Il danno da demansionamento deve essere dimostrato dal lavoratore

Il lavoratore che richieda il risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale deve produrre specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio oggettivamente accertabile, posto che tale diritto non sorge automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale.

È il principio affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 15376/17 depositata il 21 giugno. Il caso. La lunga vicenda processuale che ha dato origine alla sentenza in oggetto vede contrapposti un lavoratore ed un istituto bancario. I giudici di merito, su istanza del lavoratore, avevano riconosciuto la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato tra le parti e, a seguito del mancato ripristino dello stesso, il lavoratore costituiva in mora la datrice di lavoro con un nuovo giudizio nel quale chiedeva l’accertamento del diritto ad essere assegnato alle mansioni corrispondenti alla sua progressione in carriera, oltre al pagamento delle corrispondenti retribuzioni e al risarcimento del danno. Nelle more del procedimento, in cui si sono susseguiti ricorsi e impugnazioni, il lavoratore veniva riammesso in servizio ma gli venivano negati sia le mansioni richieste che il risarcimento del danno. La vicenda giunge dunque al Palazzaccio su ricorso del lavoratore. Risarcimento. Per quanto qui rileva, il motivo con cui viene dedotta la violazione di legge in relazione al mancato risarcimento del danno viene definito infondato dalla S.C Ed infatti la Corte di merito ha correttamente applicato un principio dettato in tema di risarcimento del danno da demansionamento – ma pacificamente estendibile al caso di specie – secondo il quale il diritto al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale non sorge automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e deve dunque fondarsi sulla specifica allegazione dell’esistenza di un pregiudizio oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità . Non è dunque sufficiente dimostrare la mera portata lesiva potenziale della condotta datoriale, ma incombe sul lavoratore l’onere di allegare non solo il demansionamento subito ma anche il nesso di causalità con le conseguenze pregiudizievoli. Il ricorso viene dunque rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 12 gennaio – 21 giugno 2017, n. 15376 Presidente Nobile – Relatore Negri Della Torre Fatti di causa Con la sentenza n. 289/04 del 27 aprile 2004, poi confermata da questa Corte, la Corte di appello di Bologna dichiarava, in parziale accoglimento del gravame del lavoratore, che fra la Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. e F.T. si era instaurato un rapporto di lavoro subordinato, quale impiegato di IV grado, a decorrere dal 2 giugno 1980, data di inizio del primo di una serie di rapporti a termine. Costituita in mora la datrice di lavoro in data 2 maggio 2004, senza peraltro che alla intimazione ad adempiere facesse seguito il ripristino del rapporto, il F. introduceva altro giudizio con il quale chiedeva l’accertamento del proprio diritto ad essere assegnato a mansioni corrispondenti alla progressione di carriera, connessa con il tempo trascorso dal 2/6/1980, ovvero alle mansioni inerenti al grado immediatamente inferiore al più elevato livello della categoria impiegatizia, secondo le previsioni della contrattazione collettiva vigente medio tempore, con la condanna della società al conferimento di tali mansioni con il quale chiedeva, inoltre, la condanna della Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. al pagamento delle retribuzioni corrispondenti a tale inquadramento, a decorrere dalla data di costituzione in mora, oltre alla condanna al risarcimento dei danni per non avere la società consentito la ripresa della prestazione lavorativa, in misura pari alla retribuzione spettante o in quella diversa misura ritenuta equa. Il ricorso così proposto era dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado e, quindi, respinto dalla Corte di appello di Bologna con la sentenza n. 204/08 del 13 marzo 2008. Tale ultima pronuncia veniva cassata da questa Corte con la sentenza n. 23405/2012, che rinviava la causa alla Corte di appello di Firenze. Nelle more del giudizio la Cassa di Risparmio di Ferrara ammetteva il F. in servizio a tempo indeterminato con decorrenza 2 gennaio 2008 ma con anzianità convenzionale dal 27/4/2004 e cioè dalla data della sentenza di secondo grado che aveva pronunciato sulla conversione dei rapporti a termine e inquadramento nel 1 livello della 3a Area Professionale, corrispondente alla qualifica di impiegato di grado IV. Riassunto il giudizio, la Corte di appello di Firenze, con sentenza n. 332/2014 depositata il 26 marzo 2014, respingeva tutte le ulteriori domande svolte dal F. con il ricorso originario. Il giudice del rinvio riteneva, quanto alla domanda di assegnazione di mansioni differenti da quelle attribuite in sede di riammissione in servizio e di conseguente ricalcolo delle retribuzioni, che essa dovesse considerarsi generica e comunque infondata, posto che la norma di fonte collettiva, sulla quale il lavoratore aveva fondato la propria pretesa, poneva come condizione per l’automatica progressione, tra un grado e l’altro della categoria degli impiegati, il passaggio di un determinato periodo di tempo e peraltro sul presupposto che vi fosse stata nel corso del medesimo un’effettiva prestazione periodo che, nella specie, non risultava invece maturato, anche sommando i vari rapporti a termine, stante l’impossibilità di prendere in considerazione gli intervalli non lavorati. Quanto poi alla domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali, conseguenti alla mancata riammissione in servizio già a decorrere dalla costituzione in mora e cioè dal 2/5/2004 , la Corte di appello di Firenze osservava come il F. non avesse provato, e prima ancora allegato con precisione, quali fossero stati gli ulteriori e diversi pregiudizi sofferti a motivo di tale comportamento del datore di lavoro né la loro individuazione poteva essere rimessa al giudice, a cui spettava soltanto procedere in via equitativa alla determinazione della misura risarcitoria. