La cessazione dell’attività aziendale non consente la disapplicazione delle regole sui licenziamenti collettivi

I licenziamenti collettivi conseguenti ala chiusura dell’insediamento produttivo sono soggetti alla gran parte delle norme previste per la dichiarazione di mobilità, poiché anche la cessazione dell’attività aziendale si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi di impresa, in quanto la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori assurgendo quindi ad espressione di un principio generale applicabile anche all’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 16295 depositata il 30 giugno 2017. Il caso. La Corte di Appello di Napoli, confermando la pronuncia di primo grado, riteneva che - nell’ambito di una procedura ex l. n. 223/1991 avviata da una società per cessazione della propria attività - la comunicazione alle OO.SS. non fosse stata effettuata entro il termine di 7 giorni previsto dall’art. 4, comma 9, della stessa normativa bensì con più di due mesi di ritardo . Conseguentemente, i recessi comunicati ai lavoratori dovevano essere dichiarati inefficaci con diritto di questi ultimi a percepire un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità di retribuzione globale di fatto. Contro tale sentenza la società ricorreva alla Corte di Cassazione, articolando vari motivi. La procedura si applica sempre, anche se si chiude l’azienda. In particolare, ad avviso della ricorrente, i Giudici di merito avevano errato ad attribuire rilievo essenziale al termine di cui all’art. 4, comma 9, l. n. 223/1991, tanto più in una fattispecie in cui essendovi l’azzeramento dell’intero organico non vi era alcuna esigenza di comparazione tra i lavoratori . Motivo che tuttavia non viene condiviso dalla Cassazione la quale, con una sentenza che si fa notare per la compiutezza del ragionamento e la ricchezza dei contenuti, rigetta il ricorso. Richiamando il dato letterale della norma, infatti, la Corte rileva come la normativa in discorso trovi applicazione anche in ipotesi di cessazione dell’attività d’impresa avendo tale disciplina portata generale ed obbligatoria anche nell’ipotesi in cui [] risulti impossibile la continuazione dell’impresa . Il controllo viene effettuato dalle OO.SS. e dalla P.A Secondo il condivisibile avviso della Cassazione inoltre, ferma l’insindacabilità della scelta dell’imprenditore, la procedura di cui alla l. n. 223/1991 assolve una funzione di garanzia in quanto la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità [.] assume un’importanza decisiva per il controllo dell’esercizio dei poteri datoriali, fissando definitivamente nei termini indicati dalle comunicazioni la motivazione del singolo licenziamento . Ciò, anche considerato che la comunicazione ai soggetti esterni” indicati dalla norma svolge la necessaria funzione di manifestare le ragioni delle scelte dell’imprenditore alle OO.SS. ed agli uffici pubblici, ndr in quanto rilevanti in una dimensione collettiva, e non apprezzabili nell’ambito del singolo rapporto di lavoro . Dalla ratio della legge emerge quindi come le due comunicazioni previste dall’art. 4, comma 9, l. n. 223/1991 abbiano diverso contenuto e finalità, in quanto la prima comunicazione al singolo lavoratore [] deve contenere solo la notizia del recesso, senza la necessità di alcuna motivazione la contestuale” comunicazione all’Ufficio del lavoro, invece, deve includere anche i dati relativi all’elenco dei lavoratori da collocare in mobilità [.] nonché la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta , risultando quindi escluso - attesa la loro ontologica diversità - che l’una possa rendere superflua l’altra. La cessazione dell’attività non esclude che possano esserci criteri di scelta”. Tali principi sono senza dubbio applicabili anche nelle procedure relative alla cessazione dell’attività aziendale, nelle quali ben può essere previsto uno scansionamento nel tempo dei licenziamenti ragion per cui la comunicazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare e delle relative modalità applicative anche se non fatta la lavoratore personalmente gli consente di verificare la legittimità del recesso stesso e quindi di valutare l’opportunità, o meno, di impugnarlo, risultando del resto cristallizzate le ragioni della scelta a sé sfavorevole . La violazione del termine determina l’ inefficacia del recesso. Conclude quindi la Corte, ribadendo il proprio principio consolidato, che è esclu sa una nozione elastica di contestualità della comunicazione in esame, per l’esigenza, secondo la sua ratio, di rendere visibile e quindi controllabile dalle associazioni di categoria, oltre che dagli uffici pubblici competenti, la corretta applicazione della procedura con riferimento ai criteri di scelta seguiti ai fini della collocazione in mobilità, quale indispensabile presupposto per la tutela giurisdizionale riconosciuta al singolo dipendente .