Se il lavoratore sbaglia a qualificare il proprio credito, la sua pretesa non è automaticamente infondata

Nel caso di dichiarazione di nullità della cessione d’azienda o di ramo d’azienda, al dipendente ceduto, in assenza di prestazione lavorativa, spetta solo il diritto al risarcimento del danno.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 9724/17 depositata il 18 aprile. Il caso. Un lavoratore della Telecom s.p.a. chiedeva il pagamento della retribuzione mensile che il datore di lavoro non gli aveva corrisposto. Esso gli veniva accordato dal Tribunale. La Telecom proponeva opposizione avverso la pronuncia, in quanto il giudice non aveva tenuto conto dell’ aliunde perceptum e percipiendum , in quanto vi era stata cessione del ramo d’azienda poi dichiarata nulla e, quindi, l’obbligo retributivo non sussisteva in capo al cedente. Di opposto avviso era la Corte d’appello, avverso la cui sentenza la società ricorreva in Cassazione. Cessione del ramo d’azienda vs esternalizzazione dei servizi. Secondo il ricorrente, la retribuzione, in quanto il rapporto di lavoro a natura sinallagmatica, è collegata all’effettiva prestazione lavorativa. Bisogna a questo punto distinguere tra due ipotesi la cessione del ramo d’azienda e la mera esternalizzazione di servizi. Nel primo caso non serve il consenso dei contraenti ceduti cioè, nel caso di specie, i lavoratori affinché si realizzi la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario nel secondo caso, invece, per il perfezionamento c’è bisogno del consenso dei lavoratori ceduti. Ma questo fa sì che i ceduti senza aver prestato il loro consenso possono chiedere il risarcimento del danno per l’illegittima cessione solo ai sensi dell’art. 1218 c.c., e non secondo la speciale disciplina prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. A tal proposito vengono richiamati alcuni precedenti, tra i quali la sentenza n. 19490/14 , secondo cui sussiste solamente un obbligo risarcitorio in capo alla cedente in caso di dichiarazione di nullità della cessione d’azienda o di rami d’azienda a terzi . Ma secondo la Corte di Cassazione tale principio non è idoneo alla cassazione della sentenza impugnata, ma solo alla correzione della relativa motivazione. Infatti, la pretesa del lavoratore non può ritenersi infondata solo perché qualificata come di natura retributiva invece che risarcitoria. Spetta al giudice la qualificazione giuridica della domanda , posto comunque il limite della non introducibilità di una questione nuova o un diverso tema d’indagine . Il ricorso, dunque, pur corretta la motivazione della sentenza nel senso sopra esposto , deve essere pertanto rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 gennaio – 18 aprile 2017, numero 9724 Presidente Nobile – Relatore Balestrieri Svolgimento del processo Telecom Italia s.p.a. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Napoli numero 9708/13, esponendo che D.M.M. chiese al Tribunale di Napoli di ingiungere alla Telecom Italia s.p.a. il pagamento della retribuzione per il mese di marzo 2012. Tale richiesta era stata motivata rilevandosi che, malgrado il disposto di precedente sentenza del Tribunale di Napoli, che aveva stabilito la permanenza del rapporto di lavoro fra il D.M. e la Telecom Italia s.p.a. a seguito della dichiarata nullità della cessione del ramo di azienda alla società TNT Logistics Italia con effetto dal 1.3.2003 , quest’ultima non aveva provveduto alla corresponsione dell’emolumento indicato. Il Tribunale di Napoli ingiungeva alla Telecom il pagamento di detta somma, oltre accessori e spese di procedura. Avverso il decreto ingiuntivo proponeva opposizione la Telecom Italia, che veniva respinta dal Tribunale di Napoli con la sentenza sopra indicata. Telecom Italia s.p.a. motivava il gravame osservando, per quanto qui interessa, che la sentenza impugnata era errata nella parte in cui non aveva tenuto conto, all’atto della attribuzione delle retribuzioni in oggetto, dell’aliunde perceptum e percipiendum, trattandosi di eventuale responsabilità risarcitoria della società. Concludeva quindi per il rigetto delle domande proposte dalla parte appellata, con revoca del decreto ingiuntivo emesso, e con vittoria di spese nel doppio grado del giudizio. Il D.M. si costituiva in giudizio, resistendo alle avverse deduzioni. Con sentenza depositata il 21 novembre 2014, la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame, rilevando che successivamente alla sentenza dichiarativa della nullità della cessione del ramo di azienda, sussisteva, in capo alla cedente, l’obbligo retributivo. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso Telecom Italia s.p.a., affidato ad unico motivo. Resiste il D.M. con controricorso, poi illustrato con memoria. Motivi della decisione 1.- La ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1217, 1223, 1256, 1453 e 1463 c.c., nella parte in cui la sentenza aveva ritenuto che la costituzione in mora del creditore della prestazione lavorativa e la conseguente impossibilità sopravvenuta della prestazione per fatto imputabile al creditore stesso, determinino il diritto ad esigere la controprestazione, cioè la retribuzione, da parte del lavoratore, con impossibilità di applicare i principi della compensatio lucri cum damno”, ed in particolare dell’ aliunde perceptum . Lamenta la ricorrente che la retribuzione è comunque collegata alla effettiva prestazione lavorativa, stante la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro. Prosegue citando Cass. numero 19740/2008 e successiva giurisprudenza , secondo cui mentre nell’ipotesi della cessione di ramo di azienda si realizza la successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno di consenso dei contraenti ceduti, nel caso della mera esternalizzazione di servizi ricorre la fattispecie della cessione dei contratti di lavoro, che richiede per il suo perfezionamento il consenso dei lavoratori ceduti. Ne conseguiva, con