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza il F. con due motivi la Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. in Amministrazione Straordinaria ha resistito con controricorso. Nel corso del giudizio si è costituita la Nuova Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A., in qualità di successore, a seguito di cessione dell’azienda bancaria, della Cassa di Risparmio di Ferrara S.p.A. in Amministrazione Straordinaria. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa e brevi note in replica alle conclusioni del pubblico ministero. Ragioni della decisione Con il primo motivo, deducendo la violazione dell’art. 2103 c.c. e del CCNL di settore art. 360 n. 3 nonché l’omesso esame di un punto decisivo ritualmente prospettato in causa art. 360 n. 5 , il ricorrente si duole della sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale ha affermato che la domanda concernente l’attribuzione di mansioni diverse e superiori rispetto a quelle assegnate era stata dedotta in modo generico, non avendo il lavoratore specificato né il grado rivendicato né le mansioni ad esso pertinenti, e altresì nella parte in cui aveva ritenuto che comunque l’automatica progressione della carriera avverrebbe sul presupposto della prestazione effettiva del servizio affermazioni entrambe erronee, secondo il ricorrente, alla luce, la prima, del contenuto della domanda così come formulata in giudizio e ribadita nei successivi scritti a difesa e, la seconda, alla luce della formulazione degli artt. 4 e 5 del richiamato contratto collettivo. Con il secondo motivo, deducendo la violazione degli artt. 1223, 2043, 2059 e 2697 c.c. art. 360 n. 3 c.p.c. e 112 c.p.c. art. 360 n. 4 , nonché omesso esame di fatti decisivi ritualmente prospettati nel giudizio art. 360 n. 5 , il ricorrente censura la sentenza di appello nella parte in cui ha ritenuto che il lavoratore, pur avendone l’onere, e a fronte dell’assolvimento, se pure tardivo, dell’obbligazione retributiva da parte datoriale, non avesse allegato con precisione gli ulteriori e diversi pregiudizi sofferti nell’attesa della effettiva riammissione in servizio. Si deve, in primo luogo, rilevare che i motivi proposti, laddove denunciano il vizio di cui all’art. 360 n. 5, risultano inammissibili. Essi, infatti, dolendosi il ricorrente dell’omesso esame di questioni cfr. ricorso, p. 16 e di prospettazioni p. 29 , anziché dell’omesso esame di fatti storici decisivi ai fini della ricostruzione fattuale, non si conformano allo schema normativo del nuovo vizio motivazionale , quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella I. 7 agosto 2012, n. 134, pur a fronte di sentenza depositata il 26 marzo 2014, e, pertanto, in epoca successiva all’entrata in vigore 11 settembre 2012 della novella legislativa. Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 c.p.c., come riformulato a seguito dei recenti interventi, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia con la conseguenza che nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 c.p.c., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie . Ciò premesso, si rileva che il primo motivo non può essere accolto, laddove denuncia la violazione di norme di legge e di contratto collettivo. Il giudice di appello ha correttamente osservato come, in ogni caso, al di là della pur affermata genericità della domanda, e così esprimendo un’autonoma ratio decidendi a sostegno della statuizione di rigetto, l’attribuzione al lavoratore di mansioni superiori rispetto a quelle assegnategli in occasione dell’ammissione in servizio 1 livello della 3a Area Professionale, corrispondente alla qualifica di impiegato di grado IV nel previgente sistema classificatorio richiedesse il presupposto nel caso di specie, non ricorrente della effettiva prestazione del servizio. La conclusione risulta invero conforme all’inequivoco tenore letterale delle disposizioni dell’art. 5 CCNL 4/12/1979 e dell’art. 5 CCNL 9/3/1983 la prima, infatti, prevede che, ai fini degli avanzamenti automatici di carriera, debbano essere esclusi soltanto i periodi di assenza volontaria salvo quelli per i quali viene corrisposto il normale trattamento economico e che debbano essere considerati per il computo dell’anzianità anche i periodi di servizio prestati presso aziende assorbite dall’Istituto , oltre al periodo di servizio prestato presso precedenti aziende, in caso di fusione con l’Istituto la seconda prevede, agli stessi fini, in aggiunta ad una permanenza pari a sette anni in ciascuno dei gradi, note di qualifica non inferiori a sufficiente anche non consecutive . È chiaro, infatti, che la nozione di servizio prestato , come l’esclusione dal computo dei periodi di assenza dal medesimo, riconduce all’effettivo svolgimento dell’attività lavorativa e si salda coerentemente con la previsione delle note di qualifica, le quali implicano - come è del tutto evidente - un lavoro concretamente esercitato, il solo a poter essere destinatario di una valutazione di merito. Il secondo motivo risulta egualmente infondato, laddove denuncia la violazione di norme di legge. Al riguardo, si osserva che la Corte di appello si è attenuta al principio di diritto, dettato in tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione ma applicabile anche alla specifica fattispecie in esame, secondo il quale il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell’esistenza di un pregiudizio di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale Cass. n. 19785/2010. Conformi Cass. n. 4712/2012 n. 6797/2013. Su tale premessa il giudice di merito ha poi stabilito, con un accertamento di fatto che esclusivamente gli è rimesso e che non è censurabile in sede di legittimità ove privo di anomalie motivazionali idonee a tramutarsi in violazione di legge costituzionalmente rilevante nei termini precisati da Cass. n. 8053/2014 , che la domanda del F. era carente sul piano delle allegazioni relative alla natura dei pregiudizi sofferti in attesa della effettiva riammissione in servizio. Il ricorso deve conclusivamente essere respinto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.