L’offerta di nuove collocazioni non elimina il demansionamento

Il danno da demansionamento non è in re ipsa ma deve essere provato dal lavoratore mediante dati oggettivi.

Un periodo di non breve durata del demansionamento, la mortificazione sul piano professionale e dell’immagine che ne sono derivati, l’estromissione del dipendente dal contesto ambientale e l’allontanamento dai settori aziendali più strategici sono indici sufficienti e sintomatici per formare il convincimento del giudice e giustificare una condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno, senza che l’offerta dell’azienda di una diversa collocazione e il rifiuto del lavoratore incidano sulla valutazione in merito sussistenza del demansionamento. È quanto emerge dalla sentenza della Corte di Cassazione, n. 27209/17 depositata il 16 novembre. Il caso. La Corte d’Appello di Venezia ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stato accertato il demansionamento subito da una lavoratrice per quasi 4 anni con conseguente condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno alla professionalità, mentre era stato escluso il diritto al risarcimento del danno biologico. In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto che dalle risultanze probatorie acquisite al giudizio emergeva la riduzione dei compiti assegnati alla lavoratrice, sia sul piano qualitativo, per il venir meno delle funzioni di coordinamento di un intero settore, precedentemente affidatele, sia sul piano quantitativo, posto che le nuove funzioni erano quasi del tutto prive di un reale contenuto e l’avevano portata a lunghi periodi di inattività. Con ricorso per cassazione, tra le varie, l’azienda ha lamentato che la sentenza impugnata, pur avendo ritenuto che il danno derivante dalla violazione dell’art. 2103 c.c. non fosse in re ipsa ma potesse e dovesse essere dimostrato mediante dati oggettivi, aveva tuttavia omesso di acquisire tra gli elementi del giudizio proprio quegli indici oggettivi che l’avrebbero condotta ad una diversa decisione e, cioè, nello specifico l’offerta dell’azienda di una diversa collocazione e il rifiuto della lavoratrice. Quest’ultimo, peraltro, avrebbe quantomeno dovuto incidere ai fini di una riduzione del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c La valutazione complessiva degli elementi oggettivi del licenziamento. La Suprema Corte ha confermato la sentenza di secondo grado, ritenendo corretta la valutazione effettuata dalla Corte territoriale che ha tenuto presenti, ed espressamente valutato ai fini della formazione del proprio convincimento, tutti gli elementi di fatto emersi nel corso dell’istruttoria, sia con riferimento alle condotte aziendali sia per quel che riguarda l’atteggiamento ed il comportamento tenuti dalla lavoratrice. A differenza di quanto lamentato dal datore di lavoro, secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello ha preso in esame sia la circostanza dell’offerta di una nuova collocazione da parte del datore di lavoro sia il rifiuto espresso dalla lavoratrice. Altrettanto correttamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto che il rifiuto della lavoratrice non possa in alcun modo incidere sulla responsabilità del datore di lavoro per violazione dell’art. 2103 c.c., né costituisca condotta colposa della lavoratrice che giustifichi una riduzione del risarcimento del danno in applicazione del principio del concorso di colpa disciplinato dall’art. 1227 c.c Il danno biologico. La sentenza in commento offre lo spunto per fare il punto dello stato della giurisprudenza in tema di danno biologico conseguente o comunque connesso al demansionamento. La Suprema Corte ha ribadito che ai fini della liquidazione del danno biologico è necessario che il lavoratore fornisca la prova sia del demansionamento sia della conseguente compromissione dello stato di salute del lavoratore, anche mediante la produzione in giudizio di documenti sanitari di qualificata esperienza e mediante la prova testimoniale.