Il consumo di droghe leggere giustifica il licenziamento

Il consumo di sostanze stupefacenti, comprese le c.d. droghe leggere”, ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus definite a rischio” costituisce giusta causa di licenziamento poiché viola certamente il minimum etico della condotta del lavoratore, a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. 148/1931, a tale condotta. Del resto, il mancato riferimento in questione non è significativo, avuto riguardo all’epoca di emanazione del testo normativo, contemplando l’unico modo allora in uso, di alterazione della psiche, integrato dallo stato di ubriachezza.

Così la Cassazione con ordinanza n. 12994/18 depositata il 24 maggio. Il caso. La Corte d’Appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata la domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato ad un conducente di linea, perché trovato positivo agli accertamenti tossicologici periodici prescritti dalla legge per le mansioni cd. a rischio”. Con ricorso per cassazione il lavoratore ha lamentato l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale per aver ritenuto violato il minimum etico nella condotta del lavoratore, integrata nella specie dal consumo di cannabis, con conseguente non necessità di affissione del codice disciplinare. Il lavoratore ha inoltre eccepito che il consumo di droghe non avrebbe rilevanza disciplinare poiché non è sanzionato da alcuna norma di legge, essendo invece individuata come causa di recesso dal r.d. n. 148/1931 solo l’ubriachezza durante l’orario di lavoro Anche l’uso di droghe leggere costituisce giusta causa di licenziamento. La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo infondati tutti i motivi dedotti dal lavoratore, confermando l’assoluta rilevanza disciplinare dell’uso di sostanze stupefacenti, comprese quelle c.d. leggere, anche se non durante l’orario di lavoro. Gli Ermellini hanno per prima cosa ritenuto irrilevante il mancato riferimento a detta fattispecie nell’ambito del r.d. n. 148/1931, che contempla quale causa che giustifica il licenziamento solo lo stato di ubriachezza, considerato che all’epoca di emanazione del testo normativo l’ubriachezza era l’unico modo di alterazione della psiche. Peraltro, prosegue la Corte, l’uso di droghe leggere assume rilevanza disciplinare sull’evidente presupposto della sua idoneità, avuto riguardo alle specifiche mansioni espletate dal lavoratore, a compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario. Si ricorda infatti che secondo la giurisprudenza maggioritaria una condotta extralavorativa può essere contestata ad un lavoratore quando la stessa abbia un riflesso, anche solo potenziale, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento delle specifiche mansioni o quando il comportamento sia di tale gravità, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comune, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti. Il licenziamento costituisce sanzione proporzionata. Nel caso in commento il lavoratore ha inoltre eccepito che il licenziamento non costituisse sanzione proporzionata al disvalore della condotta che, al più, avrebbe avuto rilevanza disciplinare sotto il profilo della violazione delle norme sulla sicurezza, che il CCNL applicato dall’azienda punisce con una sanzione conservativa. La Corte di Cassazione ha invece ritenuto sufficientemente grave la condotta del lavoratore, considerata soprattutto la delicatezza delle mansioni affidategli e al potenziale pregiudizio insito nel consumo di sostanze stupefacenti, seppure leggere. Si vedrà, nel tempo, se tale orientamento piuttosto rigoroso troverà conferma o, invece, muterà alla luce di un contesto sociale e anche legislativo più tollerante nei confronti del consumo e della detenzione per uso personale delle droghe leggere.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 22 febbraio – 24 maggio 2018, n. 12994 Presidente Doronzo – Relatore Di Paola Fatto e diritto Rilevato che la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza del primo giudice con cui è stata rigettata la domanda di impugnativa del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore, conducente di linea, perché trovato positivo agli accertamenti tossicologici periodici prescritti dalla legge per le mansioni c.d. a rischio per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso V.A. , affidato a sette motivi la società ha resistito con controricorso è stata depositata la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis, comma 2, c.p.c. Considerato che il Collegio ha deliberato di adottare la motivazione semplificata V.A. - denunciando violazione dell’art. 7, comma primo, L. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - si duole che la Corte di Appello abbia ritenuto violato il minimum etico nella condotta del lavoratore, integrata dal consumo di sostanze stupefacenti leggere i.e. cannabis , con conseguente non necessità di affissione del codice disciplinare inoltre - denunciando violazione dell’art. 7 L. