Per il calcolo del periodo di congedo di maternità si fa riferimento alla data presunta del parto

Per stabilire la data di inizio del periodo di congedo di maternità deve essere ravvisato quale unico criterio di riferimento la data presunta del parto e non quella effettiva, con la conseguenza che la data di inizio del congedo di maternità non può essere fatta decorrere da 2 mesi prima dalla data effettiva del parto.

Lo ha sottolineato la Corte di Cassazione con sentenza n. 5367/19, depositata il 22 febbraio. La vicenda. La Corte d’Appello confermava la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di una lavoratrice nei confronti dell’INPS al fine di ottenere l’indennità giornaliera di maternità negatale sul presupposto che l’inizio del periodo di congedo per maternità era cominciato oltre il 60esimo giorno dalla risoluzione del rapporto di lavoro ed ella, al momento di inizio del congedo obbligatorio, non era in godimento dell’indennità di disoccupazione, poiché ne aveva già usufruito per il periodo massimo. Avverso tale decisione ricorre per cassazione la lavoratrice tramite il suo difensore. L’indennità di maternità. In particolare, la ricorrente deduce che, ai fini del calcolo dei 60 giorni sopra detti, occorre far riferimento alla data effettiva del parto e non a quella presunta. Ma ciò per gli Ermellini risulta infondato dato che fa fede quanto disposto dall’art. 24, comma 2, d.lgs. n. 151/2001 secondo cui, le lavoratrici che si trovino all’inizio del periodo di congedo di maternità sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione o disoccupate hanno diritto all’indennità giornaliera di maternità purché tra l’inizio della sospensione o disoccupazione e quello di detto periodo non siano trascorsi più di 60 giorni. E per quanto riguarda il decorso dei suddetti 60 giorni, appare condivisibile l’osservazione della Corte territoriale che facendo riferimento al contenuto della norma sopra citata all’inizio del periodo di congedo” deve essere ravvisato quale unico criterio di riferimento la data presunta del parto e non quella effettiva, con la conseguenza che la data di inizio del congedo di maternità non può essere fatta decorrere da 2 mesi prima della data effettiva del parto. Sulla base di tali ragioni, il Supremo Collegio rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 21 novembre 2018 – 22 febbraio 2019, n. 5367 Presidente/ Relatore D’Antonio Fatti di causa 1.La Corte d’appello di Bologna ha confermato la sentenza del Tribunale di Reggio Emilia di rigetto della domanda proposta da O.L. nei confronti dell’Inps al fine di ottenere l’indennità giornaliera di maternità, L. n. 151 del 2001, ex art. 24, comma 4, negata dall’Istituto sul presupposto che l’inizio del periodo di congedo per maternità era cominciato oltre il sessantesimo giorno dalla risoluzione del rapporto di lavoro ed in quanto la ricorrente,al momento di inizio del congedo obbligatorio, non era in godimento dell’indennità di disoccupazione, avendone già usufruito per il periodo massimo. Secondo la Corte l’espressione della norma all’inizio del periodo di congedo imponeva di utilizzare quale unico criterio di riferimento la data presunta del parto e non quella effettiva. La Corte ha inoltre affermato che la ricorrente non si trovava neppure nelle condizioni astrattamente richieste dalla legge per godere dell’indennità di disoccupazione in quanto ne aveva già usufruito per la durata massima. Infine, ha ritenuto corretta la condanna a pagare le spese processuali in quanto il reddito familiare era superiore ai limiti di legge. 2. Avverso la sentenza ricorre la O. con un unico articola motivo. Resiste l’Inps.Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c Ragioni della decisione 3. Con l’unico motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 24, nonché vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5. Censura la sentenza nella parte in cui al Corte ha ritenuto che si debba utilizzare per stabilire la data di inizio del periodo di congedo la data presunta del parto, basata pertanto su un giudizio prognostico la piena tutela della lavoratrice gestante disoccupata si ha, invece, tenendo conto della data effettiva del parto. Osserva circa l’indennità di disoccupazione che la durata doveva essere considerata dal termine ultimo teorico di presentazione della domanda e cioè 68 giorni dalla cessazione del rapporto e non già dalla data effettiva della domanda. Lamenta, inoltre, circa la condanna alle spese che la Corte aveva determinato il reddito cumulando quello del coniuge e familiari conviventi. 