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, ordinanza 24 maggio – 30 giugno 2017, n. 16295 Presidente Curzio – Relatore Marotta Fatto e diritto Rilevato che - con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Napoli, decidendo sul reclamo proposto dalla Tessival Sud s.r.l., in liquidazione, avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che, nella fase di opposizione ex art. 92, co. 51-57, della legge n. 92/2012, aveva parzialmente accolto il ricorso ex art. 1, co. 48 e ss., legge n. 92/2012 proposto da S.L. , dichiarato l’inefficacia del licenziamento intimato all’esito di procedura ai sensi della legge n. 223/1991 e condannato la società al risarcimento del danno pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto , confermava la pronuncia del Tribunale. Riteneva la Corte territoriale che la comunicazione alle OO.SS. di categoria non fosse stata inoltrata contestualmente a quella di recesso e neppure entro il termine di sette giorni previsto dall’art. 4, co. 9, della legge n. 223/1991, come modificato dall’art. 1 co. 44 della legge n. 92/2012, bensì oltre due mesi dopo che a fronte della stringente sequenza temporale prevista dalla legge non fossero possibili sanatorie di sorta in caso di suo inadempimento essendo irrilevante la circostanza che il lavoratore fosse stato in grado di conoscere il criterio di scelta attraverso la comunicazione dell’avvio della procedura che, peraltro, nella specie non vi era stato un licenziamento contestuale di tutti i lavoratori ma era stato introdotto un criterio di scelta consistente nel licenziare prioritariamente coloro che, entro il 27/9/2012, avessero manifestato la volontà di non opporsi al recesso, prevedendosi che agli stessi venisse corrisposto un incentivo economico da concordare che la supposta non essenzialità del termine per la suddetta comunicazione contraddiceva la funzione di garanzia da attribuire alla stessa - per la cassazione di tale sentenza ricorre la Tessival s.r.l. in liquidazione con due motivi - S.L. resiste con controricorso - la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata - solo il controricorrente ha depositato memoria - il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata. Considerato che - con il primo motivo la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, co. 5 e 9, e dell’art. 5, co. 3, della legge n. 223/1991 in relazione all’art. 24, co. 2, della legge n. 223/1991. Si duole dell’attribuita essenzialità al termine per la comunicazione di cui al citato art. 4, co. 9, in presenza di un licenziamento collettivo per cessazione dell’attività in cui, essendovi l’azzeramento dell’intero organico, non vi era alcuna esigenza di comparazione tra i lavoratori sostiene che in tale situazione il ritardo nell’invio della comunicazione non sarebbe giammai potuto risultare di pregiudizio. Rileva che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di appello, non vi era stata alcuna scansione temporale dei licenziamenti che erano tutti avvenuti nella medesima data, senza la necessità di individuare criteri di scelta e che la cessazione dell’attività non era mai stata messa in discussione dal lavoratore ovvero dalle stesse OO.SS. in sede di esame congiunto e in sede amministrativa - con il secondo motivo la società denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4, co. 9, anche in relazione all’art. 152 cod. proc. civ Lamenta che la Corte territoriale abbia erroneamente ritenuto che il mancato rispetto del termine di sette giorni previsto dall’art. 4, co. 9, come modificato dalla legge n. 92/2012, potesse determinare l’inefficacia del recesso - entrambi i motivi sono infondati cfr. Cass. 22 novembre 2016, n. 23736 - va innanzitutto richiamata l’espressa previsione di cui all’art. 24, co. 2, della legge n. 223 /1991 Le disposizioni richiamate nel comma 1 si applicano anche quando le imprese di cui al medesimo comma intendano cessare l’attività , rimasta immutata pur a seguito dell’intervento modificativo di cui alla legge n. 92/2012. Il primo comma di detta disposizione