Casa automobilistica “sorpassata” in Cassazione dal dipendente: va reintegrato

Una serie di furti interni al magazzino aziendale. È una pratica comune tra i dipendenti, a detta della casa automobilistica. Il giro di vite da parte della società è dato col licenziamento del responsabile del magazzino. Egli non poteva non essere coinvolto”. La Cassazione, però, non accetta questo ragionamento.

Così la Corte di Cassazione con la sentenza n. 4617/17 depositata il 22 febbraio. Il caso. Era stato accusato di sottrazione di prodotti aziendali il responsabile del magazzino della Abarth & amp C. s.p.a Una volta intimatogli il licenziamento, il lavoratore chiedeva al Tribunale di essere reintegrato sul posto di lavoro, sostenendo la sua estraneità ai furti avvenuti nel magazzino. La società ricorre in Cassazione avverso la sentenza d’appello che, confermando la pronuncia di primo grado, accoglieva la richiesta del lavoratore. Il lavoratore non poteva non essere coinvolto. Oppure sì? La ricorrente però, non ha molti argomenti a sostegno della propria tesi, se non quelli già utilizzati nei due giudizi di merito. Questi, però, a detta della Corte di Cassazione, sono basati su accuse prive di valenza probatoria. Secondo la Suprema Corte, infatti, la casa automobilistica ha semplicemente cercato di costruire una prova presuntiva, fondata essenzialmente sul dato ambientale , per cui il giro” di furti interno al magazzino vedeva un coinvolgimento trasversale e diffuso tra i dipendenti. Da ciò la ricorrente vorrebbe far derivare l’ inevitabilità del coinvolgimento del lavoratore, proprio perché riveste una posizione di responsabilità nel luogo di deposito della merce. Questo ragionamento, secondo il giudice di legittimità, vorrebbe superare in maniera rocambolesca il giudizio a cui si era pervenuti, che era invece connotato da precisione, puntigliosità e prudenza, grazie ad un’accurata istruttoria. Il ricorso della s.p.a., quindi, non può trovare spazio di accoglimento.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 13 ottobre 2016 – 22 febbraio 2017, n. 4617 Presidente Nobile – Relatore De Gregorio Svolgimento del processo La Corte di Appello di Torino con sentenza n. 22 in data 8/28 gennaio 2014, notificata il sette marzo, rigettava il gravame interposto il 17-10-2013 da ABARTH & amp C. S.p.a. avverso la decisione di primo grado emessa dal locale giudice del lavoro il 27-06-2013 , che aveva accolto la domanda dell’attore P.C. dipendente della società, impiegato di VI livello c.c.n.l. industria metalmeccanica, responsabile della gestione di magazzino, presso lo stabilimento sito in omissis , dichiarando illegittimo il licenziamento a costui intimato per giusta causa in data 5 ottobre 2011, con tutte le conseguenze ex art. 18 L. n. 300/70 secondo il testo ratione temporis vigente in ordine ad asserite illecite sottrazioni di prodotti aziendali, per cui era stata emessa anche misura cautelare in sede penale nei confronti del suddetto ricorrente in concorso con altri. Ad avviso della Corte piemontese non risultava provata, in base alle analitiche considerazioni svolte circa gli elementi indiziari acquisiti, la partecipazione del dipendente ai fatti dei quali era stato incolpato pure in sede disciplinare. Avverso la suddetta decisione proponeva ricorso per cassazione richiesta notifica del sei maggio 2014, 60° giorno dalla notifica la società ABARTH affidato a due motivi, denunciando in sintesi la violazione e falsa applicazione art. 360 co. I n. 3 c.p.c. delle norme di legge in tema di prova 2727, 2729 nonché 2697 c.c. , nonché criticando la motivazione 360 co. 1 n. 5 c.p.c., nuovo testo della Corte di merito, in quanto non avrebbe valutato nel loro complesso, unitariamente, gli elementi probatori, ma frammentariamente, atomisticamente ed in modo eccessivamente parcellizzato, a tal uopo deducendo l’omesso esame di fatti decisivi, oggetto di discussione tra le parti. Il lavoratore ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso. La società ricorrente in vista