Badge timbrato e via dall’ufficio: licenziato il dipendente pubblico

L’impiegato di una Regione deve dire addio al proprio posto di lavoro. Confermato in Cassazione il licenziamento deciso dall’amministrazione. Decisivo il richiamo agli elementi accertati dalle indagini penali.

Ufficialmente presenti in ufficio, come da timbratura del badge. In realtà lontani dal loro luogo di lavoro. Sotto accusa alcuni dipendenti di una Regione, e per uno di loro è ora arrivata l’ufficialità del definitivo licenziamento. Evidente, secondo i giudici, l’irreparabile rottura del vincolo fiduciario col datore di lavoro Cassazione, sentenza n. 448/19, sez. Lavoro, depositata il 10 gennaio . Badge. A dare il ‘la’ alla vicenda giudiziaria – con un fronte penale e uno civile – sono i controlli riguardanti le presenze, nel periodo giugno-luglio 2013, dei lavoratori negli uffici della Regione Calabria. Da un’accurata indagine emerge che diversi dipendenti hanno attestato falsamente di essere operativi sul luogo di lavoro, grazie alla mera timbratura del badge. A finire sulla graticola, ovviamente, i lavoratori beccati a raggirare il sistema di rilevamento delle presenze. Per uno di loro, in particolare, scatta addirittura il licenziamento. Il drastico provvedimento viene contestato dal dipendente, il quale sottolinea anche che per altri suoi colleghi sotto processo l’esito è stato meno duro. Secondo i Giudici, prima in Tribunale e poi in appello, è però evidente la rottura del vincolo fiduciario tra l’amministrazione e il lavoratore che avrebbe dovuto rispettare l’orario di lavoro e adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze in ufficio e non, invece, assentarsi dal luogo di lavoro senza l’autorizzazione del dirigente responsabile . A rendere ancora più chiaro il quadro, a parere dei giudici, è poi la constatazione che in appena un mese vi sono state cinque timbrature da parte di alcuni lavoratori in favore del collega licenziato e undici timbrature da parte di quest’ultimo in favore di altri dipendenti . Nessun dubbio, quindi, sulla disponibilità allo scambio di illeciti favori per eludere il sistema di rilevazione delle presenze . Sanzione. Inutile si rivela ora il ricorso in Cassazione proposto dal legale dell’oramai ex dipendente della Regione. Anche i Giudici del Palazzaccio, difatti, ritengono assolutamente legittimo il licenziamento deciso dall’amministrazione pubblica. Decisivo è l’utilizzo degli elementi emersi durante il procedimento penale. A questo proposito, viene osservato che correttamente la Regione ha dato una lettura autonoma ai dati forniti dalle indagini penali in riferimento ai doveri di lealtà e di fedeltà propri del lavoratore dipendente . E significativo, viene aggiunto, è il fatto che l’impiegato nel mirino si è limitato a negare genericamente la fondatezza delle accuse mossegli e ad addurre circostanze non sufficienti a spiegare le ragioni delle timbrature illecite . Respinto, infine, il richiamo difensivo alla disparità di trattamento nei confronti dei diversi lavoratori finiti sotto accusa. Su questo fronte i giudici osservano che la sola circostanza che ad altri lavoratori non sia stata irrogata la sanzione espulsiva non costituisce valida ragione per inficiare il giudizio di proporzionalità del licenziamento adottato nei confronti di un solo dipendente.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 novembre 2018 – 10 gennaio 2019, numero 448 Presidente Napoletano – Relatore De Felice Fatti di causa Le. Fi., dipendente della Regione Calabria, veniva licenziato per giusta causa, con l'addebito di avere falsamente attestato la presenza in servizio, propria e di altri dipendenti, mediante l'artificioso e ripetuto utilizzo del sistema di rilevazione automatico delle presenze, fra il 12 giugno e l'11 luglio 2013. Il Tribunale di Catanzaro, conformemente all'ordinanza emessa all'esito della fase sommaria, aveva rigettato l'impugnativa del licenziamento è altrettanto ha fatto la Corte d'appello della stessa sede, investita del reclamo, confermando la legittimità dell'atto di recesso sul presupposto della cessazione del legame fiduciario tra l'amministrazione e il dipendente, su cui incombe il dovere di rispettare l'orario di lavoro, di adempiere alle formalità previste per la rilevazione delle presenze e di non assentarsi dal luogo di lavoro senza l'autorizzazione del dirigente responsabile. La Corte territoriale, per quanto qui rileva a ha rigettato l'eccezione di nullità del procedimento