fa espresso riferimento alle disposizioni di cui all’art. 4, commi da 2 a 12, e all’art. 5, commi da 1 a 5” si veda, per completezza, anche l’art. 8, co. 4, del d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 luglio 1993, n. 236, secondo il quale La disposizione di cui all’articolo 24, comma 1, ultimo periodo, della legge 23 luglio 1991, n. 223, si interpreta nel senso che la facoltà di collocare in mobilità i lavoratori di cui all’articolo 4, comma 9, della medesima legge deve essere esercitata per tutti i lavoratori oggetto della procedura di mobilità entro centoventi giorni dalla conclusione della procedura medesima, salvo diversa indicazione nell’accordo sindacale di cui al medesimo articolo 4, comma 9 - come da questa Corte già affermato nella decisione n. 14416 del 4 novembre 2000, facendo seguito alle pronunce a Sezioni unite 13 giugno 2000, n. 419 e 11 maggio 2000, n. 302 i licenziamenti collettivi conseguenti alla chiusura dell’insediamento produttivo sono ora soggetti alla gran parte delle norme previste in materia di procedura per la dichiarazione di mobilità. Come ha sottolineato la Corte costituzionale, anche la cessazione dell’attività si vuole inserita in quella complessa concertazione attraverso cui la normativa sulla mobilità tende a ridurre le conseguenze della crisi o della ristrutturazione dell’impresa sull’occupazione e ciò in quanto la messa in mobilità viene a coniugarsi con gli ulteriori meccanismi predisposti per la ricollocazione dei lavoratori, di talché cessa assurge ad espressione di un principio generale, che non può non valere anche quando ci si trovi in presenza della mera soppressione dell’impresa perfino quando tale soppressione sia operata al di fuori d’ogni procedura Sent. n. 6/1999 . L’assimilazione logica della cessazione di attività, che la norma effettua alle ipotesi di licenziamento collettivo per riduzione o trasformazione di attività o di lavorò, contemplate nel precedente comma è del resto coerente con quanto emerge dai lavori preparatori infatti il testo approvato originariamente dal Senato conteneva l’espressa previsione della inapplicabilità della normativa in esame all’ipotesi di cessazione dell’attività di impresa per provvedimento dell’autorità giudiziaria ma questa limitazione è stata soppressa nel testo approvato dalla Camera dei Deputati. Da ciò può trarsi un argomento ulteriore circa la volontà legislativa di estendere la latitudine della normativa in esame - si ricorda, del resto, che la Corte costituzionale cfr. sentenza n. 190/2000 , nel ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, co. 4 bis, prima proposizione, della legge 23 luglio 1991, n. 223, aggiunto dall’art. 6 del decreto legge 20 maggio 1993 n. 148, convertito in legge 19 luglio 1993, n. 236, nel testo risultante dalla modifica introdotta dall’art. 7 del d.l. 23 ottobre 1996, n. 542, convertito in legge 23 dicembre 1996, n. 649, sollevata, in riferimento agli arti. 3, primo comma, e 11 della Costituzione, ha rilevato che Alla materia dei licenziamenti collettivi è dedicata la direttiva comunitaria 75/129/CEE successivamente modificata ed integrata dalle direttive 95/56/CEE e 98/5/CE , la quale all’art. 1 fornisce la definizione di licenziamento collettivo - ancorata a presupposti esclusivamente dimensionali dell’azienda e numerici quale rapporto tra lavoratori licenziati e lavoratori occupati - e delinea ai successivi artt. 2 e 3 il campo di applicazione delle garanzie procedimentali il quale è tendenzialmente generale perché le ipotesi escluse sono tipizzate ed elencate rapporti di lavoro a termine rapporti di impiego pubblico rapporti di lavoro degli equipaggi di navi marittime , onde risulta esaltata l’ampia portata delle garanzie così introdotte. Alla direttiva è stata data attuazione nell’ordinamento interno con la legge 23 luglio 1991, n. 223, il cui art. 24 regola il licenziamento collettivo conseguente a riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, o cessazione dell’attività - coerentemente con siffatta lettura costituzionale della richiamata normativa è stato ritenuto cfr. Cass. 23 settembre 2011, n. 19496 che, in tema di licenziamenti collettivi, la disciplina prevista dalla legge 23 luglio 1991, n. 223, ha portata generale ed è obbligatoria anche nell’ipotesi in cui, nell’ambito di una procedura concorsuale, risulti impossibile la continuazione dell’attività aziendale e, nelle condizioni normativamente previste, si intenda procedere ai