della pubblica udienza fissata al 13 ottobre 2016 ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. ed ha inoltre prodotto copia del decreto di citazione a giudizio, emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino il 22 luglio 2014 nei confronti tra gli altri anche di P.C. , siccome incriminati del reato p. e p. dagli artt. 81, 61 nn. 7 e 11, 110, 624 e 625 co. 1 nn. 2 e 5 c.p., per i fatti ivi descritti al capo A della rubrica, unico capo d’imputazione nel quale risulta coinvolto il P. , commessi in Torino in epoca antecedente e prossima all’agosto 2010 sino al 22 marzo 2011 mentre gli altri reati contestati con il medesimo decreto, dal capo B al capo P, vanno fino al 4 ottobre 2011 in danno di ABARTH S.p.a., dibattimento fissato per l’udienza del 29 maggio 2017 atto notificato a mezzo p.e.c. ai difensori del controricorrente il sei ottobre 2016 . Motivi della decisione Va premesso che il suddetto decreto di citazione a giudizio, emesso dal pubblico ministero presso il tribunale torinese appare irritualmente depositato, in quanto prodotto in violazione del divieto sancito dall’art. 372 c.p.c. Non è ammesso il deposito di atti e documenti non prodotti nei precedenti gradi del processo, tranne di quelli che riguardano la nullità della sentenza impugnata e l’ammissibilità del ricorso e del controricorso - cfr. altresì Cass. lav. n. 10967 del 09/05/2013, secondo cui nel giudizio di legittimità possono essere prodotti, dopo la scadenza del termine di cui all’art. 369 cod. proc. civ., e ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., soltanto i documenti che attengono all’ammissibilità del ricorso e non anche quelli concernenti la allegata fondatezza del medesimo. V. anche Cass. lav. n. 3894 del 15/06/1981, secondo cui non è consentito produrre nel giudizio di cassazione documenti che non riguardino l’ammissibilità del ricorso o la nullità in senso formale della sentenza impugnata e quindi neppure quei provvedimenti del giudice penale in data posteriore a tale sentenza, intesi a corroborare ex post, con l’esito di un giudizio penale o di una fase o di un grado dello stesso, tanto una censura attinente alla mancata sospensione del giudizio civile di merito, quanto una censura attinente ad un preteso error in iudicando della decisione che lo abbia definito. Conforme Cass. n. 38/1980 . Il ricorso comunque, pure ove anche integrato dall’anzidetta irrituale documentazione, deve ritenersi inammissibile, visto peraltro che la decisione di merito qui impugnata ha tenuto anche conto delle indagini svolte nel procedimento penale, poi compendiate nel succitato decreto di citazione a giudizio cfr. tra l’altro Cass. I sez. pen. n. 12845 del 27/02 - 04/04/2002, secondo cui il decreto di rinvio a giudizio - pur dopo le modifiche apportate alla disciplina dell’udienza preliminare dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 - non è il risultato di una valutazione positiva dei gravi indizi di colpevolezza tale da precludere sul punto l’esame del giudice de libertate , laddove d’altro canto l’inoppugnabilità del decreto che dispone il giudizio renderebbe di fatto irrimediabile, per tutto il corso del giudizio di primo grado, l’errore eventualmente commesso dal giudice nel ritenere sussistente il requisito dei gravi indizi di colpevolezza, con grave disparità di trattamento rispetto al caso dell’imputato il quale sia stato tratto a giudizio con citazione diretta da parte del pubblico ministero, ai sensi dell’art. 550 cod.proc.pen In senso analogo, Cass. sez. un. pen. n. 39915 del 30/10 - 26/11/2002, nonché Cass. V pen. n. 30179/2002 e II pen. n. 18111/2003 . Ed invero con i due motivi, che per la loro connessione ben possono essere congiuntamente esaminati, così come similmente peraltro anche in effetti esposto con il ricorso di cui è processo, la società istante tende in effetti a rivalutare, ma irritualmente in questa sede di legittimità, le medesime circostanze di fatto, che però con ampia e minuziosa argomentazione sono state già