempimento rilevante ex art. 2103 c.c. cfr., tra le altre, Cass. lav. n. 2038 del 29/01/2013 l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. L’ambito dell’art. 2087 c.c., riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. In senso analogo v. altresì Cass. lav. n. 3786 del 17/02/2009. Allo stesso modo si è pronunciata, in motivazione, la sentenza di Cass. lav. n. 2251 in data 17/11/2011 - 16/02/2012 .La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 è di natura contrattuale, per cui, ai fini del relativo accertamento, sul lavoratore che lamenti di aver subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, incombe l’onere di provare l’esistenza del danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo giurisprudenza costante, v. da ultimo Cass. 17.02.09 n. 3788 . Inoltre, v. Cass. lav. n. 26684 del 10/11/2017 l’elemento qualificante va ricercato non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. A tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente, perché, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. Parimenti, la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore. Del tutto corretta, anche sotto il profilo sostanziale, in punto di diritto, appare dunque la decisione qui impugnata, siccome aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, condiviso da questo collegio, secondo cui per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti a la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio b l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente c il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore d la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio Cass. lav. n. 3785 del 17/02/2009. Conformi Cass. lav. n. 898 del 17/01/2014. In senso analogo, Cass. lav. n. 17698 del 06/08/2014. V. altresì Cass. lav. n. 18836 del 07/08/2013 costituisce mobbing la condotta datoriale, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. Più recentemente, nei sensi secondo i quali è elemento costitutivo del mobbing, unitamente agli altri occorrenti, anche quello soggettivo, connotato dall’intento persecutorio, cfr. ancora Cass. lav., sentenza n. 9380 del 02/11/2016 - 12/04/2017, nonché Sez. 6 - L, ordinanza n. 14485 depositata il 9/6/2017 . Analoghe considerazioni, in termini d’inammissibilità, possono valere per le doglianze mediante cui in effetti la ricorrente contesta pure il ragionamento decisorio, peraltro coerente e logico nella sua esposizione, in forza del quale i giudici di merito hanno ritenuto di dover rigettare la domanda dell’attrice, che però irritualmente in questa sede di legittimità tende in concreto a svilirne il fondamento pretesa tanto più nella specie inammissibile nella specie, laddove operano i limiti maggiormente rigorosi imposti dall’attuale e vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 cfr. tra l’altro Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 - che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio -, né in quello del precedente n. 4, disposizione che - per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, - dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Ed in senso analogo su quest’ultimo punto, circa il solo c.d. minimo costituzionale, rilevante ex art. 360, n. 5, v. altresì Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014 . Come è noto cfr., tra le altre, Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016 , in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità v. altresì Cass. sez. 6 - 5, n. 91 del 7/1/2014, secondo cui per l’effetto la Corte di Cassazione non può procedere ad un nuovo giudizio di merito, con autonoma valutazione delle risultanze degli atti, né porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. Conformi Cass., n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì Cass. I civ. n. 1754 del 26/01/2007, secondo cui il vizio di motivazione che giustifica la cassazione della sentenza sussiste solo qualora il tessuto argomentativo presenti lacune, incoerenze e incongruenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione impugnata, restando escluso che la parte possa far valere il contrasto della ricostruzione con quella operata dal giudice di merito e l’attribuzione agli elementi valutati di un valore e di un significato difformi rispetto alle aspettative e deduzioni delle parti. Conforme Cass. n. 3881 del 2006. V. ancora Cass. n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione. In senso analogo v. anche Cass. n. 6064 del 2008 e n. 5066 del 5/03/2007. Cfr. ancora Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016 in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 , e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità. Id. n. 11176 - 08/05/2017 nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove salvo che non abbiano natura di prova legale -, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016 la violazione dell’art. 115 c.p.c., può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. Cfr. altresì Cass. II civ. n. 2707 del 12/02/2004, secondo cui le norme - art. 2697 ss. - poste dal Libro VI, Titolo II del Codice civile regolano le materie a dell’onere della prova b dell’astratta idoneità di ciascuno dei mezzi in esse presi in considerazione all’assolvimento di tale onere in relazione a specifiche esigenze c della forma che ciascuno di essi deve assumere non anche la materia della valutazione dei risultati ottenuti mediante l’esperimento dei mezzi di prova, che è viceversa disciplinata dagli artt. 115 e 116 c.p.c., e la cui erroneità ridonda quale vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 . Pertanto, si appalesa l’inammissibilità delle varie doglianze al riguardo mosse da parte ricorrente, di modo che il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della soccombente al rimborso delle relative spese. Stante l’esito del tutto negativo dell’impugnazione, ricorrono, infine, i presupposti di legge per il pagamento dell’ulteriore contributo unificato non risulta in atti alcun provvedimento di ammissione al beneficio, per questo ricorso, del patrocinio a spese dello Stato, sul punto essendo irrilevante l’autocertificazione in ordine al requisito reddituale, che di per sé non esonera dall’obbligo di pagamento del suddetto contributo in relazione al giudizio di legittimità . P.Q.M. La Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore della sola parte controricorrente in Euro 4500,00 quattromilacinquecento/00 per compensi professionali ed in Euro 200,00 duecento/00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.