Il danno non patrimoniale subito dal lavoratore a causa del demansionamento deve essere dimostrato

In tema di demansionamento e dequalificazione, il lavoratore non ha automaticamente il diritto al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale dovendo egli allegarne specificatamente i presupposti nel ricorso introduttivo del giudizio.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17978/18, depositata il 9 luglio. La vicenda. Una lavoratrice chiedeva al Tribunale di Genova la condanna del datore di lavoro per il danno patrimoniale, da perdita di chance, biologico, esistenziale e morale conseguente alle condotte vessatorie subite in violazione degli artt. 2087 Tutela delle condizioni di lavoro e 2103 c.c. Mansioni del lavoratore . Il Giudice di prime cure rigettava la domanda, ma la Corte d’Appello accoglieva l’impugnazione ritenendo dimostrato il demansionamento subito dalla donna e condannato la parte datoriale al risarcimento del danno patrimoniale. Non veniva accolta però la domanda di risarcimento degli ulteriori danni di natura non patrimoniale in relazione al profilo biologico, esistenziale e morale non potendo essi ritenersi in re ipsa e dunque essendo sottratti alla liquidazione in via equitativa. La lavoratrice ricorre dunque dinanzi alla Corte di legittimità. Danno non patrimoniale. In tema di demansionamento e dequalificazione, il lavoratore non ha automaticamente il diritto al risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale dovendo egli allegarne specificatamente i presupposti nel ricorso introduttivo del giudizio. In altre parole, il lavoratore deve dedurre l’esistenza di un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno . Non è dunque sufficiente in tal senso la dimostrazione della mera potenzialità lesiva della condotta della controparte, dovendo comunque il lavoratore fornire la prova del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale. Ritenendo infondate le ulteriori censure della ricorrente, così come le doglianza sollevate dalla parte datoriale con controricorso e attinenti alla liquidazione del danno, i Giudici di legittimità dichiarano infondati entrambi i ricorsi.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 marzo – 9 luglio 2018, numero 17978 Presidente Napoletano – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. Il Tribunale di Genova rigettava le domande proposte da I.E. , volte alla condanna dell’Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Liguria - a risarcirle il danno patrimoniale, da perdita di chance, biologico, esistenziale e morale. Ciò, come prospettato dalla lavoratrice, in ragione della condotta vessatoria posta in essere, in violazione degli articoli 2087 e 2103 del codice civile, dal datore di lavoro. Tale condotta era iniziata nel giugno 2000, quando la lavoratrice era stata demansionata mediante assegnazione al cosiddetto team legale, in posizione subordinata rispetto a un funzionario di qualifica inferiore, e con compiti di livello quantitativo inferiore rispetto a quelli precedenti. Tale condotta era proseguita per averle l’Amministrazione negato per quasi due anni la fornitura di un computer, per averla collocata in una stanza di anguste dimensioni, condiviso con altro collega. 2. La Corte d’Appello di Genova in riforma della sentenza del Tribunale accoglieva l’impugnazione affermando che risultava provato che a partire dal giugno 2000 l’appellante aveva subito un demansionamento vietato dall’articolo 2103 del codice civile. Risultava quindi provata la menomazione della capacità professionale della lavoratrice e trattandosi di danno patrimoniale per quanto detto certo nell’an, esso poteva essere liquidato avendo riferimento ai parametri che le stesse parti collettive hanno stabilito per la remunerazione delle maggiori responsabilità connesse al coordinamento e al controllo riservati ai funzionari preposti ai vari team in cui è strutturata l’agenzia. Tale danno, quindi, andava a ristorare anche la perdita dell’indennità di particolare posizione di cui la lavoratrice aveva goduto sino al 30 giugno 2000, in qualità di Capo reparto. Quindi l’Agenzia delle entrate veniva condannata a risarcire il danno patrimoniale per l’accertata violazione dell’art. 2103 cod. civ., nella misura di Euro 4,31 per tutti i giorni di effettiva presenza al lavoro cadenti nel periodo 1 giugno 2000- 31 dicembre 2000 e di Euro 6,20, per tutti i giorni di effettiva presenza al lavoro cadenti nel successivo periodo sino al 31 dicembre 2007. Gli importi andavano maggiorati degli interessi legali dalla maturazione al saldo. La Corte d’Appello affermava che non potevano essere liquidati ulteriori danni di natura non patrimoniale nei vari profili dedotti biologico, esistenziale e morale. Si trattava di danni che non possono ritenersi in re ipsa, per cui non potevano essere liquidati in via equitativa, occorrendo specifica allegazione e prova, che nella specie era mancata. 3. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre sia la lavoratrice prospettando tre motivi impugnazione, sia l’Agenzia delle entrate che propone ricorso incidentale articolato in quattro motivi. 4. La lavoratrice ha depositato memoria in prossimità dell’udienza. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso la lavoratrice censura la sentenza per non avere la Corte d’Appello riconosciuto il danno non patrimoniale, e deduce la violazione degli articoli 2103 e 2697 del codice civile, nonché degli articoli 112 e 115 del codice di procedura civile, assumendo il vizio di violazione di legge. La Corte d’Appello, riconoscendo il danno patrimoniale diretto avrebbe violato l’articolo 112 cod. proc. civ., non avendo pronunciato su tutta la domanda, l’articolo 115 cod. proc. civ., non avendo posto a fondamento della decisione le prove proposte dalla ricorrente, e l’articolo 2697 cod. civ., non avendo accertato che la prova fosse stata raggiunta. 2. Il motivo è in parte inammissibile e in parte non fondato. In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale Cass., numero 29047 del 2017 . La Corte d’Appello ha affermato, in ragione di una articolata valutazione delle risultanze probatorie, che la ricorrente non aveva fornito la prova degli ulteriori danni dalle testimonianze raccolte in prime cure non era emerso alcun deterioramento delle relazioni in ambito lavorativo, sociale o familiare, a cui ricollegare un pregiudizio obiettivamente apprezzabile e causalmente derivante dai comportamenti denunciati. Era risultato smentito che alla condotta di demansionamento, e a quelle ulteriori quali la mancata assegnazione di una stanza o di un computer, fosse conseguito alcun danno all’integrità psicofisica dell’appellante. La consulenza medico legale svolta in appello aveva concluso nel senso della insussistenza di elementi probanti il nesso di causa tra le condotte inadempienti e il disturbo di tipo depressivo ansioso allegato dall’appellante. Il CTU rilevava, in particolare, che il disturbo dell’adattamento, nel quale veniva inquadrata la patologia della lavoratrice, ha nella maggior parte dei casi durata transitoria, precisando che la diagnosi di detto disturbo richiede che lo stesso sorga e si manifesti entro tre mesi dall’evento traumatico. Nel caso di specie, pur facendosi riferimento ad un demansionamento iniziato già negli anni 2000-2001, la prima certificazione che indicava una sofferenza psicologica era del 2007 e il riferimento della stessa a difficoltà dell’ambiente lavorativo era di natura meramente amnestica. Inoltre, non vi erano periodi significativi di assenza dal lavoro, mentre il disturbo in questione si traduce di regola nell’incapacità di rendere la prestazione lavorativa. Il CTU, inoltre, rispondeva alle osservazione del CT di parte, il quale intendeva spiegava l’assenza di documentazione in ragione della negazione della patologia come reazione psicologica di difesa della paziente, affermando che ciò era una mera congettura posto che la mancanza di certificazioni coeve al manifestarsi dei sintomi, indispensabili per la diagnosi di un disturbo di natura psichica, rende evidente la mancata soddisfazione sia del criterio cronologico che quello della continuità fenomenologica. La Corte d’Appello condivideva le risultanze della CTU non solo perché immuni da vizi tecnico-scientifici, ma perché coerenti con le prove orali e documentali assunte, non potendosi riferire con il necessario grado di certezza imposto dall’art. 2697 cod. civ. a stress lavorativo né qualificarsi come sintomatici del medesimo, i disturbi di natura cardiaca, pure attestati da certificazioni mediche, stante la familiarità della lavoratrice con la patologia in esame. Analoga considerazione veniva svolta per i disturbi gastrici perché mancava ogni elemento probatorio che ne consentisse un collegamento all’attività lavorativa, soprattutto laddove le assenze dal lavoro erano state del tutto fisiologiche, mentre quelle più prolungate e coeve all’attività di demansionamento risultavano ascrivibili a cause diverse, quale frattura della tibia, intervento al ginocchio. La statuizione della Corte d’Appello che ha pronunciato sulle domande risarcitorie, accogliendo quella relativa al danno patrimoniale, correttamente quantificandolo con riferimento al parametro della indennità di posizione, rigettando le altre, ha fatto corretta applicazione delle norme invocate dalla ricorrente con riguardo all’onere della prova e al rilievo delle risultanze istruttorie, esaminando e valutando queste ultime in aderenza al principio enunciato da questa Corte secondo cui l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata Cass., numero 19011 del 2017, 16056 del 2016 . Anche con riguardo alla CTU, la Corte d’Appello ha operato una ragionata valutazione, conforme ai principi sopra richiamati, che si sottrae a censure. Pertanto, atteso che la Corte d’Appello ha correttamente applicato le norme di cui si adduce la violazione, e il motivo non censura lo specifico percorso motivazionale del giudice di secondo grado, sopra richiamato, in relazione ai motivi di appello che erano stati proposti, e prospetta tra l’altro, quali profili di censura, le allegazioni difensive del ricorso introduttivo del giudizio, senza dedurne la riproposizione in appello e senza fame discendere una critica circostanziata alla sentenza impugnata, va disatteso. 