insindacabilmente accertate ed apprezzate, quanto alla loro rilevanza probatoria, in senso negativo dai competenti giudici di merito. Come è noto, il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360, comma primo, n. 5 , cod. proc. civ., non equivale alla revisione del ragionamento decisorio , ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di Cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa Cass. civ. Sez. 6 - 5, n. 5024 del 28/03/2012. V. altresì in senso conforme Cass. n. 91 del 07/01/2014, secondo cui inoltre il giudice di legittimità non può neanche porre a fondamento della sua decisione un fatto probatorio diverso od ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice di merito. In senso analogo v. altresì Cass. n. 15489 del 2007 e n. 5024 del 2012 . Nel caso di specie, per di più, non è possibile la denuncia di alcun vizio ex art. 360 co. I n. 5 c.p.c., operando ratione temporis la preclusione da c.d. doppia conforme, di cui all’art. 348 ter ultimo comma c.p.c., inserito dall’art. 54, co. 1, lett. a , d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134. La norma, per espressa previsione dell’art. 54, co. 2, d.l. cit., si applica ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto avvenuta il 12 agosto 2012 . Infatti, l’impugnata sentenza, risalente al gennaio 2014, nel rigettare il gravame ha confermato la decisione di primo grado in data 27-06-2013, di guisa che il conseguente relativo appello è intervenuto necessariamente in epoca successiva al termine di cui al succitato art. 54. È certo, invece, che nella specie la Corte di merito con ampie argomentazioni ha esaminato analiticamente e specificamente i vari motivi di appello, dedotti dall’attuale ricorrente, giudicandoli infondati alla luce di quanto già parimenti valutato dal Tribunale in primo grado. Basti appena citare quanto correttamente e condivisibilmente osservato dalla Corte distrettuale riguardo al settimo motivo di gravame, con il quale era già stata denunciata l’asserita erronea applicazione dei principi in tema di valutazione della prova unitamente al mancato ricorso a quella presuntiva cfr. pagg. 33 e 34 della pronuncia d’appello Si tratta di un motivo del tutto generico e sostanzialmente immotivato, che meriterebbe la sanzione dell’inammissibilità. Pretende infatti l’appellante di vedere affermata in sede giudiziaria la responsabilità disciplinare del P. , sulla base quanto meno di numerosi indizi caratterizzati da innegabile gravità, precisione e concordanza e come tali idonei a fornire prova ai sensi del prodotto effetti dell’articolo 2729 c.c. p. 49 ric. so . Tenta così l’appellante di recuperare ai propri fini la pluralità degli elementi di fatto portati a sostegno delle proprie accuse, pretendendo di utilizzarli, dopo che è stata puntualmente e specificamente smentita la loro valenza probatoria, ai fini della costruzione di una prova presuntiva, fondata essenzialmente sul dato ambientale per cui in tanti nel magazzino Abarth sono risultati coinvolti nel giro dei furti e su una sorta di inevitabilità del coinvolgimento del P. stante la sua posizione di responsabile così superando in maniera alquanto rocambolesca il giudizio a cui si è pervenuti dopo un’accurata istruttoria ed una ancor puntigliosa ricostruzione degli elementi in fatto, e la successiva, prudente valutazione della loro effettiva portata in relazione alle contestazioni mosse. Si tratta di operazione che, soprattutto se messa a confronto con il rigore argomentativo della decisione di primo grado, non può certo trovare qui spazi di accoglimento . Stante l’inammissibilità del ricorso, la società, essendo rimasta soccombente, va condannata alle relative spese ed è, inoltre, tenuta, come per legge, al versamento dell’ulteriore contributo unificato. P.Q.M. la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese, che liquida, a favore del controricorrente, in Euro 5000,00 cinquemila/00 per compensi professionali ed in Euro 100,00 cento/00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.