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 15 giugno – 16 novembre 2017, n. 27209 Presidente Nobile – Relatore Negri Della Torre Fatti di causa Con sentenza n. 490/2011, depositata il 26 agosto 2011, la Corte di appello di Venezia, rigettati l’appello principale di Poste Italiane S.p.A. e incidentale di S.A. , confermava la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale di Venezia, in parziale accoglimento del ricorso della lavoratrice, aveva accertato l’avvenuto demansionamento della stessa dal gennaio 2002 al 30 maggio 2006, escluso il periodo ottobre 2002-marzo 2003, e condannato la società al risarcimento del conseguente danno da dequalificazione professionale nella misura di una mensilità di retribuzione di fatto per ogni mese in cui il demansionamento si era protratto. La Corte osservava, quanto alla dequalificazione, come le risultanze probatorie acquisite al giudizio dimostrassero che la lavoratrice aveva subito una riduzione dei compiti che le erano stati in precedenza assegnati, sia sul piano qualitativo, per il venir meno delle funzioni di coordinamento di un intero settore la Sezione Assegni del CUAS di Mestre , con le connesse responsabilità, sia anche sul piano quantitativo, posto che le nuove funzioni, alle quali era stata adibita, avevano fatto sì che trascorresse lunghi periodi di inattività. Con riferimento, poi, al danno di natura professionale, la Corte faceva proprie le considerazioni del giudice di primo grado, il quale aveva tratto dalle circostanze accertate in giudizio precisi e concreti elementi di fatto da cui desumere la sussistenza del pregiudizio in questione, escludendo peraltro la configurabilità di un comportamento colposo della dipendente, suscettibile di valutazione ex art. 1227 c.c., e confermando una commisurazione dell’ammontare risarcitorio all’intero periodo dedotto in causa, compreso quello riferibile ad assenze per malattia, in forza della natura permanente dell’illecito e dei relativi effetti. Quanto, infine, al risarcimento del danno biologico, la Corte osservava come la S. avesse allegato solo genericamente l’esistenza di patologie dipendenti dalla dequalificazione, secondo quanto risultava dall’esame del ricorso introduttivo, ove era un riferimento sommario a cure psichiatriche e all’assunzione di farmaci. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza Poste Italiane S.p.A. con quattro motivi la lavoratrice ha resistito con controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale, affidato ad unico motivo, a cui ha resistito la società con controricorso. Ragioni della decisione Con il primo motivo la società ricorrente, deducendo insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, censura la sentenza impugnata per non avere la Corte di appello tenuto conto di elementi di giudizio contrari a quelli posti a fondamento della decisione e cioè del fatto che, come confermato la responsabilità di una squadra di lavoro, essendosi avvalsa dalla collaborazione di due impiegate, e che, nel mese di gennaio 2002, avesse ancora la gestione di tredici risorse. Il motivo è inammissibile. Come ripetutamente precisato da questa Corte, il ricorso per cassazione - in ragione del principio di autosufficienza” - deve contenere in sé tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi od atti attinenti al pregresso giudizio di merito. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui, con il ricorso per cassazione, venga dedotta l’incongruità, l’insufficienza o contraddittorietà della sentenza impugnata per l’asserita mancata valutazione di risultanze processuali, è necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata o insufficientemente valutata , che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti cfr., fra le molte, Cass. n. 12362/2006 . La ricorrente invece, pur evocando - a sostegno della censura espressa con il motivo in esame - anche le risultanze delle deposizioni dei testi indotti dalla propria controparte, si è limitata a trascrivere parzialmente i verbali contenenti le dichiarazioni di due soltanto delle testimonianze assunte. D’altra parte, come egualmente più volte precisato da questa Corte nel regime anteriore alla novella del 2012, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 n. 5 c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione cfr., fra le molte, Cass. n. 6288/2011 . Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere accolto la domanda risarcitoria conseguente alla lamentata dequalificazione nonostante che dall’esame delle deposizioni testimoniali acquisite al giudizio risultasse evidente che la oratrice, successivamente alla riorganizzazione del settore di appartenenza, avesse svolto funzioni equivalenti, nei sensi precisati dalla giurisprudenza di legittimità, a quelle in precedenza assegnatele. Il motivo è inammissibile sia perché si risolve - dietro lo schermo della denuncia del vizio ex art. 360 n. 3 con riferimento all’art. 2697 c.c. e agli artt. 115 e 116 c.p.c. - in una critica di ordine motivazionale alla sentenza impugnata, così che è da ritenere che valgano per esso le medesime considerazioni già svolte a proposito del primo motivo sia perché, sebbene denunci la violazione dell’art. 2103 c.c., non contiene - diversamente da quanto richiede l’osservanza del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione la specifica indicazione delle affermazioni in diritto rinvenibili nella sentenza impugnata che si reputano in contrasto con la norma di diritto citata o con l’interpretazione di essa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così precludendo alla Corte di legittimità di verificare il fondamento della violazione dedotta e di assolvere il compito che le è proprio cfr., fra le molte, Cass. n. 14832/2007 . Con il terzo motivo la società ricorrente deduce insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, sul rilievo che la sentenza impugnata, pur avendo ritenuto che il danno derivante dalla violazione dell’art. 2103 c.c. non fosse in re ipsa ma potesse essere dimostrato mediante dati oggettivi , aveva, tuttavia, omesso di acquisire tra gli elementi del giudizio proprio quegli indici oggettivi che l’avrebbero condotta, anche sul punto, ad una decisione diversa di esclusione del danno in questione o di una sua quantificazione in misura largamente inferiore . Il motivo è infondato. Si deve infatti osservare che, ben diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la Corte di merito ha tenuto presenti, ed espressamente valutato ai fini della formazione del proprio convincimento, tutti gli elementi di fatto che si indicano come da essa trascurati in particolare, la Corte ha preso in esame sia la circostanza dell’offerta alla S. di nuove collocazioni, sia quella del rifiuto della lavoratrice di accettarle cfr. sentenza, p. 16 . Non viene, d’altra parte, spiegata la decisività dell’avvenuto trasferimento a Padova, nel giugno 2006, in relazione al demansionamento realizzatosi dal gennaio 2002 fino al 30 maggio precedente mentre l’affermazione della Corte, per la quale il risarcimento deve essere parametrato all’intero periodo di dequalificazione, compresi i periodi di assenza della lavoratrice per malattia, e ciò sul rilievo della natura permanente dell’illecito e degli effetti risarcitori p. 17 , configura essenzialmente una questione di diritto, deducibile quale vizio di violazione di legge. Con il quarto motivo, denunciando violazione e falsa applicazione di varie norme del Codice civile artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 2103, 2697 , nonché degli artt. 115 e 116 c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte riconosciuto alla S. il danno conseguente al demansionamento, peraltro svolgendo, nella sostanza, critiche di ordine motivazionale e omettendo di indicare specificamente le affermazioni in diritto che si porrebbero in contrasto con le norme richiamate ciò che riconduce alle ragioni di inammissibilità già precisate in relazione al secondo motivo. Ne consegue che il ricorso principale deve essere respinto. È invece fondato, e deve essere accolto, il ricorso incidentale, con cui la lavoratrice, deducendo insufficiente/omessa motivazione, si duole del rigetto della propria domanda di condanna al risarcimento del danno biologico, avendo la Corte erroneamente ritenuto generiche le allegazioni relative all’esistenza di patologie, permanenti o temporanee, dipendenti dalla dequalificazione. La Corte di appello è invero pervenuta ad una conclusione sommaria e ingiustificata, che non tiene conto né della pluralità e specificità delle circostanze di fatto allegate dalla lavoratrice nel proprio atto introduttivo circostanze poi riproposte in sede di memoria difensiva nel giudizio di secondo grado contenente appello incidentale , tali da delineare un quadro di emarginazione e isolamento aziendale né dei documenti sanitari prodotti, anche di qualificata provenienza, da cui emergeva uno stato ansioso-depressivo collegato ad una situazione lavorativa avversa né delle dichiarazioni dei testi, che avevano riferito della difficile condizione personale e professionale della S. nell’ambiente di lavoro presso il CUAS di Mestre. La sentenza n. 490/2011 della Corte di appello di Venezia deve, pertanto, essere cassata, in accoglimento del ricorso incidentale, e la causa rinviata, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla medesima Corte in diversa composizione, la quale procederà a nuovo e più completo esame della domanda di condanna di Poste Italiane al risarcimento del danno biologico conseguente all’accertata dequalificazione, in particolare prendendo in considerazione le circostanze di fatto allegate, i documenti prodotti e le risultanze delle prove testimoniali e dando ingresso, in esito a tale esame, ad eventuali approfondimenti e verifiche di natura medico-legale. P.Q.M. La Corte respinge il ricorso principale accoglie il ricorso incidentale cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Venezia in diversa composizione