Mancano 3 euro dalla cassa, responsabile del negozio e cassiera si accusano a vicenda: quest’ultima licenziata

La lavoratrice veniva licenziata per aver ingiustamente insinuato che il suo responsabile l’avesse accusata dell’ammacco di 3 euro rispetto all’importo complessivo di fondo cassa. Inutile il suo ricorso in Cassazione, confermato il licenziamento per il suo grave comportamento contrario ai doveri civici sanzionato dal contratto collettivo.

Sulla questione la Cassazione con sentenza n. 15021/18, depositata l’8 giugno. Il fatto. La Corte d’Appello di Roma, confermando la decisione di prime cure, respingeva la domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice appellante. L’addebito contestato alla lavoratrice risultava provato dagli atti, ed, in particolare, veniva contestato alla lavoratrice di aver insinuato che il responsabile del negozio avesse incolpato la stessa, come commessa addetta alla cassa, di aver sottratto 3 euro dall’incasso. Ad avviso della lavoratrice, invece, tali accuse erano un espediente del responsabile per liberarsi di lei. Secondo la Corte territoriale la condotta della lavoratrice appariva grave anche sotto il profilo soggettivo che denotava una particolare intensità del dolo o, comunque, una colpa inescusabile né la reazione datoriale poteva ascriversi ad un motivo discriminatorio determinato da intento ritorsivo datoriale richiedendosi a tal fine la legittimità del comportamento del lavoratore, legittimità non ravvisabile in presenza di una condotta violativa dei più elementari doveri del vivere civile . Avverso la decisione di merito la soccombente ha promosso ricorso per cassazione. Insinuazione in violazione dei doveri civici. I motivi di ricorso relativi alla sussistenza della giusta causa del licenziamento sono stati dichiarati inammissibili dalla Suprema Corte. Nello specifico con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21 Cost., sostenendo che la giusta causa del licenziamento veniva confermata solo sulla verifica del fatto materiale, senza indagarne i profili di antigiuridicità . Sostiene la ricorrente che quanto da lei affermato, circa la condotta del suo superiore, fosse un fatto realmente accaduto. La Cassazione ha rilevato sul punto che l’accertamento fattuale dei Giudici di merito, circa la giusta causa ravvisabile nel fatto di insinuare che il responsabile abbia sottratto 3 euro dal fondo cassa al fine di far sanzionare disciplinarmente la lavoratrice ricorrente e non il mero riferimento di fatti accaduti fosse incensurabile in sede di legittimità. Di conseguenza anche le ulteriori deduzioni del ricorrente sono inammissibili posto che correttamente i Giudici di merito hanno ritenuto che il fatto sia da considerare antigiuridico in quanto rappresenta una grave violazione dei doveri civici sanzionati dal contratto collettivo. In conclusione il Supremo Collegio, rigettando anche nel resto il ricorso, ha condannato parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 febbraio – 8 giugno 2018, n. 15021 Presidente Nobile – Relatore Pagetta Fatti di causa 1. La Corte di appello di Roma, pronunziando in sede di reclamo, ha confermato la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda di accertamento della illegittimità del licenziamento per motivi disciplinari intimato a C.E. da Mastrantoni & amp Tranquilli s.r.l., con lettera del 4.11.2013. 1.1. Il giudice di appello, richiamato l’integrale contenuto della contestazione disciplinare, ha osservato che dalla emergenze in atti risultava provato l’ultimo degli addebiti contestati alla lavoratrice, costituito dall’avere questa insinuato nei confronti del responsabile del negozio presso il quale prestava attività come commessa addetta alla cassa, che l’ammanco di tre Euro rispetto all’importo complessivo di trecento Euro - costituente il fondo cassa contenuto in un astuccio che, come da prassi, veniva consegnato dal responsabile del negozio all’addetta all’apertura della cassa - era stato un espediente utilizzato al fine di liberarsi di essa C. , sanzionandola disciplinarmente ciò pur essendo la C. consapevole dal fatto che la società, per ammanchi di pochi Euro, non aveva mai mosso alcun addebito su tale ricostruzione non veniva ad incidere la sentenza penale di assoluzione della C. , tratta a giudizio in seguito alla querela presentata nei suoi confronti dal responsabile del negozio, sentenza che, oltre a non essere vincolante nei confronti della società datrice