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - lamenta che la Corte territoriale abbia ritenuto disciplinarmente rilevante l’inidoneità fisica del lavoratore, semmai integrante un giustificato motivo oggettivo, nonché il consumo di droghe, non sanzionato da alcuna norma di legge, né dal r.d. n. 148 del 1931, contemplante, quale causa di destituzione non applicabile analogicamente , solo l’ubriachezza durante l’orario di lavoro ancora - denunciando violazione degli artt. 7 L. n. 300 del 1970, 41 e 45 r.d. n. 148 del 1931, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - si duole che la predetta Corte abbia ritenuto proporzionata la sanzione del licenziamento, dovendo, invece, venire al più in considerazione la sanzione della multa per inosservanza di norme di prevenzione contro gli infortuni inoltre - denunciando violazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970, del protocollo di accompagnamento dei lavoratori positivi ai test antidroga del 30.10.2007 e del 18.9.2008, nonché degli artt. 2078 c.c. e 1374 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - lamenta che il giudice di appello non abbia considerato obbligatorio e necessario il predetto protocollo, il quale prevede il licenziamento non in caso di positività al test antidroga, ma all’esito dei controlli e infruttuosità di tutti i percorsi e monitoraggi previsti dal protocollo stesso ulteriormente - denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. n. 300 del 1970, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - si duole che il giudice di appello abbia qualificato il licenziamento come disciplinare e non per giustificato motivo oggettivo da impossibilità sopravvenuta della prestazione per inidoneità fisica del lavoratore ancora - denunciando violazione dell’art. 183, comma settimo, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - lamenta che il giudice di appello non abbia dato seguito alla richiesta istruttoria volta a dimostrare che il lavoratore, nei giorni precedenti al controllo, era stato esposto a forti quantità di fumo passivo infine - denunciando violazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c. - si duole che il giudice di appello, attesa la novità della questione, non abbia compensato le spese dei gradi di giudizio. Ritenuto che il primo motivo è infondato, poiché viola certamente il minimo etico il consumo di sostanze stupefacenti ad opera di un lavoratore adibito a mansioni di conducente di autobus, definite a rischio , a prescindere dal mancato riferimento, nell’ambito del r.d. n. 148/1931, alla descritta condotta del resto, il mancato riferimento in questione non è significativo, avuto riguardo all’epoca di emanazione del testo normativo, contemplante l’unico modo, allora in uso, di alterazione della psiche, integrato dallo stato di ubriachezza il secondo, terzo e quinto motivo, da trattare congiuntamente perché connessi, sono infondati, giacché il consumo di droghe è stato contestato quale addebito disciplinare in sé e tale è stato correttamente considerato dal giudice di merito , sull’evidente presupposto della sua idoneità, avuto riguardo alle specifiche mansioni espletate dal lavoratore, a compromettere irrimediabilmente l’elemento fiduciario va in proposito richiamato il principio secondo cui in tema di licenziamento per giusta causa, l’onere di allegazione dell’incidenza, irrimediabilmente lesiva del vincolo fiduciario, del comportamento extralavorativo del dipendente sul rapporto di lavoro nella specie, detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti , è assolto dal datore di lavoro con la specifica deduzione del fatto in sé, quando lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento, in relazione alle specifiche mansioni o alla particolare attività, perché di gravità tale, per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere comuni, da connotare la figura morale del lavoratore, tanto più se inserito in un ufficio di rilevanza pubblica a contatto con gli utenti quanto al profilo della proporzionalità della sanzione, il relativo giudizio è sorretto, nel caso, da motivazione sufficiente e non contraddittoria, avuto riguardo alla delicatezza delle mansioni esercitate dal lavoratore nonché al connesso potenziale pregiudizio insito nel consumo di sostanze stupefacenti, pur leggere per un caso analogo v. Cass. n. 6498/2012, che ha cassato - in ragione della motivazione inadeguata rispetto alla clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. - la sentenza della Corte territoriale che, nel dichiarare illegittimo per difetto di proporzionalità il licenziamento di un impiegato di banca trovato in possesso di sostanze stupefacenti, aveva evidenziato trattarsi di droghe leggere , detenute per uso personale, e non a fini di spaccio, in circostanze di tempo e luogo compatibili con l’ipotesi del consumo non abituale è infondato il quarto motivo, poiché non è stata censurata la ratio decidendi secondo cui il percorso completo di monitoraggio non avrebbe potuto confermare l’assenza di assunzione di sostanze, quale requisito richiesto per essere riammessi nelle funzioni è infondato il sesto motivo, in difetto di certezza circa l’idoneità dell’espletamento del mezzo istruttorio richiesto ad invalidare le conclusioni cui è pervenuto il giudice di merito cfr., sul punto, Cass. n. 5654/2017 Il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale o di altra prova può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento è inammissibile il settimo motivo, poiché in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione così Cass., SU, n. 14989/2005 le spese del presente giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13 P.Q.M. rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali ed 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13