disciplinare proposta dal reclamante per essere l'ufficio per i procedimenti disciplinari stato istituito con decreto dirigenziale del Dirigente del Dipartimento del personale, anziché con regolamento della Giunta regionale b ha ritenuto la validità della contestazione mossa da parte datoriale sulla base delle emergenze istruttorie delle indagini preliminari c ha disatteso il rilievo del ricorrente circa la disparità di trattamento rispetto ad altri dipendenti i quali, coinvolti nella medesima vicenda, erano stati sottoposti a sanzione conservativa d ha escluso che il licenziamento fosse stato irrogato per effetto di automatismo espulsivo in relazione alla previsione di cui all'articolo 55 bis D.Lgs. 165/01 la condotta del reclamante era stata valutata dalla P.A. alla stregua del principio di proporzionalità, avuto riguardo alla natura e qualità del rapporto di lavoro, al grado del vincolo fiduciario, all'entità della violazione commessa e all'intensità dell'elemento soggettivo. Il giudizio di merito ha accertato che in appena un mese vi erano state cinque timbrature da parte di altri dipendenti in favore dell'appellante e undici timbrature dell'appellante in favore di altri dipendenti e ha pertanto rilevante che sul piano oggettivo oltre che volitivo, era stata provata la disponibilità allo scambio d'illeciti favori per eludere il sistema di rilevazione delle presenze. La cassazione della sentenza è domandata da Le. Fi. sulla base di cinque motivi. La Regione Calabria resiste con controricorso. Ragioni della decisione Col primo motivo, formulato ai sensi dell'articolo 360, co.1, numero 4 cod. proc. civ., si contesta Nullità della sentenza per mancata integrale motivazione quanto al rigetto dei primi quattro motivi di appello, avendo la Corte territoriale richiamato, riproducendola, la motivazione di una sentenza dello stesso Collegio resa in un caso sovrapponibile, pubblicata due giorni dopo la pronuncia gravata. Col secondo motivo, formulato ai sensi dell'articolo 360, co.1, numero 3 cod. proc. civ., si deduce Violazione e falsa applicazione dell'articolo 132 cod. proc. civ. e dell'articolo 118 delle disp. att. cod. proc. civ. . I Giudici dell'appello avrebbero motivato per relationem rispetto a una sentenza depositata due giorni dopo la pronuncia che vi faceva rinvio. Col terzo motivo, formulato ai sensi dell'articolo 360, co.1, numero 5 cod. proc. civ., si lamenta Omesso esame del fatto decisivo della controversia consistente nell'assoluta mancanza di motivazione sul rigetto dei motivi d'appello, si come riferiti a una sentenza non ancora pubblicata. Il quarto motivo, formulato ai sensi dell'articolo 360, co.1, numero 3 cod. proc. civ., deduce Violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Art. 55 bis, quater e quinquies del D.Lgs. numero 165/2001 articolo 50, co.1, Statuto Regione Calabria numero 7/1996 articolo 7 L. Reg. Calabria numero 31/2002, articolo 1481, comma 1 cod. civ. e articolo 1324 cod. civ. La censura rileva che la sentenza impugnata, avrebbe violato le norme regionali in materia di costituzione dell'Ufficio per i procedimenti disciplinari e di titolarità della competenza circa l'istituzione dello stesso. Deduce che l'Ufficio per i procedimenti disciplinari costituisce una struttura autonoma, che deve essere specificamente individuata e non può ritenersi una mera articolazione dipartimentale del Dipartimento del personale, come invece ritenuto dalla Corte territoriale. Sostiene che le funzioni di gestione del personale non comprendono, neppure implicitamente, quella dell'attività disciplinare. In particolare, prospetta che lo Statuto regionale articolo 50 prevederebbe che l'ordinamento e le attribuzioni delle strutture regionali sono disciplinati da appositi regolamenti di organizzazione adottati dalla Giunta e che la l.r. numero 31 del 2002 confermerebbe la competenza della Giunta regionale circa l'ordinamento e le attribuzioni delle strutture regionali , mentre ai dirigenti è attribuita la sola competenza sull'organizzazione delle strutture di dipartimentali e sulla loro articolazione interna, per cui in mancanza di un atto regolamentare di Giunta unico organo competente individuare l'ufficio per i procedimenti disciplinari , sarebbe illegittima l'istituzione di tale ufficio ad opera di un decreto dirigenziale, con conseguente nullità dell'intero procedimento disciplinare. Con il quinto motivo denuncia Violazione e falsa applicazione dell'articolo 2697 cod. civ., degli artt. 55-ter, 