La rottura del rapporto di fiducia tra datore di lavoro e dipendente legittima il licenziamento

Nell’ambito del licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebito e recesso, assume rilevanza ogni comportamento che per la sua gravità sia idoneo a ripercuotersi sulla fiducia che il datore di lavoro ripone nel dipendente.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 12431/18, depositata il 21 maggio. La vicenda. Una banca intimava al responsabile di una filiale il licenziamento disciplinare per aver negoziato assegni non trasferibili a favore di soggetti diversi dal beneficiario e concesso credito a soggetti non economicamente affidabili. Il Tribunale, cosi come la Corte d’Appello, confermavano la legittimità del provvedimento datoriale. Il lavoratore ricorre dunque in Cassazione deducendo, per quanto d’interesse, la sproporzione tra condotta addebitata e provvedimento disciplinare intimato. Giusta causa del licenziamento. La Corte di Cassazione richiama il consolidato principio secondo cui, nell’ambito del licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione della proporzionalità tra fatto addebito e recesso, assume rilevanza ogni comportamento che per la sua gravità sia idoneo a ripercuotersi sulla fiducia del datore di lavoro, facendo di conseguenza ritenere impossibile una continuazione del rapporto per l’inevitabile pregiudizio che ne conseguirebbe per gli scopi aziendali. È in tal senso determinante l’influenza del comportamento sul rapporto di lavoro quale sintomo di una scarsa inclinazione all’attuazione diligente degli obblighi assunti e dell’osservanza dei canoni di buona fede e correttezza. Sarà dunque il giudice di merito a valutare al complessiva situazione concreta con un apprezzamento unitario e sistematico, come correttamente svolto nella vicenda in esame. In conclusione la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. VI Civile – L, ordinanza 22 marzo – 21 maggio 2018, n. 12431 Presidente Doronzo – Relatore Di Paola Fatto e diritto Rilevato che con la sentenza impugnata è stata confermata la pronuncia del primo giudice con cui è stata rigettata la domanda proposta dal ricorrente, volta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli per avere egli negoziato, in qualità di responsabile di filiale, assegni non trasferibili a favore di soggetti diversi dal beneficiario e concesso fidi ed aperture di credito a soggetti economicamente inaffidabili per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.G. , affidato a quattro motivi Banco BPM S.p.A. ha resistito con controricorso è stata depositata la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio. Considerato che il Collegio ha deliberato di adottare la motivazione semplificata A.G. - denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., 30 e 47 Carta di Nizza, 1374 e 2697 c.c., 115, 116, 132 e 421 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c. - si duole che il giudice di appello abbia omesso di considerare che la negoziazione di assegni non trasferibili era frutto di prassi aziendale, imposta dalla banca, al fine di incrementare la clientela e la redditività inoltre - denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 26 e 43 del R.D. 21 dicembre 1933, 1703 c.c. nonché del d.lgs. n. 143 del 1991, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c. - lamenta che il predetto giudice abbia omesso di considerare che la negoziazione in questione avveniva alla presenza del beneficiario ancora - denunciando violazione e/o falsa applicazione della normativa interna aziendale, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - si duole che la Corte territoriale abbia ritenuto la responsabilità di esso ricorrente per la mancata costituzione di un gruppo di rischio tra le società MS Servizi ed AA Multiservice infine - denunciando violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2106 c.c., 18, comma 4, l. n. 300 del 1970, nonché del modello organizzativo 231/01, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - lamenta che la predetta Corte, da un lato, non abbia considerato, ai fini della proporzionalità della sanzione e della illegittimità del provvedimento espulsivo, la conclamata prassi aziendale imposta ad esso ricorrente, nonché, dall’altro, non abbia applicato la sanzione conservativa prevista dal predetto modello organizzativo per i casi più gravi di violazione delle procedure interne o della normativa. Ritenuto che i primi due motivi sono inammissibili, in quanto incentrati, al di là delle indicazioni formali, sul vizio di omesso esame, in violazione dell’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., ove è previsto che il ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che ha confermato la sentenza di primo grado può proporsi solo per i motivi di cui ai numeri 1 , 2 , 3 e 4 del primo comma dell’art. 360 c.p.c. comunque, nella sentenza impugnata, del profilo della prassi vi è ampio esame, il cui esito è il ravvisato difetto - oltre che di rilevanza - di prova, sul duplice rilievo che il ricorrente era stato già diffidato nel 2010 a non negoziare assegni non trasferibili e che l’operazione, vietata dalla legge - e tale da comportare l’esposizione della banca a responsabilità contabile -, aveva cagionato, per di più, alla banca stessa un notevole danno economico tutti fattori, quelli illustrati, ragionevolmente inconciliabili - secondo il plausibile convincimento della Corte di Appello - con la sussistenza della dedotta prassi del pari, la predetta Corte ha esaminato il profilo della presenza del beneficiario all’operazione di negoziazione, ritenendolo irrilevante ai fini del giudizio di gravità della condotta, atteso l’intento fraudolento dell’operazione nei molti casi in cui il beneficiario stesso, correntista in esposizione debitoria con la banca, evitando l’accredito di denaro sul proprio conto, impediva alla banca stessa di operare le trattenute per regolare i rapporti di dare/avere intento altresì presente nella vicenda del versamento di assegni non trasferibili emessi a favore di danneggiati da sinistri sul conto di tale C.V. , perito assicurativo ma ufficialmente dipendente dell’Inail, il quale senza che dell’operazione fosse conservata traccia - tratteneva direttamente l’onorario a lui dovuto il terzo motivo è inammissibile, giacché la normativa aziendale non costituisce norma di diritto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. il quarto motivo è infondato, poiché In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, dovendosi ritenere determinante, a tal fine, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza. Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro così Cass. n. 17514/2010 nel caso, il giudice di appello si è linearmente attenuto a tali criteri nel pervenire ad un giudizio di proporzionalità della sanzione, avuto riguardo, da un lato, al riconosciuto intento fraudolento delle sopra sinteticamente illustrate operazioni, produttive di danno per la banca, e, dall’altro, alla qualità di responsabile di filiale del lavoratore, che, secondo l’organigramma aziendale, assumeva la funzione di primo garante della correttezza delle operazioni compiute le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13. P.Q.M. rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13.