Il lavoratore non può arbitrariamente rifiutare le mansioni assegnate ritenendole incompatibili con il proprio stato di salute

Il lavoratore adibito a mansioni ritenute incompatibili con il proprio stato di salute può chiedere al datore di lavoro di essere destinato a compiti più adeguati ma non può, senza avvallo giudiziario, rifiutarsi di eseguire la prestazione.

Con l’ordinanza n. 22677/18, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto da una lavoratrice avverso la sentenza con cui la Corte d’Appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia di prime cure, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento intimatole per essersi ripetutamente rifiutata di eseguire le prestazioni lavorative a lei affidate. Il fatto. Dopo aver ricostruito la vicenda, la Corte territoriale riteneva ingiustificato il rifiuto della lavoratrice, operatrice di call center con orario settimanale di 20 ore, che era stata giudicata inidonea allo svolgimento delle mansioni di addetta al videoterminale per una patologia oftalmica. Le mansioni assegnatele prevedevano però un uso discontinuo del videoterminale che non era dunque incompatibile con la sua condizione di salute. Sottolineava infatti la Corte che il rifiuto della donna non era motivato tanto dalla violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di sorveglianza sanitaria, quanto dal ritenuto carattere dequalificante delle prestazioni assegnate. Rifiuto. La Cassazione, pronunciandosi sul ricorso presentato dalla soccombente, ha affermato che il lavoratore adibito a mansioni ritenute incompatibili con il proprio stato di salute può chiedere al datore di lavoro di essere destinato a compiti più adeguati ma non può, senza avvallo giudiziario, rifiutarsi di eseguire la prestazione potendo invocare l’art. 1460 c.c. solo se l’inadempimento del datore di lavoro sia totale ovvero sia talmente grave da pregiudicare irrimediabilmente le esigenze vitali del lavoratore . Correttamente dunque il giudice dell’appello ha ritenuto ingiustificato il rifiuto della lavoratrice evidenziando che le mansioni assegnatele prevedevano essenzialmente l’uso del telefono.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 13 aprile – 25 settembre 2018, n. 22677 Presidente Balestrieri – Relatore Garri Fatto e diritto Rilevato che 1. La Corte di appello di Catanzaro, in accoglimento del reclamo proposto dalla Telecontact Center s.p.a. ed in riforma della sentenza del Tribunale di Catanzaro, ha accertato la legittimità del licenziamento intimato a P.A. in data 21 febbraio 2013 in relazione alla contestata insubordinazione per essersi la lavoratrice rifiutata di eseguire le prestazioni lavorative a lei affidate nei giorni dal 28 al 31 gennaio 2013, mansioni già rifiutate precedentemente con irrogazione di sei sanzioni conservative nel periodo dal 15 ottobre al 5 dicembre 2012 dapprima una multa e poi sospensioni dal servizio e dalla retribuzione . 2. La Corte territoriale nel ritenere ingiustificato il rifiuto ha sottolineato che la lavoratrice, con orario settimanale di venti ore, era stata giudicata inidonea allo svolgimento delle mansioni di addetta al videoterminale che, ai sensi dell’articolo 173 del d.lgs. n. 81 del 2008, presuppongono un impiego al videoterminale per più di venti ore settimanali. Ha chiarito quindi che era emerso che nello svolgimento delle mansioni assegnatele l’uso del video terminale era limitato alla fase di acquisizione dei nominativi dei clienti, che poi dovevano essere contattati telefonicamente, ed a quella di chiusura di archiviazione delle schede corrispondenti. Ha evidenziato che l’uso discontinuo e intermittente del videoterminale non era incompatibile con la patologia oftalmica dalla quale la lavoratrice era affetta. Quanto alla denunciata assegnazione a mansioni inferiori, la Corte di merito l’ha esclusa ponendo in rilievo che all’addetto al cali center, profilo di inquadramento della lavoratrice, erano assegnati compiti di supporto commerciale e informazione generale della clientela da svolgere mediante canali telefonici e in base a procedure standardizzate involgenti anche compiti di back office, vale a dire attività di completamento del ciclo organizzativo del servizio reso dal cali center. Ha quindi accertato che la lavoratrice assegnata, a due particolari procedure Gefron e KO cliente , doveva contattare i clienti per fini commerciali avvalendosi di canali telefonici per acquisire informazioni ed inviare documenti secondo procedure e metodologie predeterminate curando alla fine l’archiviazione delle schede una volta chiusa la pratica dal cali center. Ha sottolineato, poi, che il rifiuto da parte della lavoratrice di eseguire la prestazione non era stato motivato dalla violazione degli obblighi gravanti sul datore di lavoro di sorveglianza sanitaria ma piuttosto dal ritenuto carattere dequalificante delle prestazioni assegnate e dalla indisponibilità a qualsiasi impiego al video terminale. Ha quindi concluso che non si giustificava il rifiuto dell’adempimento, che la condotta tenuta dalla lavoratrice andava qualificata come insubordinazione e che, anche in considerazione della sua reiterazione in un ristretto ambito temporale e dopo la vana adozione di sanzioni conservative, si giustificava per l’effetto l’irrogazione del licenziamento. 