55-quater e 55-quinquies D.Lgs. 165 del 2001, artt. 2, 3 e 111 Costituzione per avere la Corte territoriale disatteso l'eccezione formulata dall'odierno ricorrente secondo cui sarebbe mancato un idoneo accertamento istruttorio in sede disciplinare dei fatti contestati la P.A. si sarebbe limitata ad utilizzare elementi del procedimento penale non assunti nel dibattimento e nel contraddittorio tra le parti le risultanze investigative delle indagini preliminari non sarebbero state versate in atti, dove l'unico documento acquisito è stato l'avviso delle conclusioni delle indagini, atto insufficiente a fondare un accertamento dei fatti. Ritiene erronea l'affermazione secondo cui non si sarebbe mai discolpato in sede disciplinare dagli addebiti contestatigli e fa rilevare che, comunque, per un principio consolidato spetta al datore l'onere di provare la giusta causa o il giustificato motivo di licenziamento e non al lavoratore incolpato provare l'insussistenza dell'addebito. Fa inoltre rilevare come, in altri procedimenti disciplinari aventi ad oggetto le medesime contestazioni, la Regione Calabria, diversamente da quanto avvenuto nei confronti del ricorrente, aveva ritenuto di attendere l'esito delle verifiche in sede penale. Le censure mosse alla sentenza impugnata con i primi tre motivi, che vanno esaminati congiuntamente per connessione, sono destituite di fondamento. Il ricorrente ritiene che il rinvio per relationem alla motivazione della sentenza della Corte d'appello di Catanzaro numero 396 del 2017, depositata due giorni dopo quella gravata, inficerebbe quest'ultima di nullità per mancanza integrale di motivazione. La censura è priva di pregio, atteso che la Corte territoriale ha compiutamente motivato la sentenza oggetto del giudizio, trascrivendo le ragioni a supporto del convincimento del Collegio. Essa, infatti, ha premesso che l'infondatezza del reclamo trae il suo convincimento dalle ragioni che si mutuano ex articolo 118 disp. att. c.p.c. alla sentenza resa da questa Corte nel caso analogo Barone Emilio c. Regione Calabria iscritto al numero 1920/2016 RGAC e che di seguito vengono riportate. Il virgolettato che segue manifesta, pertanto, che la motivazione è stata compiutamente resa dal Giudice dell'appello attraverso l'integrale richiamo all'orientamento già espresso dalla Collegio d'Appello di Catanzaro in un caso sovrapponibile, senza che alcuna rilevanza possa essere attribuita alla data della pubblicazione della sentenza richiamata. In altri termini - e ferma restando la generale ammissibilità di una motivazione per relationem - dalla lettura della pronuncia gravata risultano perfettamente comprensibili le ragioni in fatto e in diritto a supporto del convincimento del Giudice del merito nonché l’iter logico argomentativo da questi seguito. Venendo all'esame del quarto motivo di gravame, esso è infondato. La Corte territoriale ha rigettato il primo motivo di reclamo con cui l'odierno ricorrente aveva censurato la decisione del Tribunale secondo cui la costituzione, presso il Dipartimento regionale del personale, dell'Ufficio dei procedimenti disciplinari che aveva curato l'istruttoria e irrogato la sanzione, era del tutto conforme alle disposizioni che regolano la materia. Ha affermato che ogni Pubblica Amministrazione può creare un apposito ufficio o può avvalersi di strutture già esistenti, secondo il proprio ordinamento, così come previsto dall'articolo 55-bis del Testo Unico numero 165/01 e che, dunque, è da reputarsi legittima l'istituzione dell'UPD a mezzo di decreto dirigenziale da parte del Dirigente del Dipartimento organizzazione e personale , nell'esercizio della competenza riconosciutagli dalla legge numero 7 del 1996 articolo 4, co. 2 numero 4 , in materia di attività relative alla gestione del personale e dunque anche in ordine all'esercizio della potestà disciplinare, naturale espressione del potere direttivo. La Corte territoriale ha poi osservato che l'articolo 50 dello Statuto regionale della Calabria l.r. numero 25 del 2004 , affida ad atti regolamentari della Giunta la disciplina dell'ordinamento e delle attribuzioni con riferimento alle sole strutture regionali e non già ad ogni loro articolazione ed unità organizzativa interna la disposizione statutaria rimanda a tal proposito ad una legge regionale che fissa i criteri per la determinazione dell'ordinamento delle strutture regionali . Ha quindi richiamato la legge numero 31 del 2002 che, all'articolo 7 nella formulazione