3. Con il secondo motivo di ricorso si afferma la natura retributiva dell’indennizzo liquidato, con la conseguenza che lo stesso avrebbe dovuto ricomprendere somme afferenti 13 mensilità, riliquidazione indennità di buonuscita e riliquidazione pensione, da attribuirsi insieme agli importi riconosciuti a titolo di remunerazione delle maggiori responsabilità connesse all’attività di controllo e coordinamento. Si richiama l’art. 77 del CCNL Agenzie 2002-2003 la cui rubrica reca Struttura della retribuzione”. 4. Il motivo non è fondato atteso che si verte in ipotesi di risarcimento del danno quantificato assumendo come parametro il compenso aggiuntivo che veniva riconosciuto per ogni giorno di effettiva presenza per la remunerazione delle maggiori responsabilità ai funzionari preposti ai team. Pertanto non possono trovare applicazione istituti inerenti la retribuzione. 5. Con il terzo motivo è censurata l’esclusione del danno biologico in ragione della CTU, con violazione art. 116 cod. proc. civ 6. Il motivo è inammissibile in quanto, pur denunciando il vizio di violazione di legge, si sostanzia in una critica di merito alla CTU e non censura in modo adeguato e circostanziato la puntuale e articolata valutazione delle risultanze istruttorie e della CTU stessa che la Corte d’Appello, facendo corretta applicazione dei principi richiamati nella trattazione del primo motivo di ricorso, ha posto a fondamento della statuizione di rigetto di parte della domanda della lavoratrice. 7. Il ricorso principale deve essere rigettato. 8. Può passarsi ad esaminare il ricorso incidentale articolato in quattro motivi. 9. Con il primo motivo del ricorso incidentale è dedotta, ai sensi dell’art. 360, numero 3, cod. proc. civ., la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2103 cod. civ., 56, comma 2, 3 e 4, del d.lgs. numero 26 del 1993 e dell’art. 52 del d.lgs. numero 165 del 2001. Violazione e falsa applicazione degli artt. 18 e 19 del CCNL Ministeri 19982001. Violazione e falsa applicazione del CCNL Agenzie fiscali 2002 - 2005, in vigore dal 29 maggio 2004. Assume l’Amministrazione la erroneità della statuizione di appello, secondo cui la subordinazione del lavoratore ad lavoratore di qualifica immediatamente inferiore nella medesima area implica demansionamento. Ciò, in ragione della lettura delle mansioni corrispondenti alle qualifiche C2 e C3, che pongono in luce come la possibilità di coordinare unità organizzative anche a rilevanza esterna sussista per entrambe. Dunque, il mancato affidamenti dell’incarico di capo team non dava luogo a demansionamento della lavoratrice, tenuto conto tra l’altro delle esigenze di riorganizzazione dell’Ufficio legale e delle conoscenze richieste, con particolare riguardo alle imposte dirette di maggiore rilievo contenzioso qualitativo e quantitativo, che determinavano l’assegnazione dell’incarico ad altra lavoratore. La Corte d’Appello aveva sostanzialmente affermato il principio erroneo secondo cui per i funzionari amministrativi C3 vi era diritto all’attribuzione di compiti di direzione e coordinamento, atteso che questi ultimi sono solo alcune delle relative mansioni equivalenti. Invece, per il personale appartenente alla IX qualifica funzionale non esiste alcun diritto soggettivo ad ottenere il coordinamento di unità organizzative di livello non dirigenziale. 9. Con il secondo motivo di ricorso è prospettata, ai sensi dell’art. 360, numero 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro. Mancata applicazione del CCNL Agenzie fiscali 2002-2005, in vigore dal 29 maggio 2004. Con il nuovo contratto Agenzie fiscali 2002-23005 era stato superato il rigido mansionario e si era passati ad un modello di equivalenza delle mansioni nell’ambito della medesima area, con una differenziazione retributiva collegata alle accresciute capacità e competenze che si acquisiscono nel tempo. In particolare, l’Amministrazione richiama l’allegato A del suddetto CCNL secondo cui i dipendenti collocati nella terza area svolgono funzioni che si caratterizzano per il loro levato contenuto specialistico. La I. , svolgendo attività relativa al contenzioso tributario, era appunto impegnata in funzioni di alto contenuto specialistico coerenti all’area funzionale di appartenenza, con la conseguenza che non era stato attuato alcun demansionamento. 10. 1 suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi non sono fondati. Va considerato che quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 cod. civ., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 cod. civ., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile Cass., 4211 del 2016 . Ancora, si osserva che allorché si tratti di individuare, ai fini dell’accertamento di un eventuale demansionamento, la pertinenza delle mansioni svolte in concreto, rispetto ad una determinata posizione funzionale, il procedimento logico-giuridico non può prescindere da tre fasi successive, costituite dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dalla individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria, nonché dal raffronto tra il risultato della prima indagine e le previsioni della normativa contrattuale individuati nella seconda Cass., numero 7123 del 2014 . Inoltre, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti Cass., numero 19547 del 2017 . Con accertamento di fatto che fa corretta applicazione dei suddetti principi e si sottrae pertanto a censure, e il cui esito costituisce la ratio decidendi della sentenza impugnata, la Corte d’Appello ha rilevato che la ricorrente inquadrata nella IX qualifica funzionale, area C3 del CCNL del Comparto ministeri, sin dal 1992 era stata preposta alla direzione dell’Ufficio successioni, con funzioni di capo reparto, e che dal 5 novembre 2010 era stata inserita nel team legale, in posizione di subordinazione gerarchica rispetto a persona di livello inferiore VIII qualifica funzionale area C2, cui ne era affidato il coordinamento, come da ordine di servizio. Dalle risultanze testimoniali, nonché della documentazione prodotta dalla Amministrazione, era emerso che le mansioni in concreto affidate alla lavoratrice, quale addetta al team, non erano rispondenti ai contenuti di responsabilità ed autonomia gestionale propri della qualifica, per cui perdevano rilievo le deduzioni, comunque ad avviso della Corte non condivisibili, da un lato relative alla equivalenza delle mansioni che potevano essere svolte da un IX livello, come la I. e da un VIII livello, come il Capo team dall’altro relative all’equivalenza tra le mansioni svolte in precedenza come Capo reparto e quelle svolte presso il team legale e poi il team integrato dalla I. . Inoltre, correttamente Corte d’Appello escludeva l’equivalenza dell’area C3 e C2, atteso che lo stesso art. 24 del CCNL Ministeri considerava mansioni immediatamente superiori quelle svolte dal dipendente all’interno della stessa area in profilo appartenente alla posizione di livello economico immediatamente superiore a quella in cui egli è inquadrato. Esclude, altresì, l’equivalenza delle mansioni svolte nel tempo dalla ricorrente atteso che la IX qualifica funzionale comprendeva l’assegnazione di mansioni di direzione e coordinamento, che le risultanze istruttorie avevano escluso. 11. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta ai sensi dell’art. 360, numero 5, cod. proc. civ., il vizio di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. È censurata la statuizione che ha ritenuto che le mansioni in concreto affidate alla lavoratrice non erano risultate rispondenti ai contenuti di responsabilità ed autonomia gestionale propri della qualifica. Tale affermazione confermava l’errato principio della sentenza di appello che il fatto oggetto della subordinazione rappresentasse demansionamento. La Corte d’Appello, inoltre, ometteva l’esame della documentazione allegata alla memoria di costituzione di primo grado e alla memoria difensiva autorizzata in primo grado, con cui si documentava che la ricorrente aveva continuato a svolgere mansioni altamente specializzate e coerenti con la qualifica e mansioni di riferimento. 12. Il motivo è inammissibile. È applicabile alla fattispecie l’art. 360 numero 5 cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 numero 134 pubblicata sulla G.U. numero 187 dell’11.8.2012 , di conversione del d.l. 22 giugno 2012 numero 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente V omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti. Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte che la rafia del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 numero 5 cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, -in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione , sicché quest’ultima non può essere ritenuta mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi. Inoltre l’Amministrazione nel riprodurre nel motivo ampi stralci degli atti difensivi di primo grado, assumendone l’omesso esame da parte della Corte d’Appello, non riproduce le difese di appello in cui avrebbe riproposto tali argomenti all’attenzione del giudice di secondo grado. 13. Con il quarto motivo è prospettata in relazione all’art. 360, numero 3, la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ Si afferma che la Corte d’Appello sarebbe andata ultra petita perché il risarcimento era stato chiesto in relazione al periodo 16 giugno 2000 ricorso di primo grado mentre il giudice di secondo grado aveva considerato il 1 giugno 2000. 14. I1 motivo è inammissibile in quanto il ricorrente incidentale non trascrive la domanda proposta dalla lavoratrice con l’atto introduttivo del giudizio, limitandosi a richiamare l’atto. 15. Il ricorso incidentale deve essere rigettato. 16. In ragione della reciproca soccombenza le spese di giudizio tra le parti sono compensate. 17. Ai sensi del d.P.R. numero 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis. Non può trovare applicazione nell’ipotesi d’impugnazione, anche incidentale come nella specie, della amministrazione pubblica, la disposizione, di cui al d.P.R. numero 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla legge numero 228 del 2012, art. 1, comma 17 Cass., numero 23514 del 2014, Cass. S.U., numero 9938 del 2014 . P.Q.M. La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa tra le parti le spese di giudizio. Ai sensi del d.P.R. numero 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, all’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.