4. Il ricorso è infondato. La Corte d’appello ha confermato, correttamente, il rigetto della domanda della ricorrente volta ad ottenere l’indennità giornaliera di maternità per il periodo 19/9/2008-19/11/2008,negatale dall’Inps in quanto la data presunta del parto si collocava oltre il sessantesimo giorno dalla risoluzione del rapporto e perché all’inizio del periodo di astensione obbligatoria la ricorrente non era in godimento dell’indennità di disoccupazione. 5. Il D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 24, comma 2, stabilisce, infatti, che Le lavoratici che si trovino all’inizio del periodo di congedo di maternità, sospese, assenti dal lavoro senza retribuzione ovvero disoccupate sono ammesse al godimento dell’indennità giornaliera di maternità purché tra l’inizio della sospensione, dell’assenza o della disoccupazione e quello di detto periodo non siano decorsi più di sessanta giorni . Le ipotesi in cui, in deroga a tale disposizione, la mancanza di retribuzione non assume rilievo hanno carattere limitato e sono indicate nell’art. 24, comma 3, secondo il quale, ai fini del computo dei predetti sessanta giorni, non si tiene conto delle assenze dovute a malattia o ad infortunio sul lavoro, accertate e riconosciute dagli enti gestori delle relative assicurazioni sociali, né del periodo di congedo parentale o di congedo per la malattia del figlio fruito per una precedente maternità, né del periodo di assenza fruito per accudire minori in affidamento, né del periodo di mancata prestazione lavorativa prevista dal contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale. L’art. 24, comma 4, citato stabilisce poi che Qualora il congedo di maternità abbia inizio trascorsi sessanta giorni dalla risoluzione del rapporto di lavoro e la lavoratrice si trovi, all’inizio del periodo di congedo stesso, disoccupata e in godimento dell’indennità di disoccupazione, ha diritto all’indennità giornaliera di maternità anziché all’indennità ordinaria di disoccupazione . 6. La ricorrente ripropone con il presente ricorso gli argomenti già correttamente ritenuti infondati dalla Corte d’appello. In particolare deduce nuovamente che occorre, ai fini del calcolo dei 60 giorni, fare riferimento alla data effettiva del parto e non a quella presunta. Sono condivisibile a riguardo le osservazioni della Corte territoriale che richiama l’espressione contenuta nella norma all’inizio del periodo di congedo in base alla quale deve essere ravvisato quale unico criterio di riferimento la data presunta del parto e non già quella effettiva, con la conseguenza che la data di inizio del congedo di maternità non può essere fatta decorrere da due mesi prima dalla data effettiva del parto. 7. Del pari è infondata la pretesa della ricorrente, con riferimento all’indennità di disoccupazione, secondo cui occorre considerare la durata massima in astratto dell’indennità di disoccupazione calcolata sommando l’intero periodo utile per proporre la domanda ed il periodo di durata massima della prestazione. Risulta, infatti, che una tale interpretazione non trova alcun fondamento normativo e che ciò che, invece, rileva ai fini dell’art. 24, comma 4, citato e che all’inizio del periodo di congedo di maternità la lavoratrice deve essere in godimento dell’indennità di disoccupazione, poiché l’indennità di maternità sostituisce l’indennità ordinaria di disoccupazione. 8. Infine è infondato anche il terzo motivo dovendosi considerare, ai fini dell’art. 152 disp. att. c.p.c., la somma dei redditi conseguiti dall’istante e se l’interessato convive con il coniuge o con altri familiari i redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente, ma in tal caso i limiti di reddito sono elevati. cfr per un’ampia motivazione sul punto Cass. n. 22345/2016 9. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato. Le spese processuali seguono la soccombenza. Avuto riguardo all’esito dei giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese processuali liquidate in Euro 2000,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.