che non si era costituita parte civile né risultava fosse stata posta in condizione di farlo, aveva solo escluso il disvalore penale del fatto ascritto ma non le frasi pronunziate dalla C. all’indirizzo del direttore del negozio. Tale fatto, alla stregua delle previsioni collettive, era punibile con sanzione espulsiva e non, come sostenuto dalla C. , con sanzione conservativa in quanto la norma collettiva - art. 225 c.c.n.l. - prevedeva la irrogazione del licenziamento in ipotesi di grave violazione degli obblighi di cui all’art. 220 c.c.n.l. tra i quali vi era quello di tenere una condotta conforme ai doveri civici. La insinuazione nei confronti del direttore circa l’uso strumentale e preordinato dell’ammanco costituiva gravissima violazione di tali doveri tra i quali era annoverabile quello di non formulare accuse o insinuazioni gratuite che potevano, anche solo minimamente, cagionare una danno all’altrui immagine o reputazione la condotta della C. appariva grave anche sotto il profilo soggettivo che denotava una particolare intensità del dolo o, comunque, una colpa inescusabile né la reazione datoriale poteva ascriversi ad un motivo discriminatorio determinato da intento ritorsivo datoriale richiedendosi a tal fine la legittimità del comportamento del lavoratore, legittimità non ravvisabile in presenza di una condotta violativa dei più elementari doveri del vivere civile. 2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso C.E. sulla base di tre motivi la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 18 Legge 20/05/1970 n. 300 nonché dell’art. 2119 cod. civ., censurando la decisione per avere, in violazione del principio di immutabilità della contestazione, verificato la sussistenza della giusta causa di licenziamento sulla base di un fatto diverso e più ampio rispetto a quello posto a fondamento della lettera di contestazione la lettera di addebito, infatti, imputava alla C. di avere direttamente accusato il responsabile del negozio della sottrazione dei soldi dal proprio fondo cassa, circostanza questa esclusa sia nella sua materialità che nel suo carattere antigiuridico dalla sentenza che aveva definito il giudizio penale conseguente alla querela presentata dal direttore B. nei confronti della C. il giudice del reclamo aveva, invece, dimostrato di prendere in considerazione non l’accusa diretta ma anche la insinuazione formulata nei confronti del responsabile del negozio. 2. Con il secondo motivo parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 7 e 18 Legge n. 300/1970, dell’art. 21 Cost., degli artt. 2119 cod. civ. e degli artt. 220, 225 e 229 c.c.n.l. Commercio, censurando la valutazione di sussistenza della giusta causa di licenziamento che assume fondata solo sulla verifica del fatto materiale, senza indagarne i profili di antigiuridicità. In questa prospettiva sostiene che le frasi pronunziate dalla C. consistevano essenzialmente nel riferire ad un proprio superiore fatti realmente accaduti limitandosi a fotografarli ed erano, pertanto, prive del carattere di antigiuridicità, diversamente essendo ravvisabile nella sentenza impugnata la violazione del principio costituzionale di cui all’art. 21 Cost. contesta, inoltre, la riconducibilità delle condotte ascritte alla violazione dei doveri civici di cui all’art. 220 c.c.n.l 3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 654 cod. proc. pen., dell’art. 2119 cod. civ., degli art. 7 e 18 L. n. 300 /1970 e degli artt. 220, 225 e 229 c.c.n.l. Commercio, censurando, in sintesi, la sentenza impugnata per non avere considerato che la sentenza penale di assoluzione con formula per insussistenza del fatto non si era limitata ad escludere il disvalore del fatto ascritto ma aveva anche accertato la materiale insussistenza dello stesso. 4. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. Dallo storico di lite della sentenza impugnata si evince che il giudice di primo grado ha ritenuto provato l’addebito oggetto di contestazione accertando che la C. aveva, comunque, insinuato che il proprio superiore aveva artatamente inscenato un ammanco di denaro al fine di determinare l’irrogazione del licenziamento. Da tanto si evince che la sentenza di primo grado aveva preso in considerazione, quale oggetto di addebito, l’insinuazione nei confronti del superiore e non solo l’accusa diretta di avere prelevato dei soldi dal fondo cassa. Posto che secondo quanto emerge dalla sentenza impugnata i motivi di reclamo