Il lavoratore è tenuto a contestare nello specifico le ragioni dell’omessa affissione del codice disciplinare

Le censure relative all’omessa affissione del codice disciplinare non devono essere generiche, soprattutto qualora nei precedenti gradi di giudizio sia stata affermata la non necessaria affissione in presenza di contestazioni mosse al lavoratore attinenti ai doveri di fedeltà e di rispetto del patrimonio del datore di lavoro.

Così la Corte di Cassazione con sentenza n. 9420/18, depositata il 17 aprile. Il caso. La Corte d’Appello di Napoli respingeva il reclamo proposto avverso la decisione del Tribunale della medesima città confermando la legittimità del licenziamento intimato al responsabile di un punto vendita. I Giudici di merito rilevavano la legittimità della contestazione disciplinare e della missiva di licenziamento, ribadendo come il licenziamento stesso derivasse da un insieme di condotte negligenti, e non rispettose delle procedure aziendali, aventi ad oggetto l’inosservanza dell’obbligo di vigilanza sull’attività aziendale. I Giudici respingevano, altresì, la doglianza relativa alla mancata affissione del codice disciplinare, in quanto il recesso risultava giustificato da motivazioni previste per legge. Avverso la sentenza della Corte distrettuale il responsabile del punto vendita ricorre per cassazione denunciando l’erronea addebitabilità delle condotte e l’omessa affissione del codice disciplinare. Le contestazioni relative all’affissione del codice. Il Supremo Collegio riconosce come le condotte ascritte al ricorrente attengano al mancato rispetto delle procedure aziendali in tema di controllo della merce in magazzino, con riferimento alla contabilità del punto vendita, risultando pertanto coerente, logica e congrua l’interpretazione della lettera di contestazione degli addebiti fornita dal Giudice del gravame, alla quale viene contrapposta una diversa opzione ermeneutica senza che emerga la dedotta violazione dei canoni legali . Relativamente alla censura avente ad oggetto la mancata affissione del codice disciplinare, la Suprema Corte evidenzia come nessuna critica è rivolta specificamente all’affermazione della Corte che la stessa non è richiesta quando le contestazioni mosse attengono alla violazione dei doveri fondamentali come quelli della fedeltà, del rispetto e di tutela del patrimonio del datore di lavoro e che lo stesso ricorrente conviene sulla irrilevanza del codice disciplinare rispetto ai comportamenti contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, tra i quali non può escludersi che ricada il contegno addebitato . La Corte quindi rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. lavoro, sentenza 7 febbraio – 17 aprile 2018, n. 9420 Presidente Napoletano – Relatore Arienzo Fatti di causa Con sentenza resa il 22.12.2015, la Corte di appello di Napoli respingeva il reclamo proposto avverso la decisione del Tribunale di Napoli che aveva rigettato l’opposizione proposta da G.A. avverso l’ordinanza, emessa in fase sommaria, con la quale era stata ritenuta la legittimità del licenziamento disciplinare intimato al predetto, quale responsabile del punto vendita n. omissis , dalla società Salmoiraghi & amp Viganò, sul rilievo che non era sussistente la dedotta discrasia tra la lettera di contestazione disciplinare del 25.9.2013 e missiva di licenziamento del 30.10.2013, atteso che le violazioni ascritte non erano state contestate in quanto commesse direttamente dal predetto, ma a lui imputate per avere omesso di garantire l’applicazione delle procedure aziendali e per la violazione di obblighi contrattuali derivanti dall’inquadramento professionale e dalle mansioni assegnate omesso controllo del personale e non corretta gestione del negozio, a prescindere da chi avesse materialmente commesso il fatto, - culpa in vigilando, con riferimento al ruolo rivestito dal reclamante nel negozio . La Corte riteneva che non si fosse trattato di un solo comportamento negligente, ma di una somma di condotte superficiali, negligenti e non rispettose delle procedure aziendali, rivelatrici di un reiterato e permanente atteggiamento inosservante dell’obbligo di vigilanza sull’attività aziendale, per cui doveva essere disattesa la doglianza, intesa a rilevare l’illegittimità del licenziamento, fondata sulla previsione da parte del c.c.n.l. del fatto contestato tra quelli sanzionati con una misura conservativa. Doveva, poi, respingersi anche l’ulteriore censura relativa alla mancata affissione del codice disciplinare, per essere il recesso riconducibile a ragioni giustificative previste direttamente dalla legge. Per la cassazione di tale decisione ricorre il G. , affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la società. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo, vengono denunziate violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in ordine alla interpretazione della lettera di contestazione disciplinare del 25.9.2013, e violazione,e/o falsa interpretazione dell’art. 7, comma 2, l. 300/70 e dell’art. 5 l. 604/1966, rilevandosi che l’interpretazione fornita dalla Corte si discosti dal significato letterale e dal senso fatto palese dalle parole e frasi utilizzate nella lettera, contrastando con i canoni legali di ermeneutica contrattuale ed anche con criteri di interpretazione globale e sistematica applicabili pure agli atti unilaterali. Si assume che dalla lettura di contestazione si evinceva che la commissione dei presunti fatti fosse stata addebitata al G. quale autore degli stessi e che gli addebiti fossero stati considerati ancor più gravi in ragione del suo ruolo di capo negozio, emergendo ciò inequivocamente dall’espressione contenuta in missiva con riguardo al richiamo al ruolo apicale solo per connotare la gravità della condotta e non emergendo alcun riferimento alla omessa vigilanza o controllo nei confronti di altri addetti al punto vendita. A ciò doveva conseguire che, in relazione al principio di immutabilità della contestazione, non potevano essere poste a sostegno del licenziamento circostanze nuove rispetto a quelle contestate, con conseguente illegittimità del licenziamento intimato, non potendosi ritenere che i fatti contestati fossero stati posti in essere dal G. , mancando ogni ulteriore specificazione idonea a connotare a titolo di colpa o dolo l’inadempimento ascritto al predetto. 2. Con il secondo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 1, I. 300 del 1970, nonché violazione dell’art. 226, comma 1, Codice disciplinare del c.c.n.l. per i dipendenti da aziende del terziario della distribuzione di servizi , per avere la Corte ritenuto non configurabile a carico dell’azienda un onere di preventiva pubblicizzazione della normativa disciplinare in rapporto ad illeciti relativi alla violazione di prescrizioni strettamente attinenti all’organizzazione aziendale, realizzandosi attraverso la norma disciplinare il collegamento della sanzione al fatto, oltre a circoscriversi il campo di inadempimento sanzionabile. Si rileva che l’argomentazione riferita alla conoscenza da parte del G. della Job description, relativa alle procedure aziendali cui lo stesso doveva attenersi, fosse in contrasto con il disposto dell’art. 226, comma 1, c.c.n.l., che prevedeva l’affissione del codice disciplinare, e che non fosse possibile provvedervi mediante misura equipollente, senza considerare che la job description non era stata personalmente consegnata al G. con sua sottoscrizione. 3. Con il terzo motivo, ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., dell’art. 4 I. 300/70 e violazione e falsa applicazione dell’art. 225 provvedimenti disciplinari del ccnl di riferimento sono ascritte alla decisione impugnata, per essere la stessa in contrasto con quanto stabilito dall’art. 18, comma 4, L. 300/70 per l’ipotesi in cui il fatto rientri tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, ovvero dei codici disciplinari applicabili, stante l’espressa previsione della sanzione della multa per l’ipotesi di esecuzione con negligenza del lavoro affidato. 4. Con il quarto motivo, si denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 c.c., adducendosi che la valutazione della gravità del fatto debba essere effettuata con riferimento ad aspetti concreti afferenti alla natura e qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni, e che nella specie doveva conferirsi rilievo ai fini considerati alla circostanza che il G. non era stato dotato di potere disciplinare e di controllo nei confronti degli altri addetti al punto vendita ed al fatto che le operazioni di apertura e chiusura cassa potevano essere fatte da tutti gli operatori presenti in negozio. 5. Il primo motivo deve essere disatteso, osservandosi, in primo luogo, che nell’interpretazione degli atti unilaterali, il canone ermeneutico di cui all’art. 1362, primo comma, cod. civ., impone di accertare - mancando una comune intenzione delle parti esclusivamente l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, ferma l’applicabilità, atteso il rinvio operato dall’art. 1324 cod. civ., del criterio dell’interpretazione complessiva dell’atto e senza che possa farsi ricorso alla valutazione del comportamento dei destinatari di esso cfr. Cass. 14.11.2013 n. 25608 . Vanno, poi, ribaditi i principi reiteratamente affermati da questa Corte, secondo cui, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei canoni legali d’interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e seguenti c.c. Ne consegue che il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali cfr. Cass. 10.2.2015 n. 2465, conf. Cass. 26.5.2016 n. 10891 , con l’ulteriore precisazione che la parte che ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola contrattuale, non può contestare in sede di giudizio di legittimità la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice del merito Cass. 15.11.2017 n. 27136 . 