vigente dopo la modifica apportata dalla I. r. numero 3 del 2012 individua come strutture regionali i dipartimenti e i settori, affidando ai dirigenti le determinazioni per l'organizzazione delle strutture dipartimentali e dunque la loro articolazione interna, rimettendo alla facoltà della Giunta l'istituzione di quelle sole unità organizzative autonome che debbano perseguire particolari obiettivi o curare specifici adempimenti. Dunque, deve ritenersi che l'Ufficio competente per i procedimenti disciplinari, secondo i criteri ai quali è improntato l'ordinamento della Regione, ricada nel novero delle articolazioni amministrative la cui istituzione e disciplina è di competenza dirigenziale. Tale ricostruzione normativa è stata resa oggetto di critiche incentrate sui seguenti assunti a la funzione disciplinare non può rientrare nel novero della gestione del personale b essa, costituendo una funzione diversa, richiede l'istituzione di un ufficio ad hoc ad opera della Giunta regionale, come articolazione organizzativa a sé stante c dunque, non poteva l'UPD essere individuato all'interno del Dipartimento compente per la gestione del personale, come articolazione interna allo stesso. Rileva il Collegio che, nel respingere tali censure, i giudici di appello hanno dato una soluzione coerente con la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui l'articolo 55-bis, comma 4, del D.Lgs. numero 165 del 2001, non postula l'istituzione ex novo dell'ufficio competente, né una sua individuazione espressa, essendo sufficiente, ai fini della legittimità della sanzione, che all'organo che l'ha irrogata sia stato attribuito in modo chiaro il relativo potere, di modo che sia stata assicurata quella posizione di terzietà che il legislatore, attraverso la previsione di un apposito ufficio, ha voluto assicurare Cass. numero 22487 del 2016 . Anche al fine di dare una interpretazione dell'articolo 55-bis, comma 4 non ispirata ad un eccessivo formalismo ma coerente con ratio della norma, rivolta all'esigenza di tutela del diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti come quella di cui si controverte e tenendo in considerazione i principi di cui agli artt. 54, 97 e 98 Cost. -, è stato altresì sottolineato che la norma che rimette agli ordinamenti delle singole amministrazioni la scelta dell'UPD fa espresso riferimento alla individuazione dello specifico ufficio competente, ma non alla sua obbligatoria istituzione per mezzo di un apposito provvedimento. Il quinto motivo di ricorso è infondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di sanzioni disciplinari a carico dei lavoratori subordinati, la contestazione dell'addebito ha lo scopo di consentire al lavoratore incolpato l'immediata difesa e deve, conseguentemente, rivestire il carattere della specificità, pur senza l'osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, purché si rendano chiari al lavoratore, il fatto o i fatti addebitati nella loro materialità. Ne consegue la piena ammissibilità della contestazione per relationem, mediante il richiamo agli atti del procedimento penale instaurato a carico del lavoratore, per fatti e comportamenti rilevanti anche ai fini disciplinari, ove le accuse formulate in sede penale siano a conoscenza dell'interessato, risultando rispettati, anche in tale ipotesi, i principi di correttezza e garanzia del contraddittorio Cass. numero 10662 del 2014, numero 29240 del 2017 . Sul fronte probatorio, va poi osservato che, una volta venuta meno la cd. pregiudiziale penale, e regolato per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei procedimenti giusta l'articolo 55-ter del D.Lgs. numero 165 del 2001, l'amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza necessità di un'ulteriore ed autonoma istruttoria, e di avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti Cass. numero 5284 del 2017 e numero 8410 del 2018 v. pure Cass. numero 19183 del 2016 . In conclusione sul punto, non esiste, dunque, alcuna disposizione che imponga alla Pubblica Amministrazione di procedere a un'autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare. La Pubblica Amministrazione è, infatti, libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi per la contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente e ben può avvalersi dei medesimi atti, in sede d'impugnativa giudiziale, per dimostrare la fondatezza degli addebiti. Sono validamente utilizzabili dal giudice civile, ai fini del proprio convincimento, gli elementi