articolati dalla C. concernevano l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie e la esclusione della natura ritorsiva del recesso datoriale, costituiva onere della odierna ricorrente dimostrare, mediante la adeguata esposizione della vicenda processuale, che la sentenza del Tribunale era stata investita da censura anche in relazione al profilo della corretta individuazione dei fatti oggetto di addebito, quali risultanti dalla lettera di contestazione. Parte ricorrente si è, invece, sottratta a tale onere in quanto non ha allegato, prima ancora che documentato mediante la riproduzione o il riassunto dei pertinenti brani dell’atto di reclamo di avere, in seconde cure, sollevato la questione proposta con il motivo in esame anzi, la circostanza può dirsi positivamente esclusa alla luce della stessa ricostruzione delle fasi del giudizio di merito operata nel ricorso per cassazione v. in particolare, sui motivi di reclamo, pagg. 30 e 31 . Alla luce di quanto ora osservato le condotte oggetto di contestazione risultano cristallizzate nella interpretazione data dal giudice di primo grado alla lettera di addebito e comprendono quindi anche la insinuazione nei confronti del direttore del negozio a ciò consegue la preclusione di ogni deduzione attinente alla violazione del principio di immutabilità della contestazione. 5. Il secondo motivo di ricorso è da respingere i. La sentenza impugnata ha fondato la propria valutazione della sussistenza della giusta causa su un fatto insinuazione nei confronti del responsabile del negozio di avere sottratto i tre Euro dal fondo cassa al fine di poter sanzionare disciplinarmente la C. , pur nella consapevolezza che in tali casi la società non adottava alcuna iniziativa - diverso dal mero riferire al superiore i fatti accaduti mancanza dei tre Euro dal fondo cassa , come, invece, prospettato dalla ricorrente. Ciò assorbe ogni rilievo alla denunziata violazione del principio di libera manifestazione del pensiero ex art. 21 Cost Di tale fatto, inoltre, è stata espressamente presa in considerazione l’antigiuridicità laddove esso è stato ricondotto alla grave violazione dei doveri civici sanzionata dal contratto collettivo. Le ulteriori deduzioni del ricorrente intese a contrastare tale valutazione risultano inammissibili in quanto per un verso ancorate al presupposto – rivelatosi insussistente - che il fatto addebitato era costituito dalla mera denunzia da parte della C. dell’accaduto laddove, come visto, esso era costituito anche dall’insinuazione nei confronti del responsabile del negozio di un utilizzo precostituito a fini disciplinari dell’ammanco riscontrato, e, per altro verso, intese a sollecitare la rivalutazione del materiale probatorio nella ricostruzione del fatto, rivalutazione preclusa al giudice di legittimità Cass. 4/11/2013 n. 24679, Cass. 16/12/2011 n. 2197, Cass. 21/9/2006 n. 20455, Cass. 4/4/2006 n. 7846, Cass. 7/2/2004 n. 2357 . 6. Il terzo motivo di ricorso è inammissibile. Invero, a prescindere dal rilievo che l’accertamento espresso nel giudizio penale definito con sentenza di assoluzione della C. per insussistenza del fatto ha ad oggetto una condotta diversa da quella alla base della contestazione di addebito disciplinare in quanto l’imputazione penale per il reato di cui all’art. 594 cod. pen., concerneva il profferimento della frase qui tutti devono sapere che hai rovistato nel fondo laddove l’addebito disciplinare, invece, ascriveva alla lavoratrice una condotta ben più articolata consistente avere accusato il B. , responsabile del negozio, della sottrazione di soldi dal fondo cassa per utilizzare l’ammanco quale fatto di rilievo disciplinare, si osserva che con il ricorso per cassazione non viene impugnata l’affermazione del giudice del reclamo, configurante autonoma ratio decidendi, in ordine alla non vincolatività della detta sentenza penale nei confronti della società che non si era costituita parte civile in quel giudizio né era stato dimostrato fosse stata messa nelle condizioni di farlo, statuizione coerente con la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la efficacia vincolante del giudicato penale di assoluzione, è invocabile, ex art. 654 c.p.p., nel giudizio civile tra coloro che parteciparono al processo penale Cass. 16/09/1999 n. 10019 Cass., 10709 del 27/10/1998 . 7. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente alle spese di lite. 8. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.