L’associazione in partecipazione non si configura in assenza del rischio d’impresa

Affinché un rapporto di lavoro possa qualificarsi come associazione in partecipazione con apporto di lavoro, è necessario che tale rapporto non abbia le caratteristiche proprie del contratto di lavoro subordinato e che dunque l’associato partecipi sia agli utili che alle perdite dell’impresa.

Così la Corte di Cassazione con ordinanza n. 4219/18, depositata il 21 febbraio. Il caso. La Corte d’Appello di Catania nel rigettare l’impugnazione proposta dal datore di lavoro confermava la qualificazione del rapporto di lavoro di alcune lavoratrici quale rapporto di tipo subordinato anziché di associazione in partecipazione. Avverso la sentenza della Corte distrettuale il datore di lavoro ricorre per cassazione denunciando l’esistenza di un rapporto di associazione in partecipazione in ragione della partecipazione delle lavoratrici ai soli utili dell’impresa. Il criterio della prevalenza. Il Supremo Collegio, sulla base di consolidati orientamenti giurisprudenziali, sottolinea che la riconducibilità di un rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa o al contratto di lavoro subordinato con retribuzione esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti laddove, il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio d’impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche alle perdite . La subordinazione. Nel caso di specie, il rapporto lavorativo risultava caratterizzato dall’inesistenza del rischio d’impresa, dall’assenza di partecipazione ad assemblee o alla distribuzione di dividendi e dalla percezione di somme mensili. La Suprema Corte, dunque, ritiene che la Corte territoriale ha avuto modo di appurare la realtà del concreto atteggiarsi del rapporto contrattuale, finendo per qualificarlo, con motivazione esente da vizi di ordine logico e giuridico ed alla luce dei riscontrati indici della subordinazione, come rapporto di lavoro subordinato . La Corte quindi rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 18 ottobre 2017 – 21 febbraio 2018, n. 4219 Presidente D’Antonio – Relatore Berrino Rilevato in fatto che la Corte d’appello di Catania sentenza del 4.8.2011 ha rigettato l’impugnazione proposta dalla società S. produzioni s.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro tempore dr. S.V., avverso la sentenza del Tribunale di Siracusa che aveva respinto la domanda proposta dalla suddetta società, con cui si chiedeva di dichiararsi inesistente o comunque non provato un contratto di lavoro subordinato tra la società ricorrente è le signore C.G., T.A., N.R. e C.C. che la Corte territoriale, nel rigettare l’appello, ha condiviso la conclusione del Tribunale secondo il quale nella specie non sussistevano i presupposti necessari che giustificavano l’inquadramento dei rapporti in oggetto nell’ambito della fattispecie dell’associazione in partecipazione, stante l’inesistenza del requisito indefettibile del rischio d’impresa in capo alle lavoratrici, e che ricorrevano, invece, gli elementi tipici della subordinazione che per la cassazione della sentenza ricorre la società S. produzioni s.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, dott. V. S., con due motivi che resistono con controricorso l’Assessorato Regionale del Lavoro e della Previdenza Sociale, della Formazione Professionale e dell’Emigrazione Ispettorato Provinciale del Lavoro Siracusa della Regione Sicilia, e l’INPS. Considerato in diritto che col primo motivo, dedotto per violazione ed errata applicazione dell’art. 2549 cod. civ., la ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’appello secondo la quale la partecipazione ai soli utili dell’impresa e non anche alle perdite, così come la presenza di direttive da parte dell’impresa, rappresentavano dei dati di fatto incompatibili con la figura del contratto di associazione in partecipazione e che, pertanto, un rapporto che avesse avuto tali caratteristiche avrebbe dovuto essere qualificato come contratto di lavoro subordinato che diversamente, secondo la ricorrente, la contropartita dell’attribuzione all’associato della partecipazione agli utili dell’impresa poteva essere rappresentata anche da una prestazione di lavoro da parte di quest’ultimo, per cui in tal caso si giustificava egualmente la partecipazione ai soli utili e non anche alle perdite, così come le direttive non dovevano riconnettersi automaticamente ad un potere gerarchico, potendo essere compatibili con le esigenze di coordinamento dell’attività commerciale che vedeva coinvolto anche l’associato che col secondo motivo, formulato per vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., la ricorrente assume che la Corte d’appello era incorsa