Il danno da demansionamento non è automatico, ma va allegato e provato

In tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo.

Principio affermato dalla Corte di Cassazione, sezione lavoro con la sentenza n. 25071/18, pubblicata il 10 ottobre. La vicenda domanda di risarcimento dei danni derivanti dall’illegittima dequalificazione subita da un lavoratore. Un dipendente di Poste Italiane agiva in giudizio al fine di ottenere l’accertamento della dequalificazione subita ed il conseguente risarcimento dei danni. Il Tribunale accoglieva la domanda, limitando il riconoscimento economico alle sole differenze retributive conseguenti, negando il risarcimento dei danni professionale e biologico, in quanto sforniti di prova. Proposto appello da parte della lavoratrice, la Corte territoriale lo rigettava, ribadendo la carenza di allegazione specifica e di prova delle voci di danno rivendicate. Ricorreva in Cassazione la lavoratrice. Il danno da demansionamento. Il Supremo Collegio si sofferma sul riconoscimento del diritto del lavoratore a vedersi risarcito il danno professionale e biologico in presenza di accertato illegittimo demansionamento. Afferma infatti la Corte che in materia di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Occorre infatti distinguere tra violazione degli obblighi contrattuali e produzione del danno da inadempimento. Quest’ultimo non necessariamente scaturisce sempre da un inadempimento, essendo infatti necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene affinchè si possa configurare un danno e procedere di conseguenza alla sua liquidazione. Indispensabile l’allegazione e la prova del danno lamentato. La Corte di legittimità già ebbe a pronunciarsi con la sentenza a Sezioni Unite n. 6572/06, in tema di demansionamento e di dequalificazione, affermando che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non può prescindere da una specifica allegazione nel ricorso introduttivo del giudizio e dalla prova dell'esistenza del danno stesso e del nesso di causalità, che per il danno esistenziale può risultare anche in via presuntiva. Il principio è stato nuovamente ribadito con la pronuncia del 19 dicembre 2008 n. 29832, ove si afferma che in tema di demansionamento e di dequalificazione, affinchè venga riconosciuto il diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale che ne deriverebbe, non si può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Per ciò che concerne il risarcimento del danno biologico è subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertabile, mentre il danno esistenziale da intendere come ogni pregiudizio, di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall'ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno. Nel caso ora portato al vaglio della Suprema Corte, i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione dei principi di diritto in materia richiamati dalla Cassazione osservando nella motivazione della sentenza impugnata che le pretese della lavoratrice erano rimaste prive di prova, non potendo reputarsi sufficiente ai fini del riconoscimento delle voci di danno rivendicate, la sola accertata dequalificazione. Di conseguenza il ricorso proposto è stato ritenuto infondato e così rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 luglio – 10 ottobre 2018, n. 25071 Presidente Napoletano – Relatore Leo Fatti di causa La Corte territoriale di Napoli, con sentenza depositata il 18.5.2012, respingeva l’appello interposto da I.L. , nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva accolto il ricorso, per quanto di ragione , con il quale la I. , dipendente della predetta società, assunta con mansioni riconducibili alla IV qualifica funzionale, chiedeva che fosse ordinato alla datrice di lavoro di inquadrarla nell’Area Operativa del CCNL 1994/1997, con decorrenza dal 13.12.1995 e nel corrispondente livello C del nuovo CCNL dall’1.1.2004, con conseguente condanna della società al pagamento delle differenze retributive a far data dal 13.12.1995, nonché al risarcimento del danno professionale e di quello biologico subiti in conseguenza del dedotto demansionamento. Per la cassazione della sentenza ricorre la I. articolando tre motivi cui resiste Poste Italiane S.p.A. con controricorso. Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1226 e 2697 c.c. ed in particolare, si lamenta che i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto che i dedotti danni, professionale e biologico, fossero sforniti di prova e che non avrebbero considerato che, sino al 2002, epoca in cui la società datrice aveva consentito alla dipendente di svolgere, di fatto e con precisi ordini di servizio ben scadenzati, mansioni rientranti nell’Area Operativa, la I. era stata costretta a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui era stata assunta dalla qual cosa sarebbe derivato il danno professionale derivante dall’impoverimento della capacità professionale ovvero dalla perdita di chances, a causa dell’ingiusta permanenza per più di sette anni nell’Area di base. Tale evidente danno, a parere della ricorrente, avrebbe dovuto essere risarcito ai sensi dell’art. 1226 c.c 2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., per contraddittorietà della motivazione sulla domanda di risarcimento del danno professionale e del danno biologico conseguenti al declassamento” e si assume che il demansionamento si sia protratto per oltre sette anni, essendo solo di fatto cessato nel 2002, ed altresì che, in quanto consistente nell’assegnazione della lavoratrice a mansioni rientranti nell’Area di base prevista dall’art. 42 del CCNL 1994/1997 cui si accedeva con diploma di licenza media inferiore e che comprendeva attività semplici richiedenti conoscenze elementari , avrebbe inevitabilmente inciso negativamente sulla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa acquisita nella qualifica funzionale di appartenenza corrispondente all’Area Operativa cui si accede con titolo di studio di livello superiore . 3. Con il terzo mezzo di impugnazione si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103, 2043, 2056, 1226, 2087, 2697 c.c. e 1 e 2 della Costituzione ed ancora si lamenta che i giudici di prima e di seconda istanza non abbiano accolto la domanda di risarcimento del danno professionale e di quello biologico perché non sarebbe stata allegata alcuna circostanza, se non un mero declassamento, idonea a dimostrare il pregiudizio patito, specificandone la natura e la tipologia. E ciò, a parere della ricorrente, non può che configurare la violazione delle norme innanzi citate, poste a tutela del lavoratore, in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto desumere dal demansionamento l’esistenza del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e ad altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad un’autonoma valutazione equitativa del danno. 4. I motivi, da trattare congiuntamente, stante l’evidente connessione, non sono fondati. Invero, i giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione impugnata in questa sede, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011 . Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c. è necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione eventualmente anche in via equitativa del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito v. sent. n. 372/1994 che neppure il danno biologico è presunto, perché se la prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale non patrimoniale alla quale il risarcimento deve essere commisurato. Nello stesso senso questa Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016 691/2012 . Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014 11527/2013 14158/2011 29832/2008 . Facendo corretta applicazione dei principi enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente disatteso le pretese della lavoratrice, perché sfornite di prova, ritenendo correttamente non sufficiente al fine della liquidazione del danno biologico e di quello professionale, la sola dequalificazione dedotta dalla I. . 5. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato. 6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.