licenziamenti il tutto, ovviamente, sulla base della disciplina applicabile prima degli interventi legislativi di cui al d.lgs. n. 148/20105, attuativo della legge n. 183/2014 - Jobs Act - - se il dato formale è imprescindibile, è stato anche da questa Corte precisato che, per effetto di tale estensione, la tutela opera nei limiti della compatibilità di tale disciplina con i risultati in concreto perseguibili in relazione alla cessazione dell’attività aziendale e cioè, ferma restando l’insindacabilità della libera scelta dell’imprenditore di cessare l’attività, al fine di consentire il controllo sindacale sulla effettività della scelta medesima, ciò allo scopo di evitare elusioni del dettato normativo concernente i diritti dei lavoratori alla prosecuzione del rapporto nel caso in cui la cessazione dell’attività dissimuli la cessazione dell’azienda o la ripresa della attività sotto diversa denominazione o in diverso luogo, e, dall’altro, la funzione di promuovere, attraverso la iscrizione nelle liste di mobilità, il reimpiego dei lavoratori licenziati, anche attraverso l’organizzazione di corsi di qualificazione e riqualificazione professionale e l’utilizzo temporaneo in opere o servizi di pubblica utilità così Cass. 7 giugno 2007, n. 13297 si vedano anche Cass. 3 luglio 2015, n. 13684 e, prima ancora, Cass. 26 luglio 2005, n. 15643 - ferma restando, allora, la necessità della comunicazione di cui all’art. 4, co. 9, che resta strettamente collegata, al pari di quella di cui al co. 3 della medesima norma, al controllo, sindacale e pubblico, dell’operazione imprenditoriale dato testuale egualmente insuperabile è quello dell’art. 5, comma 3, secondo cui il recesso di cui all’art. 4, è inefficace qualora sia intimato . in violazione delle procedure richiamate dall’art. 4, comma 12 quest’ultima disposizione prevede, a sua volta, che Le comunicazioni di cui al comma 9, sono prive di efficacia ove siano state effettuate senza l’osservanza . delle procedure previste dal presente articolo - cfr. Cass. 1 luglio 2013, n. 16448 - , è stato ritenuto che il datore di lavoro, nell’ipotesi di cessazione dell’attività, è solo dispensato dall’obbligo di specificare, nella comunicazione di cui all’art. 4, co. 3, legge n. 223/1991 cit., i motivi del mancato ricorso ad altre forme occupazionali, nel caso in cui sia disposta la chiusura di un settore o ramo d’azienda, deve essere applicato tenendo conto che, in tema di licenziamenti collettivi, ai fini dell’applicazione dei criteri di scelta dettati dall’art. 5 della legge n. 223 del 1991, la comparazione dei lavoratori da avviare alla mobilità può essere effettuata avendo riguardo soltanto ai lavoratori addetti al settore o al ramo interessato dalla chiusura o dalla ristrutturazione e non a quelli addetti all’intero complesso organizzativo e produttivo soltanto qualora si accerti che queste riguardino effettivamente in via esclusiva detto settore o ramo d’azienda ed esauriscano in tale ambito i loro effetti, non sussistendo inoltre in esso professionalità suscettibili di utilizzazione nel settore o ramo nel quale l’attività viene mantenuta - così Cass. 10 maggio 2003, n. 7169 si vedano anche Cass. 26 luglio 2005, n. 15643 e Cass. 17 aprile 2014, n. 8971 nonché la già citata Cass. 7 giugno 2007, n. 13297 - . È stata, altresì, individuata una incompatibilità con riferimento alle conseguenze della dichiarazione di inefficacia del recesso per mancata procedimentalizzazione nell’ipotesi di cessazione dell’attività aziendale, nella quale solo non può essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro dovendo la pronuncia limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno - si veda Cass. 19 dicembre 2008, n. 29831 - - pur con i suddetti correttivi interpretativi, è tuttavia sempre rimasta ferma la necessità del rispetto del dato formale e della cadenza procedimentale specificandosi, in particolare, che la sanzione dell’inefficacia consegue anche nel caso di violazione della prescrizione di cui al nono comma dell’art. 4 - cfr. già Cass. 14 novembre 1998, n. 11480 e numerose successive conformi, tra cui, in particolare le già citate Cass., S.U., 11 maggio 2000, n. 302 e Cass. 1 luglio 2013, n. 16448 e tale vizio non è non è suscettibile di sanatoria ex post arg. ex Cass. 11 luglio 2007, n. 15479 . Si consideri, a tale ultimo riguardo, che anche la legge n. 92 del 2012 ha inciso solo sulla fase iniziale della procedura di informazione e consultazione consentendo ora