3. Per la cassazione della sentenza propone tempestivo ricorso P.A. fondato su un unico motivo al quale oppone difese la Telecontact Center s.p.a. con controricorso. Il Procuratore Generale ha concluso per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’articolo 380 bis.1 cod. proc. civ. per insistere nelle rispettive conclusioni. Considerato che 4. Con l’unico motivo di ricorso è denunciata la violazione o falsa applicazione dell’articolo 18 comma 1 lett. c e d del d.lgs. n. 81 del 2008 e dell’articolo 2087 cod. civ. in relazione all’articolo 1460 cod. civ 4.1. Sostiene la ricorrente che la Corte di merito, davanti alla quale era stata dedotta la violazione delle citate disposizioni ai fini della valutazione dell’inadempimento contestato alla lavoratrice, ne avrebbe erroneamente ritenuto l’irrilevanza sull’errato presupposto che il rifiuto della prestazione non aveva tratto origine da violazioni degli obblighi di sorveglianza sanitaria. Sostiene al contrario la ricorrente che sin dal ricorso introduttivo del giudizio era stato rappresentato che la datrice di lavoro si era resa inadempiente a tali obblighi ed in particolare, all’atto della modifica delle mansioni, non era stato disposto l’invio alle visite mediche di controllo per verificare l’idoneità della lavoratrice al loro svolgimento. Evidenzia che, con provvedimento della Commissione ASP di Catanzaro del 23.7.2009, era stata accertata l’inidoneità alle mansioni di videoterminalista e perciò la Telecontact aveva l’obbligo di assegnarla a mansioni compatibili con la sua infermità. Sottolinea che tali disposizioni non sono derogabili da parte del datore di lavoro e,dunque, non rileva la circostanza che la lavoratrice, prima del recesso, non avesse contestato sotto tale profilo l’inadempimento datoriale. Osserva infatti che resta comunque nella facoltà del lavoratore di astenersi dallo svolgere mansioni pregiudizievoli per la sua salute o comunque con le stesse dichiaratamente incompatibili. 5. Il ricorso è infondato. 5.1. Occorre premettere che il lavoratore adibito a mansioni che ritenga incompatibili con il proprio stato di salute può chiedere la destinazione a compiti più adeguati ma non, senza avallo giudiziario, rifiutare l’esecuzione della prestazione, potendo invocare l’articolo 1460 cod.civ. solo se l’inadempimento del datore di lavoro sia totale ovvero sia talmente grave da pregiudicare irrimediabilmente le esigenze vitali del lavoratore cfr. Cass. 19/01/2016 n. 831 e 20/07/2012 n. 12696 5.2. Va rilevato allora che la Corte territoriale ha in concreto accertato che le mansioni assegnate alla lavoratrice venivano svolte essenzialmente al telefono, utilizzando informazioni e documenti che provenivano via fax, e che, solo per l’acquisizione dei nominativi dei clienti da contattare e per la chiusura delle singole pratiche era necessario utilizzare il video terminale. Ha poi precisato che l’inidoneità era stata accertata con specifico riferimento alle mansioni di videoterminalista, per il quale è previsto un impegno a video per più di venti ore settimanali. Ha evidenziato poi che, in disparte la circostanza già decisiva che l’orario settimanale della ricorrente era di venti ore, comunque il suo impegno al terminale era limitato, come si è detto alla mera acquisizione dei nominativi ed all’archiviazione finale della pratica. Un utilizzo discontinuo ed intermittente non incompatibile con la patologia oftalmica dalla quale la P. era affetta il cui rifiuto di rendere la prestazione andava qualificato come una insubordinazione che giustificava la risoluzione del rapporto. 5.3. Va altresì evidenziato che la Corte ha accertato che il rifiuto della prestazione risultava piuttosto ancorato ad un preteso demansionamento che come è stato più volte affermato da questa Corte può autorizzare un legittimo diniego solo in quanto incida in maniera irrimediabile sulle esigenze vitali del lavoratore medesimo cfr. Cass. n. 12696 del 2012 cit. . La Corte di merito ha accertato infatti che non era stata la violazione del d.lgs. n. 81 del 2008 a determinare la lavoratrice a rifiutare la prestazione ma piuttosto si era trattato di una reazione al preteso demansionamento. Dopo l’accertamento da parte della commissione sanitaria la P. non era più stata addetta a mansioni di videoterminalista ma destinata al back office dove l’uso non era sistematico e abituale sicché non si era resa più necessaria la sottoposizione a sorveglianza sanitaria prevista per il caso in cui le mansioni prevedessero l’adibizione a video terminale per più di venti ore settimanali ed almeno quattro giornaliere. 5.4. Si tratta di una corretta ricostruzione del quadro normativo applicabile alla fattispecie e di una esatta sussunzione dei fatti accertati nella fattispecie astratta che non si espone alle critiche che le vengono mosse. 6. In conclusione il ricorso, per le ragioni esposte, deve essere rigettato. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo Ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13 comma 1 bis del citato d.P.R P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge. Ai sensi dell’articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’articolo 13 comma 1 bis del citato d.P.R