Opzione al rispetto del patto di non concorrenza

Quando, al termine del rapporto di lavoro, il datore sceglie di non dare corso al patto di non concorrenza, liberando dai relativi divieti il lavoratore, si configura un’opzione e non un recesso unilaterale dal patto di concorrenza medesimo.

Così ha deciso la Corte di Cassazione con l’ermetica sentenza n. 25462/17, depositata il 26 ottobre. Il patto di non concorrenza In cambio di formazione professionale, una lavoratrice aveva concesso alla società datrice di lavoro un’opzione irrevocabile al rispetto del patto di non concorrenza, da esercitare entro 30 giorni dalla cessazione del rapporto. Il datore di lavoro non esercitava l’opzione e, di conseguenza, non versava alla lavoratrice l’indennità prevista dal patto di non concorrenza. Scaturiva un lungo contenzioso in cui i giudici di merito dichiaravano la nullità del patto di non concorrenza, con conseguente diritto della lavoratrice a percepire la relativa indennità. Opzione o recesso unilaterale? La questione giungeva sino alla Corte di Cassazione chiamata anche a qualificare un siffatto accordo. Secondo la società datrice di lavoro, i giudici di merito avevano errato nel qualificare l’accordo delle parti come recesso unilaterale in un contratto di prestazioni continuative e non come un’opzione. Secondo la Corte territoriale, infatti, il patto di non concorrenza era affetto da nullità poiché completamente sbilanciato a favore del datore di lavoro che avrebbe avuto il potere di caducare il patto in qualsiasi momento, vale a dire sia in costanza di rapporto che dopo la conclusione dello stesso. Si trattava quindi di un recesso unilaterale liberamente esercitabile dal datore di lavoro e se così fosse stato, la lavoratrice non avrebbe potuto disporre liberamente della propria capacità lavorativa, non sapendo se potesse o meno lavorare con società concorrenti della datrice di lavoro. Diversamente, la Corte di Cassazione considera legittimo il patto di non concorrenza in essere tra le parti, riconducendolo all’opzione di cui all’art. 1331 c.c. e non all’istituto del recesso unilaterale di cui all’art. 1373 c.c Si consideri, infatti, che l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario nel caso di specie, datore di lavoro che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitato. L’esercizio dell’opzione è, quindi, un diritto potestativo dell’opzionario, che è in grado di incidere sulla sfera giuridica del concedente, che resta passivo. Nel caso di specie, il datore di lavoro opzionario non ha esercitato l’opzione, ossia non ha dichiarato di volere dare corso al patto di non concorrenza, rendendolo, quindi, inefficace. Il datore di lavoro, pertanto, non ha receduto unilateralmente dal patto, ma ha deciso di non dare corso all’intesa, rendendo la lavoratrice concedente libera di prestare la propria attività in favore di chiunque. Da tale ricostruzione consegue che alla lavoratrice non sia dovuta alcuna indennità, non avendo quest’ultima subito alcuna restrizione. Se invece il datore di lavoro avesse esercitato l’opzione, la lavoratrice avrebbe dovuto rispettare il patto di non concorrenza, con diritto a percepire la relativa indennità. E’ questione di sottile qualificazione dell’accordo della parti.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 ottobre 2016 – 26 ottobre 2017, n. 25462 Presidente Venuti – Relatore Leo Svolgimento del processo La Corte territoriale di Venezia, con sentenza pubblicata il 10/8/2010, respingeva l’appello interposto dalla Adecco Italia S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale di Padova che aveva dichiarato che la predetta società era tenuta a corrispondere a R.L. la somma di Euro 29.427,58 per l’indennità maturata dalla data di fine rapporto sino al 31/7/2005, oltre accessori di legge, conseguente alla nullità della clausola relativa al patto di non concorrenza. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Adecco Italia S.p.A. sulla base di sei motivi. La R. ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo la società ricorrente denuncia, in riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti decisivi per il giudizio la violazione e falsa applicazione degli ara. 1331 e 1373 c.c., lamentando che la Corte territoriale abbia sancito la nullità dell’opzione annessa al patto di non concorrenza sottoscritto dalla R. , erroneamente qualificando l’opzione come recesso unilaterale e senza considerare che l’opzione determina la nascita, in capo all’opzionario, di un diritto che, solo se esercitato, conclude automaticamente il contratto. Per la qual cosa, a parere della ricorrente, il mancato esercizio dell’opzione da parte di Adecco ha reso privo di efficacia il patto di non concorrenza sottoscritto dalla R. , la quale era a conoscenza del fatto che la società non avesse esercitato il diritto di opzione. 2. Con il secondo motivo la società ricorrente si duole, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., della omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa l’interpretazione delle clausole contrattuali. In particolare, deduce che la Corte di merito non ha in alcun modo statuito circa un punto decisivo della controversia, in quanto, pur rilevando che il primo giudice non avesse tenuto conto della corretta interpretazione delle clausole ai sensi degli artt. 1362 e 1363 e segg. c.c., non aveva indagato quale fosse stata la comune intenzione delle parti anche alla luce del comportamento tenuto anche posteriormente alla conclusione del contratto. 