espressamente la sanatoria di eventuali vizi della comunicazione di apertura della procedura medesima art. 1, co. 45, che incide sull’art. 4, co. 12, della legge n. 223 del 1991 - - è stato da questa Corte altresì precisato cfr. Cass. 22 marzo 1999, n. 2701 che la comunicazione dell’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con la puntuale indicazione della modalità con la quale sono stati applicati i criteri di scelta, assume un’importanza decisiva per il controllo dell’esercizio dei poteri datoriali, fissando definitivamente nei termini indicati dalle comunicazioni la motivazione del singolo licenziamento. D’altro canto, la comunicazione ai soggetti esterni indicati dalla norma svolge la necessaria funzione di manifestare le ragioni delle scelte dell’imprenditore in quanto rilevanti in una dimensione collettiva, e non apprezzabili nell’ambito del singolo rapporto di lavoro solo in questa dimensione è possibile un’effettiva verifica del rispetto dei criteri di scelta . È stata anche sottolineata la diversità di contento e di finalità delle due comunicazioni previste dal co. 9 dell’art. 4, il che esclude che l’una possa rendere superflua l’altra si veda Cass. 8 marzo 2006, n. 4970 secondo cui Il tenore letterale, nonché la ratio dell’art. 4, co. 9, della legge n. 223/1991 conducono a ritenere che la prima comunicazione al singolo lavoratore e la seconda agli Uffici del lavoro e alle associazioni di categoria hanno contenuto e finalità differenti. In particolare, la prima comunicazione - da redigersi in forma scritta - deve contenere solo la notizia del recesso, senza la necessità di alcuna motivazione la contestuale comunicazione all’Ufficio del lavoro, invece, deve includere anche i dati relativi all’elenco dei lavoratori collocati in mobilità, con l’indicazione per ciascun soggetto del nome, del luogo di residenza, della qualifica, del livello di inquadramento, dell’età, del carico di famiglia, nonché la puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta. Conseguentemente, deve escludersi che la contestualità richiesta dalla menzionata norma ora il termine di sette giorni sia prevista in funzione della conoscibilità della motivazione da parte del lavoratore - ed allora è chiaro come, in tale sistema delineato dal legislatore, l’esatto adempimento degli obblighi procedimentali posti a carico del datore di lavoro assolva anche ad una funzione di tutela del singolo lavoratore in particolare la comunicazione dei criteri di scelta dei dipendenti da licenziare e delle relative modalità applicative anche se non fatta al lavoratore personalmente gli consente di verificare la legittimità del recesso stesso e quindi di valutare l’opportunità, o meno, di impugnarlo, risultando del resto cristallizzate le ragioni della scelta a sé sfavorevole, con significativi effetti di tutela non dissimili da quelli svolti dalla contestazione dell’addebito nel licenziamento disciplinare e della comunicazione dei motivi del licenziamento individuale in regime di stabilità del rapporto - così la già citata Cass. n. 2701/1999 -. Ciò è tanto più evidente sol che si consideri che un criterio di scelta ben può essere, nell’ipotesi di cessazione dell’attività, quello che operi uno scansionamento nel tempo dei licenziamenti e che la necessità della relativa comunicazione non può dipendere, come pretenderebbe la ricorrente, da una valutazione ex posi della contemporaneità delle comunicazioni di recesso a tutte le unità ancora alle dipendenze della società e che, in ogni caso, lo scopo della comunicazione è anche quello di consentire la compilazione delle liste di mobilità per la fruizione da parte dei lavoratori licenziati della relativa indennità - sulla ulteriore questione in disamina, l’indirizzo di questa Corte è consolidato da ultimo Cass. 5 febbraio 2016, n. 2322 Cass. 4 febbraio 2016, n. 2206 Cass. 8 gennaio 2016, n. 157 Cass. 28 ottobre 2015, n. 22024, con ampio richiamo in motivazione di precedenti conformi, quali Cass. n. 8680/15 Cass. n. 16448/13 Cass. n. 7490/11 Cass. n. 7407/10 Cass. n. 16776/09 Cass. n. 1722/09 Cass. n. 15898/05 nell’escludere una nozione elastica di contestualità della comunicazione in esame, per l’esigenza, secondo la sua ratio, di rendere visibile e quindi controllabile dalle associazioni di categoria, oltre che dagli uffici pubblici competenti, la corretta applicazione della procedura con riferimento ai criteri di scelta seguiti ai fini della collocazione in mobilità, quale indispensabile