Risarcibile il danno cagionato al lavoratore per straining

Lo stress forzato inflitto al lavoratore dal superiore gerarchico configura una forma attenuata di mobbing definita straining, che giustifica la pretesa risarcitoria ex art. 2087 c.c. Tutela delle condizioni di lavoro .

Così la Corte di Cassazione con ordinanza n. 3977/18, depositata il 19 febbraio. Il caso. La Corte d’Appello di Brescia rigettava l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca avverso la sentenza del Tribunale della medesima città con cui veniva parzialmente accolta la domanda di risarcimento avanzata da un'insegnante dichiarata inidonea all’insegnamento ed assegnata alla segreteria scolastica. La Corte distrettuale rilevava infatti che le condotte poste in essere dal dirigente scolastico nei confronti della dipendente, tra cui la sottrazione degli strumenti di lavoro ed infine la privazione di ogni mansione, costituissero un’ipotesi di straining , ossia uno stress forzato ed inflitto alla vittima dal superiore gerarchico. Avverso la sentenza della Corte distrettuale il Ministero ricorre per cassazione denunciando che lo straining non costituisca una categoria giuridica, essendo una fattispecie controversa anche all’interno della medicina legale. Lo straining. Il Supremo Collegio nega che il Giudice di merito sia incorso in ultra o extra petizione, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., attraverso l’utilizzo della nozione di straining anziché di mobbing , perché lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie” azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c. . Difatti, la Corte distrettuale ha correttamente applicato tale principio, evidenziando altresì che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti . Pertanto la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 22 novembre 2017 – 19 febbraio 2018, n. 3977 Presidente Napoletano – Relatore Di Paolantonio Fatto e diritto Rilevato che 1. la Corte di Appello di Brescia ha rigettato l’appello proposto dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva parzialmente accolto il ricorso di D.S.M. e condannato il Ministero al risarcimento del danno cagionato alla dipendente, quantificato in complessivi Euro 15.329,08 2. la Corte territoriale, premesso che la D.S. , dichiarata inidonea all’insegnamento, era stata assegnata alla segreteria della scuola , ha evidenziato che era sorta tensione con la dirigenza scolastica allorquando l’appellata aveva rappresentato che occorreva ulteriore personale per l’espletamento dei servizi amministrativi 3. alle rimostranze della D.S. il dirigente scolastico aveva reagito sottraendole gli strumenti di lavoro attribuendole mansioni didattiche, sia pure in compresenza con altri docenti, nonostante l’accertata inidoneità privandola, infine, di ogni mansione e lasciandola totalmente inattiva 4. la Corte territoriale, richiamando le conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio disposta dal Tribunale, ha evidenziato che la condotta, seppure non propriamente mobbizzante, integrava un’ipotesi di straining, ossia di stress forzato deliberatamente inflitto alla vittima dal superiore gerarchico con un obiettivo discriminatorio 5. il giudice di appello ha escluso che la diversa qualificazione data alle azioni allegate e provate nel giudizio di primo grado implicasse una violazione del principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto e pronunciato, perché non compete al ricorrente la qualificazione medico-legale della fattispecie ritenuta produttiva di danno risarcibile 6. infine la Corte territoriale ha ritenuto provato il nesso causale fra le condotte denunciate ed il danno biologico di natura temporanea ed ha condiviso la liquidazione effettuata dal Tribunale sulla base delle indicazioni fornite dal consulente tecnico d’ufficio 7. avverso tale sentenza il MIUR ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, ai quali D.S.A. , ritualmente intimata, non ha opposto difese. Considerato che 1. con il primo motivo il Ministero denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. e degli artt. 1218, 2043, 2059, 2087, 2697 cod. civ. perché la Corte territoriale non si è limitata ad applicare una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte bensì ha creato una nuova fattispecie a cui ha ricollegato in maniera arbitraria ed apodittica conseguenze proprie di altra fattispecie giuridica 1.1 il Ministero aggiunge che il cosiddetto straining non costituisce una categoria giuridica ed anche in medicina legale la sua configurabilità è controversa sicché, una volta escluse la sistematicità e la reiterazione dei comportamenti vessatori, non vi è spazio per l’accoglimento della domanda risarcitoria 2. la seconda critica, formulata sempre ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., addebita alla sentenza impugnata la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 2059, 2087, 2697 cod. civ. perché, in presenza di una categoria sconosciuta alla dottrina e dalla giurisprudenza, i giudici del merito avrebbero quantomeno dovuto fornire una giustificazione della scelta di dare rilevanza giuridica allo straining e non limitarsi ad aderire acriticamente alle conclusioni espresse dal CTU 3. la medesima rubrica il Ministero antepone alla terza censura, con la quale contesta la valutazione espressa dalla Corte territoriale sulla natura vessatoria degli atti posti in essere dal dirigente scolastico ed evidenzia che quest’ultimo, in presenza di una riscontrata inefficienza del servizio, del tutto ragionevolmente aveva ritenuto di utilizzare altra dipendente che potesse garantire in modo adeguato lo svolgimento delle mansioni amministrative 4. la violazione delle norme sopra richiamate è denunciata anche con il quarto motivo, che censura la sentenza gravata per avere acriticamente recepito le conclusioni espresse dal consulente tecnico d’ufficio il quale, erroneamente, aveva ritenuto di dovere equiparare l’accertamento e la quantificazione dei pregiudizi derivanti dallo straining a quelli cagionati da mobbing 5. i motivi di ricorso, che per la loro stretta connessione logico-giuridica possono essere unitariamente trattati, sono infondati per le ragioni già esposte da questa Corte con la sentenza n. 3291 del 19 febbraio 2016, pronunciata in fattispecie non dissimile da quella oggetto di causa 5.1. con la richiamata decisione si è premesso che il vizio di ultra o extra petizione ricorre solo qualora il giudice pronuncia oltre í limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, non già allorquando venga diversamente qualificata la domanda o vengano poste a fondamento della pronuncia considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate dalle parti 5.2. si è, quindi, evidenziato che non integra violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. l’avere utilizzato la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing perché lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 cod. civ. 5.3. al principio di diritto enunciato il Collegio intende dare continuità perché dell’art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo fornito un’interpretazione estensiva, costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. 5.4. l’ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l’obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell’ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona 5.5. la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l’evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all’inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell’esercizio dei diritti 5.6. a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale che ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la D.S. era stata oggetto di azioni ostili, puntualmente allegate e provate nel giudizio di primo grado, consistite nella privazione ingiustificata degli strumenti di lavoro, nell’assegnazione di mansioni non compatibili con il suo stato di salute ed infine nella riduzione in una condizione umiliante di totale inoperosità pag. 8 della sentenza impugnata 5.7. il ricorso, nella parte in cui censura la valutazione della prova testimoniale e della consulenza tecnica d’ufficio è inammissibile perché, pur denunciando la violazione delle norme di legge richiamate nella rubrica dei motivi, tende a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze processuali e, quindi, un giudizio di merito non consentito alla Corte di legittimità 6. la mancata costituzione della D.S. esime dal provvedere sulle spese del giudizio di legittimità 6.1. non sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, perché la norma non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.