3. Con il terzo motivo si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 1331/ c.c., nonché la omessa e contraddittoria pronuncia circa il termine per esercitare l’opzione, affermando, al riguardo, semplicemente che l’attribuzione41 datore di lavoro del potere di caducare un patto di non concorrenza renderebbe scompensato il rapporto a favore dello stesso indipendentemente dal momento in cui tale potere venga esercitato, cioè prima o dopo la conclusione del rapporto di lavoro tra le parti, e a prescindere dal termine concesso per esprimere tale potere. 4. Con il quarto mezzo di impugnazione si lamenta, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., la omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa la validità della rinuncia all’opzione effettuata in costanza di rapporto, avendo la Corte territoriale totalmente omesso di considerare un fatto che era, appunto, decisivo per valutare la validità della rinuncia all’opzione effettuata da Adecco. 5. Con il quinto mezzo di impugnazione la società ricorrente deduce, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 1463 c.c. in relazione alla risoluzione di diritto del patto di non concorrenza, non potendosi sostenere - come si legge nella sentenza oggetto del giudizio di legittimità - che la disciplina di cui alla legge n. 196/97 e la disciplina di cui al D.lgs. n. 276/2003 in materia di somministrazione non hanno alcuna sostanziale differenza, per quanto riguarda l’attività imprenditoriale, trattandosi sempre della fornitura ad un utilizzatore di prestazioni di lavoro . Al riguardo, la società ricorrente sottolinea che, successivamente all’entrata in vigore del D.lgs. n. 276/2003, l’oggetto sociale della stessa è notevolmente mutato e, dunque, il patto di non concorrenza di cui si tratta non poteva, pena la nullità dell’intero patto, estendersi ad attività ulteriori e diverse rispetto a quelle ivi riportate. 6. Con il sesto motivo si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 1419, primo comma, c.c. e si sottolinea che la Corte distrettuale avrebbe dovuto ritenere nullo l’intero patto di non concorrenza, dovendo considerarsi essenziale la clausola che prevedeva la possibilità di non esercitare l’opzione appunto ai sensi dell’art. 1419 citato. 7. I mezzi di impugnazione - da trattare congiuntamente perché, all’evidenza, connessi - sono fondati. Invero, è da premettere che la Corte distrettuale, per pervenire alla decisione oggetto del presente giudizio, fa riferimento ad un precedente della Corte di legittimità non conferente, perché in esso si controverte della legittimità o meno dell’apposizione di una clausola di recesso unilaterale all’interno di un patto di non concorrenza già perfezionato e, muovendo da tale equivoco, qualifica l’opzione come recesso unilaterale. Orbene, come è noto - e come correttamente sottolineato dalla parte ricorrente - l’opzione determina la nascita di un diritto a favore dell’opzionario che conclude automaticamente il contratto, soltanto nel caso in cui venga esercitata. Si tratta, quindi, di un diritto potestativo, poiché ad esso corrisponde, dal lato passivo, una posizione di soggezione, dato che, ad esclusi va iniziativa dell’opzionario, il concedente può subire la conclusione del contratto finale. Lo schema di perfezionamento non è quello della proposta-accettazione, ma quello del contratto preparatorio di opzione, seguito dall’esercizio del suddetto diritto, mediante una dichiarazione unilaterale recettizia entro un termine fissato nel contratto stesso o, in mancanza, dal giudice. E, dunque, scaduto tale termine, l’opzione viene meno, trattandosi di un termine di efficacia di un contratto e non di irrevocabilità della proposta. E, nella fattispecie, è da sottolineare che il mancato esercizio dell’opzione da parte di Adecco Italia S.p.A. ha reso inefficace il patto di non concorrenza sottoscritto dalla R. , la quale era perfettamente a conoscenza del fatto che la società non avesse esercitato l’opzione. Non può quindi configurarsi nel caso di cui si tratta una ipotesi di recesso dal contratto ai sensi dell’art. 1373 c.c., come, invece, reputato dalla Corte di merito, anche in considerazione del fatto che il patto di non concorrenza, nella specie, non era ancora perfezionato. E la R. aveva, infatti, concesso ad Adecco, per la formazione professionale ricevuta, un’opzione irrevocabile al rispetto del patto di non concorrenza, da esercitare entro trenta giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. È dunque errata la decisione impugnata, non avendo peraltro la Corte di merito posto l’accento sulla valutazione della comune intenzione delle parti o sulla considerazione del comportamento dalle stesse tenute anche successivamente alla conclusione del contratto. Per tutto quanto precede, il ricorso va pertanto accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito ai sensi del disposto dell’art. 384 del codice di rito, con il rigetto delle domande originariamente proposte dalla lavoratrice. Le spese dell’intero processo, in considerazione dell’accoglimento delle domande nei pregressi giudizi di merito, vanno interamente compensate tra le parti. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da R.L. . Compensa tra le parti le spese dell’intero processo.