Illegittimo il licenziamento del lavoratore assente per gastroenterite impegnato nella tinteggiatura d’esterni

Non sempre lo svolgimento di un’altra attività lavorativa durante il periodo di assenza per malattia, giustifica la reazione del datore di lavoro che abbia licenziato il dipendente.

Così la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 17424/18, depositata il 4 luglio. La vicenda. Un lavoratore veniva licenziato per giusta causa per aver svolto attività di tinteggiatura di esterni durante l’ultimo giorno di un periodo di assenza per malattia per asserita gastroenterite. Il giudice di primo e secondo grado dichiarava l’illegittimità del licenziamento e, in accoglimento della domanda subordinata del datore di lavoro, aveva applicato al lavoratore la sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro per 3 giorni. La società ricorre per la cassazione della pronuncia. Giusta causa del licenziamento. La giurisprudenza ha affermato che lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia costituisce una violazione degli obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede. L’attività esterna è inoltre idonea di per sé a far desumere l’insussistenza della malattia nel caso in cui, secondo un giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, oppure laddove possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro del lavoratore in servizio. Di conseguenza, non è sufficiente il mero svolgimento di un’attività lavorativa durante la malattia per configurare una violazione dei principio di buona fede e diligenza posto che non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare – durante tale assenza – attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera . Mirando le ulteriori censure ad una rivalutazione del merito, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 10 maggio – 4 luglio 2018, numero 17424 Presidente Curzio – Relatore Ghinoy Fatto e diritto Rilevato che 1. E.M. veniva licenziato per giusta causa dalla società Tasso s.r.l. per avere svolto attività lavorativa in proprio tinteggiatura di esterni durante l’ultimo giorno di un periodo di assenza per malattia protrattosi dal 14.7.2015 al 17.7.2015 per asserita gastroenterite 2 la Corte d’Appello di L’Aquila rigettava il reclamo proposto ex art. 1 comma della legge numero 92 del 2012 e confermava la sentenza del Tribunale di Lanciano che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e, in accoglimento della subordinata proposta dalla società, aveva applicato nei confronti di E.M. la sanzione disciplinare conservativa di tre giorni di sospensione dal lavoro 3. la Tasso s.r.l. propone ricorso per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello, affidato a 4 motivi, cui ha resistito l’E. con controricorso. Considerato che 1. con il primo motivo viene denunciata ex art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione, sotto più profili, degli artt. 2119, 1175, 1375, 2104 c.c. Il giudice di secondo grado, secondo la ricorrente, non avrebbe interpretato adeguatamente le norme richiamate, in relazione al caso concreto le stesse infatti consentirebbero al datore di lavoro di risolvere il rapporto con il proprio dipendente nel caso in cui questi ponga in essere una condotta con modalità e connotazioni tali da ledere il vincolo di fiducia, qual era nel caso quella realizzata dall’E. . 2. Con il secondo motivo di ricorso, viene denunciata -ex art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione delle norme di legge in tema di onere della prova art. 2697 c.c. e si assume che il lavoratore avrebbe omesso di fornire adeguata prova circa la compatibilità tra l’attività extra lavorativa svolta e la patologia denunciata. 3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce -ex art. 360, comma 1, numero 5 c.p.c. l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dalla mancata dimostrazione da parte del lavoratore della compatibilità dell’attività svolta con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale. 4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce -ex art. 360, comma 1, numero 3 c.p.c. la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in tema di condanna alle spese del giudizio. La ricorrente lamenta di essere stata condannata al pagamento delle spese processuali pur avendo la Corte d’Appello accolto la sua domanda, seppure subordinata ciò non sarebbe conforme all’art. 91 c.p.c., che prevede la possibilità che solo la parte soccombente possa essere condannata a pagare le spese. 5. Il primo motivo non è fondato. La Corte territoriale si è attenuta al principio consolidato di questa Corte secondo il quale lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio da ultimo, Cass. numero 10416 del 27/04/2017 . Risulta evidente dunque come non sia sufficiente il mero svolgimento di un’attività lavorativa durante la malattia per configurare una violazione dei principi di buona fede e diligenza, poiché non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare durante tale assenza attività lavorativa in favore di terzi, purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà imposto al prestatore d’opera. Pertanto non si configura giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti con quella cui è contrattualmente legato oppure anziché collaborare al recupero della salute per riprendere al più presto la propria attività lavorativa -abbia compromesso o ritardato la propria guarigione strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia ed in danno del proprio datore di lavoro v. ancora Cass. numero 4237 del 3/03/2015 . 6. Il secondo e terzo motivo, da valutarsi congiuntamente in quanto connessi, sono inammissibili. La Corte territoriale ha dichiarato espressamente di condividere la valutazione delle emergenze probatorie effettuata dal primo giudice che, con riguardo a tutte le circostanze del caso concreto tra le quali la durata dell’attività extralavorativa, la gravosità dell’impegno fisico ivi profuso, la puntualità della ripresa del lavoro , aveva accertato che lo svolgimento dell’attività extra lavorativa durante la malattia non fosse incompatibile con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa, né determinasse un pregiudizio al normale recupero delle normali energie psico-fisiche. I due motivi chiedono quindi sostanzialmente una rivisitazione delle medesime emergenze probatorie, la cui valutazione compete al giudice di merito v. Cass. numero 586 del 15/01/2016 ed è preclusa in questa sede, stante anche l’applicabilità, nel giudizio di cassazione, del quinto comma dell’art. 348 ter cod. proc. civ. introdotto dall’art. 54 comma 1 lett. a del D.L. numero 83 del 2012, conv. con modif, nella L. numero 134 dello stesso anno, applicabile, a norma dell’art. 54 comma 2 del medesimo decreto, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione a far data dal 11 settembre 2012 il quale prevede che la disposizione contenuta nel precedente comma quarto ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 cod. proc. civ. si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, secondo comma, lett. a , anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado cosiddetta doppia conforme , v. Cass. numero 23021 del 29/10/2014 . 7. Il quarto motivo di ricorso è infondato. La Corte territoriale ha respinto il reclamo della società, sicché l’esito della lite era l’accoglimento dell’impugnativa del licenziamento proposta dall’E. , sebbene con applicazione della sanzione conservativa richiesta in via di subordine dalla società. Sussistevano dunque i presupposti per porre le spese del giudizio a carico di quest’ultima, alla luce dell’orientamento stabile di questa Corte, secondo la quale in materia di spese processuali, l’identificazione della parte soccombente è rimessa al potere decisionale del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità, con l’unico limite di violazione del principio per cui le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa il che, nella specie, non è avvenuto v. Cass. numero 12963 del 04/06/2007 e, più recentemente, Cass. numero 892 del 17/01/2014 . 8. Per tali motivi, condividendo il Collegio la proposta del relatore notificata ex art. 380 bis c.p.c., all’esito della quale le parti non hanno formulato memorie, il ricorso, manifestamente infondato, va rigettato con ordinanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 1, numero 5, cod. proc. civ 9. La regolamentazione delle spese processuali segue la soccombenza. 10. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 numero 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, numero 228. P.Q.M. rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. numero 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.