riferimento a tale ultimo caso, che i lavoratori ceduti senza il loro consenso hanno diritto a richiedere il risarcimento del danno per l’illegittima cessione del rapporto secondo le norme civilistiche dell’illecito contrattuale, ex art. 1218 cod. civ., e non già secondo la disciplina speciale posta dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Considerato inoltre che in quel caso il rapporto di lavoro era proseguito seppure solo di fatto con la società acquirente, al lavoratore ceduto non era derivato alcun danno non essendovi stato alcun allontanamento dal posto di lavoro. Evidenzia che tale orientamento è stato più volte ribadito da questa Corte Cass. numero 19490/14, numero 19606/14, numero 19298/14, numero 18995/14, ed altre , essendo pertanto indubbio che nella specie il lavoratore non poteva vantare nei confronti della Telecom Italia alcunché a titolo retributivo, ma solo a titolo risarcitorio, con conseguente detraibilità dell’aliunde perceptum. Lamenta ancora l’erroneità della distinzione operata dalla sentenza impugnata tra il periodo precedente la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento e quello successivo, per il quale ultimo sussisterebbe, ad avviso della Corte di merito, l’obbligazione retributiva della cedente. A tal proposito evidenzia che, sussistendo solo una responsabilità risarcitoria di quest’ultima, ciò che rileva è solo la costituzione in mora del datore di lavoro, e non invece, sotto tale profilo, la sentenza che abbia dichiarato la nullità della cessione. Il ricorso è infondato. Questa Corte non può che condividere il proprio consolidato orientamento circa la sussistenza solo di un obbligo risarcitorio in capo alla cedente in caso di dichiarazione di nullità della cessione di azienda o di ramo d’azienda a terzi, ed in sostanza il principio per cui, stante la natura sinallagmatica del contratto di lavoro subordinato, in assenza della prestazione lavorativa spetti, salvo specifiche difformi disposizioni di legge cfr. ad es. l’art. 2 L. numero 7/63, poi abrogato al dipendente solo il risarcimento del danno ex aliis, Cass. ord. numero 11095/16, Cass. numero 18955/14, Cass. numero 14542/14 . Tale principio non è tuttavia idoneo alla cassazione della sentenza impugnata, ma solo alla correzione della relativa motivazione. Ed invero deve considerarsi che spetta al giudice la qualificazione giuridica della domanda e dunque l’applicazione della disciplina legale regolante la fattispecie posta al suo esame , senza essere vincolato al tenore letterale di essa o alla qualificazione giuridica datane dalla parte, con l’evidente limite di non poter introdurre una questione nuova od un diverso tema di indagine, dovendosi avere piuttosto riguardo al bene della vita in relazione al quale la tutela è richiesta, ed in sostanza all’identità dei fatti posti a suo fondamento cfr. ex aliis, Cass. 19.6.2016 numero 11805 Cass. 9.5.2016 numero 9333 Cass. 7.3.2016 numero 4384, Cass. 7.1.2016 numero 118 . Nella specie la pretesa sostanziale del lavoratore riguarda la retribuzione perduta nel mese di marzo 2012, e dunque, secondo i principi sopra esposti, il risarcimento del danno, a carico della Telecom ed in assenza di diverse allegazioni di quest’ultima, pari all’equivalente economico. In sostanza tale pretesa non può ritenersi infondata sol perché qualificata dal dipendente e poi dalla corte di merito come di natura retributiva e non risarcitoria. Né alla somma riconosciuta può detrarsi, come teoricamente possibile, alcunché, non avendo la Telecom neppure allegato, prima che provato o chiesto di provare, la percezione di altre utilità economiche conseguenti il suo della Telecom inadempimento. Né a tal fine rileverebbe la percezione, dedotta dal controricorrente, dell’indennità di mobilità, posto che essa opera su un piano diverso da quello di possibili incrementi patrimoniali soprattutto retributivi che derivano al lavoratore per essere stato liberato illegittimamente dall’obbligo di prestare la sua attività ossia la percezione dell’indennità di mobilità non è conseguenza del fatto che le energie lavorative del lavoratore licenziato siano state liberate dal recesso illegittimo, ma si raccorda al sistema di sicurezza sociale che appronta misure sostitutive del reddito in favore del lavoratore privato della retribuzione. Quindi comunque non è mai deducibile come aliunde perceptum anche nel caso in cui sia mancata la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato. La sua eventuale non debenza da luogo invece a un indebito previdenziale ripetibile, nei limiti di legge, dall’Istituto previdenziale cfr. Cass. numero 2716/2012 cfr. altresì Cass. numero 3597/2011 in tema di indennità previdenziali, non detraibili dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato a titolo di risarcimento danni in favore del lavoratore, in quanto queste non sono acquisite in via definitiva dal lavoratore e sono ripetibili dagli istituti previdenziali . È stato pertanto affermato che non ricorre alcuna violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., laddove vi sia mera qualificazione giuridica della domanda, fermi restando i fatti dedotti a suo fondamento Cass. numero 13405/15 . 3.- Nella specie è poi pacifico che il lavoratore non abbia percepito, nel medesimo periodo per cui è causa, alcuna retribuzione dalla cessionaria TNT Logistics. 4.- Il ricorso, pur corretta la motivazione della sentenza nel senso sopra esposto, deve essere pertanto rigettato. Le spese di lite seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi antecipante. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro.200,00 per esborsi, Euro.4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a., da distrarsi in favore dell’avv. Ernesto Maria Cirillo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. numero 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 numero 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.