in errore nel ritenere che si fosse in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, senza nemmeno trarne la logica conseguenza per la quale la ritenuta apparenza del contratto di associazione in partecipazione, realmente stipulato, avrebbe dovuto tradursi nell’affermazione dell’esistenza di una qualche forma di simulazione ad opera delle parti contraenti, mentre una tale logica conclusione non era contenuta nell’impugnata sentenza che i due motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati che, invero, questa Corte ha già avuto modo di statuire Cass. Sez. Lav. n. 1692 del 29.1.2015 che la riconducibilità del rapporto di lavoro al contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato ovvero al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili, esige un’indagine del giudice di merito volta a cogliere la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del concreto rapporto, degli elementi che caratterizzano i due contratti, tenendo conto, in particolare, che, mentre il primo implica l’obbligo del rendiconto periodico dell’associante e l’esistenza per l’associato di un rischio di impresa, il secondo comporta un effettivo vincolo di subordinazione più ampio del generico potere dell’associante di impartire direttive e istruzioni al cointeressato, con assoggettamento al potere gerarchico e disciplinare di colui che assume le scelte di fondo dell’organizzazione aziendale che si è, altresì, precisato Cass. Sez. Lav. n. 1817 del 28.1.2013 che in tema di contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell’associato, l’elemento differenziale rispetto al contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili d’impresa risiede nel contesto regolamentare pattizio in cui si inserisce l’apporto della prestazione da parte dell’associato, dovendosi verificare l’autenticità del rapporto di associazione, che ha come elemento essenziale, connotante la causa, la partecipazione dell’associato al rischio di impresa e alla distribuzione non solo degli utili, ma anche delle perdite. Pertanto, laddove è resa una prestazione lavorativa inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza ingerenza ovvero controllo dell’associato nella gestione dell’impresa stessa, si ricade nel rapporto di lavoro subordinato in ragione di un generale favor accordato dall’art. 35 Cost., che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni che in coerenza a tali principi e svolgendo un’adeguata indagine di fatto sulla base del materiale istruttorio attentamente valutato, la Corte territoriale ha avuto modo di appurare quanto segue che era risultato inesistente il requisito del rischio di impresa in capo alle quattro lavoratrici di cui sopra che queste ultime ricevevano delle somme mensili e a fine anno veniva loro erogata una somma in più, tenendosi conto di una certa percentuale sugli utili del punto vendita che la partecipazione al rischio d’impresa era pacificamente esclusa, essendovi per le suddette lavoratrici la garanzia di guadagno relativamente alle somme loro corrisposte mensilmente che le medesime erano sottoposte al potere direttivo gerarchico e disciplinare datoriale, dovendo giustificare eventuali assenze per malattia, dovendo chiedere l’autorizzazione per assentarsi dal lavoro e dovendo rispettare un orario di lavoro, nonché l’obbligo di essere presenti in negozio, senza possibilità di autodeterminarsi diversamente che ricevevano la tredicesima, seppure spalmata nei ratei mensili, nonché gli emolumenti a titolo di lavoro straordinario svolto che non avevano mai partecipato ad alcuna riunione od assemblea riguardante la gestione dell’impresa, né a quelle relative ai bilanci annuali che non avevano mai partecipato alla distribuzione di eventuali dividendi, né ad alcuna attività sociale che permettesse loro di controllare l’andamento effettivo delle vendite e degli utili d’impresa che, in definitiva, le censure della ricorrente non scalfiscono la validità degli accertamenti di fatto eseguiti dalla Corte territoriale la quale ha avuto modo di appurare la realtà del concreto atteggiarsi del rapporto contrattuale, finendo per qualificarlo, con motivazione esente da vizi di ordine logico e giuridico ed alla luce dei riscontrati indici della subordinazione, come rapporto di lavoro subordinato, rispetto al quale trovava giustificazione la pretesa contributiva dell’istituto di previdenza che, pertanto, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, in base al generale principio della soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorsa. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore di ognuno dei controricorrenti nella misura di Euro 3200,00, di cui Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.