Badante o convivente? A dirlo sono i fatti

La natura subordinata del rapporto di lavoro avente ad oggetto attività di cura ed assistenza personale è insita nell’attività stessa, salvo la dimostrazione di un diverso tipo di rapporto istituto affectionis vel benevolentiae.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17093/17 depositata l’11 luglio. La vicenda. La Corte d’Appello di Cagliari riformava la sentenza di prime cure e riconosceva la sussistenza di un rapporto di lavoro domestico di natura subordinata tra l’attrice e il dante causa delle controparti, con condanna di quest’ultime al pagamento delle conseguenti differenze retributive. I convenuti impugnano la sentenza per cassazione deducendo l’erronea qualificazione del rapporto di lavoro non avendo la lavoratrice fornito alcuna prova della subordinazione e sostenendo dunque che, quell’attività qualificata dal giudice come lavorativa, doveva invece essere inquadrata nel rapporto di convivenza more uxorio con il defunto padre. I ricorrenti invocano poi l’invalidità del patto successorio intervenuto tra il dante causa e la controparte, laddove tale promessa si ponesse quale corrispettivo di una prestazione di lavoratore subordinato. Natura del rapporto. La Corte, escludendo la configurabilità di un patto successorio, condivide l’argomentazione della sentenza impugnata circa la natura subordinata del rapporto intercorso tra il dante causa e la lavoratrice sulla base delle caratteristiche fattuali oggettivamente riscontrate nella prestazione resa. L’attività della donna si risolveva infatti nella cura e nell’assistenza del de cuius , attività in cui l’elemento della subordinazione può considerarsi insito, tanto più che risulta indiscutibile l’impossibilità di ricondurre tale attività ad un altro rapporto istituto affectionis vel benevolentiae stante l’assenza di un vincolo di solidarietà ed affettività sfociante in una comunanza di vita e di interessi. Per questi motivi, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 marzo – 11 luglio 2017, n. 17093 Presidente Napoletano – Relatore De Marinis Fatti di causa Con sentenza del 16 gennaio 2013, la Corte d’Appello di Cagliari, in riforma della decisione resa dal Tribunale di Sassari, accoglieva la domanda proposta da P.G. nei confronti di S.A.R. e F.S. , avente ad oggetto il riconoscimento della ricorrenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato per lo svolgimento in favore del loro dante causa di prestazioni di lavoro domestico e la condanna dei medesimi al pagamento delle conseguenti differenze retributive. La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto, diversamente dal primo giudice, riconducibile l’attività svolta dalla lavoratrice ad un rapporto di lavoro domestico, come tale qualificabile subordinato sussistente la violazione dell’articolo 36 Cost. quantificabile il dovuto, stante la carenza di prova in ordine alla durata della prestazione, sulla base di un parametro individuato in via equitativa ed identificato in una attività di cura protratta per due ore e mezza al giorno secondo la durata media di una simile prestazione diretta ad una sola persona. Per la cassazione di tale decisione ricorrono i S. , affidando l’impugnazione a tre motivi. L’intimata non ha svolto alcuna attività difensiva. Ragioni della decisione Con il primo motivo, i ricorrenti, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 230 bis c.c. in una con il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, imputa alla Corte territoriale l’erronea qualificazione del rapporto per non aver la lavoratrice fornito la prova della subordinazione così da poter escludere il trattarsi di una forma di assistenza resa nell’ambito di una convivenza more uxorio. La violazione e falsa applicazione dell’articolo 112 c.p.c. è predicata nel secondo motivo in relazione all’omessa pronunzia circa l’invalidità del patto successorio che si configurerebbe laddove la promessa dell’eredità acclarata in giudizio si ponesse quale corrispettivo di una prestazione di lavoro subordinato. Nel terzo motivo i ricorrenti deducono un vizio di motivazione per essere il convincimento espresso dalla Corte territoriale in ordine alla ravvisabilità della subordinazione apoditticamente affermato a prescindere dalla prova dei relativi indici sintomatici. I tre motivi, che, in quanto strettamente connessi, possono essere qui trattati congiuntamente, devono ritenersi infondati. In effetti, esclusa la configurabilità di un patto successorio in relazione alla promessa di istituzione di erede in favore della lavoratrice da parte del dante causa degli odierni ricorrenti che, per quanto dedotta in giudizio, non ha trovato alcun riscontro, è a dirsi come la ricorrenza nella specie della subordinazione sia stata correttamente desunta dalla Corte territoriale, in conformità con l’orientamento accolto da questa Corte cfr., da ultimo, Cass. sez. lav., 29.9.2015, n. 19304 , in relazione alle caratteristiche oggettive della prestazione resa, concretantesi in un lavoro di cura, cui la subordinazione deve dirsi connaturata ove, come nel caso di specie, sia stata ritenuta, con valutazione qui neppure fatta oggetto di specifica impugnazione, la non riconducibilità della prestazione medesima ad altro rapporto istituito affectionis vel benevolentiae causa per il difetto di un vincolo di solidarietà ed affettività sfociato in una comunanza di vita e di interessi che abbia implicato altresì la partecipazione di uno dei conviventi alla vita ed alle risorse dell’altro. Il ricorso va dunque rigettato senza attribuzione delle spese per non aver l’intimata svolto alcuna attività difensiva. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese. Ai sensi dell’articolo 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.