presupposto per la tutela giurisdizionale riconosciuta al singolo dipendente. Né ad escludere che la contestualità prescritta dalla norma sia in funzione anche della conoscibilità del corretto esercizio del potere da parte dei singoli dipendenti può valere la considerazione che la motivazione del recesso, nemmeno prescritta dalla legge n. 604/1966 nel caso di licenziamenti individuali, a maggior ragione non sia configurabile in materia di licenziamenti collettivi, ove il lavoratore si trova in una situazione di minore debolezza contrattuale, per la presenza di penetranti controlli delle organizzazioni sindacali e degli uffici pubblici Cass. 8 marzo 2006, n. 4970 , dal momento che la tutela collettiva assicurata dalla procedimentalizzazione dei poteri dell’imprenditore non esclude certo, pur nell’ambito dei licenziamenti collettivi, la tutela individuale, rappresentando la comunicazione congiunta prevista dalla norma in esame uno specifico termine di collegamento fra il momento collettivo e quello individuale Cass. 1 dicembre 2010, n. 24341 . Sicché, nell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità non trova spazio una nozione elastica del requisito di contestualità, poiché essa contraddice la funzione di garanzia dei lavoratori licenziati attribuita alle comunicazioni da inviare alle organizzazioni sindacali e ai competenti uffici del lavoro e si rileva incoerente con il disegno normativo contenuto nella legge n. 223/1991. Ne risultano esaltati i connotati di rigidità della procedura, con la conseguenza che la riscontrata violazione determina di per sé, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 3, l’inefficacia del licenziamento così Cass. 29 aprile 2015, n. 8680 - alla luce dei rigorosi principi enunciati e della funzione di garanzia delle comunicazioni previste dall’art. 4, co. 9, della legge n. 223/1991, risulta allora corretta l’interpretazione dei giudici di appello che hanno ritenuto risolutivo ai fini della violazione della norma procedurale in esame il mancato rispetto del termine di sette giorni di cui alla intervenuta modifica legislativa art. 1 co. 44 e dall’art. 2, comma 72, lett. d , L. 28 giugno 2012, n. 92 All’articolo 4, comma 9, della legge 23 luglio 1991, n. 223, al secondo periodo, la parola contestualmente è sostituita dalle seguenti entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi e dall’art. 2, comma 72, lett. d della medesima legge All’articolo 4 della legge 23 luglio 1991, n. 223, sono apportate le seguenti modificazioni a al comma 1, le parole le procedure di mobilità sono sostituite dalle seguenti la procedura di licenziamento collettivo” che, lungi dall’avere carattere dirimente non è meno cogente della precedente contestualità, secondo l’interpretazione data da questo giudice di legittimità - né fondatamente la ricorrente richiama le decisioni di questa Corte n. 5942 del 24 marzo 2004 e n. 10187 del 20 novembre 1996 a sostegno della pretesa irrilevanza della tardività della comunicazione evidenziando che la stessa non avrebbe impedito alle associazioni sindacali di categoria di esercitare il controllo sulle corrette modalità di esercizio del recesso, trattandosi di precedenti superati da numerose decisioni successive di segno contrario si vedano, tra le altre, Cass. 23 gennaio 2009, n. 1722 Cass. 17 luglio 2009, n. 16776 Cass. 31 marzo 2011, n. 7490 Cass. 26 marzo 2010,n. 7407 Cass. 16 luglio 2013, n. 17363 Cass. 9 ottobre 2013, n. 22958 - d’altro canto, opinare senz’altro la sufficienza ai fini del rispetto della tutela di cui all’art. 4, co. 9, della non contestazione della scelta imprenditoriale di cessare l’attività che si assume non essere stata mai messa in discussione dal lavoratore ovvero dalle OO.SS. in sede sindacale o in sede amministrativa , significa non solo elidere del tutto l’iter minuziosamente dettato dal legislatore, ma anche configurare in via di interpretazione una forma alternativa, che la legge stessa non contempla - la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione degli indicati principi - ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’art. 375, n. 5, cod. proc. civ. per la definizione camerale del processo - conclusivamente, essendo da condividere la proposta del relatore, il ricorso va rigettato - la regolamentazione delle spese segue la soccombenza - va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avvocato Emanuele Biondi, antistatario. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.