acquisiti in sede penale e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento, potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale Cass. numero 2168 del 2013 v. pure Cass. numero 5317 del 2017, numero 8603 del 2017 . La Corte territoriale, nel caso in esame, ha stabilito che, pur essendo gli stessi emersi dalle indagini penali, l'amministrazione ne aveva dato una lettura autonoma con specifico riferimento ai doveri di lealtà e fedeltà propri del lavoro dipendente. Tale interpretazione è coerente con la giurisprudenza di legittimità, secondo cui le risultanze delle indagini preliminari svolte in sede penale possono, anche da sole, essere poste a fondamento dell'iniziativa disciplinare e ben possono essere sufficienti a fondare il convincimento del giudice, specie se non contrastate altrimenti. A tali considerazioni, già assorbenti di ogni rilievo mosso dall'odierno ricorrente, la sentenza ha altresì aggiunto che un elemento interpretativo rafforzativo era dato non già dalla non contestazione , ma dalla mancanza di repliche difensive a fronte della analitica contestazione disciplinare. La Corte territoriale ha osservato che l'odierno ricorrente si era limitato a negare genericamente la fondatezza dell'accusa nell'impugnare il licenziamento, aveva reiterato la generica contestazione dei fatti addebitatigli senza replicare in maniera puntuale alle accuse per confutarle e offrire ad esse una verificabile spiegazione alternativa, né aveva formulato richieste istruttorie utili in tal senso, limitandosi ad addurre circostanze insufficienti a spiegare le ragioni delle timbrature illecite. Dunque, la Corte di appello, lungi dall'aver introdotto un'inversione dell'onere probatorio, e avendo rilevante che già gli elementi acquisiti in sede penale ben potevano comprovare i fatti contestati, ha evidenziato che la condotta extraprocessuale e processuale tenuta dal reclamante, elemento concorrente, a livello indiziario, integrativo delle risultanze delle indagini penali, equivaleva a un'ammissione dei fatti contestati tale da esonerare la controparte dall'onere di provare specificamente gli addebiti. Quanto alla presunta disparità di trattamento con altri lavoratori indagati per gli stessi fatti, il quinto motivo di ricorso si risolve in una generica doglianza, che non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata e quindi difetta di specificità in violazione dell'articolo 366 numero 4 cod. proc. civ. Infatti, la sentenza impugnata ha evidenziato come la sola circostanza che ad altri lavoratori non fosse stata irrogata la sanzione espulsiva non costituisce una valida ragione per inficiare il giudizio di proporzionalità della sanzione applicata al reclamante salva la dimostrazione di un intento discriminatorio, questione in alcun modo prospettata in giudizio , stante l'autonomia di ciascuna fattispecie in relazione alla posizione soggettiva del dipendente e anche all'impossibilità, sul piano obiettivo, di giustificare una determinata inadempienza attraverso le inadempienze altrui. Ha altresì osservato, con argomento logicamente e giuridicamente corretto, che l'eventuale sottovalutazione dell'Amministrazione riguardo agli illeciti commessi dai colleghi del reclamante non può comunque riflettersi a vantaggio di quest'ultimo. Né la circostanza che nei confronti di alcuni dipendenti l'Amministrazione avesse deciso di sospendere il procedimento disciplinare per attendere l'esito di quello penale possa determinare una disparità sanzionatoria, non essendo preventivabile la sanzione che agli stessi sarebbe stata eventualmente inflitta. Ha da ultimo accertato la non perfetta sovrapponibilità della posizione disciplinare del reclamante con quella di altri dipendenti perseguiti per fatti similari, atteso che per i secondi, l'applicazione della sanzione conservativa in luogo di quella espulsiva era stata determinata dalle giustificazioni degli stessi lavoratori, le quali avevano condotto alla derubricazione degli addebiti. Tali argomenti non sono stati - in alcun modo - né considerati né confutati dall'odierno ricorrente. In definitiva, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato introdotto dall'articolo 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, numero 228 legge di stabilità 2013 . P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali nella misura del 15 per cento e agli accessori di legge. Ai sensi dell'articolo 13 comma 1-quater del D.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.