6. Nella specie le condotte ascritte al G. ammanco di cassa di Euro 113,80, mancato rispetto del limite del fondo cassa, riscontrata presenza di due Work orders aperti a sistema senza la presenza fisica del prodotto, mancato rispetto delle procedure aziendali nel negozio di cui il G. era responsabile, ordini di riparazione aperti senza riscontro dei prodotti da riparare e del relativo pagamento da parte dei clienti, effettuazione di richiesta di rettifica amministrativa avente ad oggetto il carico presso il punto vendita di merce proveniente da altri ottici e contestuale scarico di altrettanti prodotti della società a seguito di omaggi, ammanco di 30 montature di occhiali risultano descritte, nella lettera quale trascritta in ricorso, nella loro - oggettività, in rapporto alla deviazione dalla procedure aziendali ed alla constatazione di un omesso controllo delle merce presente in magazzino, con riferimento ai dati risultanti dalla contabilità del negozio. Ciò rende ragione del riferimento contenuto di seguito al ruolo di responsabile del punto vendita del G. , alla particolare responsabilità ed ai doveri di verifica e di osservanza delle procedure connessi all’inquadramento ed alla qualifica rivestiti, risultando pertanto coerente, logica e congrua l’interpretazione della lettera di contestazione degli addebiti fornita dal giudice del gravame, alla quale viene contrapposta una diversa opzione ermeneutica senza che emerga la dedotta violazione dei canoni legali. 7. Il secondo e terzo motivo scontano in termini di relativa ammissibilità e procedibilità il mancato deposito del c.c.n.l., in relazione alle censure connesse alla ritenuta violazione delle norme contrattuali, ponendosi ciò in dispregio dei principi reiteratamente affermati da questa Corte, secondo cui, in tema di giudizio per cassazione, l’onere del ricorrente, di cui all’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c., come modificato dall’art. 7 del d.lgs. n. 40 del 2006, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, munita di visto ai sensi dell’art. 369, comma 3, c.p.c., ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, n. 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi cfr. Cass. 11.1.2016 n. 195, Cass. 3.11.2011 n. 22726 . In ogni caso, anche il rilievo della mancata consegna della Job description al G. , che non ne aveva sottoscritto il testo ricevuto si risolve in una mera allegazione di fatto, inammissibile nella presente sede ed inidonea a scalfire le argomentazioni esposte al riguardo in sentenza. 8. Per le ulteriori censure negli stessi motivi formulate, si rileva, quanto alla mancata affissione del codice disciplinare, che nessuna critica è rivolta specificamente all’affermazione della Corte che la stessa non è richiesta quando le contestazioni mosse attengono alla violazione dei doveri fondamentali come quelli della fedeltà, del rispetto e di tutela del patrimonio del datore di lavoro e che lo stesso ricorrente conviene sulla irrilevanza del codice disciplinare rispetto a comportamenti contrari agli interessi dell’impresa o dei lavoratori, tra i quali non può escludersi che ricada il contegno addebitato. Anche l’inclusione della condotta addebitata tra i comportamenti sanzionati col licenziamento non è idoneamente contrastata dal ricorrente, che come già detto, ha omesso di depositare il c.c.n.l. e non ha contrastato l’affermazione della Corte secondo cui, in ogni caso, la condotta non era tale da integrare il comportamento meramente negligente, suscettibile di essere sanzionato con la multa, dovendo essere valorizzato il contegno permanente e reiterato di inosservanza dell’obbligo di vigilanza dell’attività aziendale, con riferimento non solo al rispetto di procedure obbligatoriamente previste, ma a comportamenti illeciti. 9. Infine, la censura prospettata nel quarto motivo non scalfisce l’impianto argomentativo che sostiene in parte qua il decisum ed in ogni caso, la Corte territoriale, con adeguata argomentazione, ha operato la valutazione di gravità alla luce degli standards specifici, desunti dalla realtà aziendale e dalle sue regole, nonché dalle nozioni e dai valori generalmente condivisi. Ha, infatti, esaminato la condotta alla luce del parametro dei doveri di controllo e di verifica in ordine alla osservanza delle procedure aziendali facenti capo al responsabile del negozio e connessi alle stesse mansioni svolte dal G. , ed ha argomentato che i comportamenti apparivano coerenti rispetto alla contestazione nella loro portata oggettiva, essendo caratterizzati dalla gravità che connota le condotte che legittimano il licenziamento proprio per la loro valenza di consapevole contrasto alle direttive aziendali. 10. Il ricorso va, pertanto, complessivamente rigettato. 11. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo. 12. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il G. al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R