Una vignetta diffusa su una chat tra colleghi gli costa il licenziamento: si configura ritorsione?

Vi sono vari aspetti da considerare, in capo al datore di lavoro, per evitare di incorrere nella fattispecie di licenziamento ritorsivo. Nel caso di specie, un’immagine, satirica sebbene un po’ volgare, porta al licenziamento disciplinare di un dipendente che l’aveva inviata in una chat privata con i colleghi. La Corte di Cassazione spiega come avviene l’accertamento della ritorsività e in cosa deve consistere la ricostruzione della volontà del datore di lavoro.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 2499/17 depositata il 31 gennaio. Il caso. A carico di un lavoratore di una società, facente parte della divisione Guccio Gucci spa, veniva disposto licenziamento per motivi disciplinari, avendo egli pubblicato un’immagine, ritenuta lesiva dell’immagine aziendale, su una chat di Facebook condivisa con una decina di colleghi. Tale vignetta consisteva in una rappresentazione di un coperchio di vasellina a cui era sovrapposto il marchio Gucci”. Il licenziamento veniva annullato dal giudice del lavoro e l’annullamento era poi confermato in appello. Avverso tale sentenza ricorreva la società. Il licenziamento è ritorsivo, se non vi è lesione dell’immagine aziendale. Quest’ultima eccepiva la configurabilità dell’intento ritorsivo del licenziamento, rinvenuto invece dai giudici di merito. Secondo il ricorrente la lesività di quell’immagine nei confronti del marchio era motivo più che sufficiente per l’integrazione del licenziamento disciplinare, il che escludeva, al contempo, l’intento ritorsivo di quest’ultimo, consistendo invece in una sanzione proporzionata. La Corte di Cassazione ricorda come il licenziamento ritorsivo, ex art. 1345 c.c., consta di due diversi accertamenti il motivo di ritorsione motivo illecito la assenza di altre ragioni lecite determinanti esclusività del motivo . Essi però portano la Suprema Corte ad un nulla di fatto. Il giudice di merito aveva valutato quale potesse essere l’effettiva lesione dell’immagine aziendale, e l’aveva esclusa, argomentando sulla limitata diffusione della vignetta tra i dieci partecipanti alla chat e sulla assenza di prova di una sua divulgazione all’esterno dell’ambiente di lavoro . Poiché tale valutazione volge attorno alla ricostruzione della volontà del datore di lavoro, la quale può portare all’illiceità o meno del licenziamento, la Corte di Cassazione non esprimersi ulteriormente, dovendosi attenere ai limiti stabiliti dall’art. 360, n. 5, c.p.c Per questo motivo la Corte rigetta il ricorso.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 27 ottobre 2016 – 31 gennaio 2017, n. 2499 Presidente Nobile – Relatore Spena Svolgimento del processo Con ricorso al Tribunale di Firenze del 13.3.2013, ai sensi dell’articolo 1 co. 47 L.92/2012, S.C. impugnava il licenziamento disciplinare intimatogli in data 19.12.2012 dalla società LUXURY GOODS OUTLET srl in prosieguo, per brevità Luxury srl - facente parte della divisione Guccio Gucci spa - per avere gravemente offeso l’immagine dell’azienda pubblicando su una chat privata del social network Fecebook, nella quale i lavoratori si scambiavano informazioni sull’incontro sindacale per il rinnovo del contratto integrativo, una immagine raffigurante un coperchio di vasellina cui era sovrapposto un disegno ed il marchio Gucci deduceva la mancanza di proporzionalità del licenziamento e la sua natura ritorsiva. Con ordinanza del 7.8.2013 il giudice del lavoro annullava il licenziamento sotto il profilo della mancanza di proporzionalità. Con sentenza del 7.1.2014 nr. 2/2014 il Tribunale rigettava la opposizione proposta dalla società LUXURY srl, ritenendo la fattispecie riconducibile all’ipotesi di insussistenza del fatto disciplinare, ex articolo 18 co. 4 L. 300/1970, per essere stato esercitato il diritto di critica e di satira. La Corte di Appello di Firenze, con sentenza dell’11.4.2014 nr. 401/2014 , rigettava il reclamo della società e dichiarava la nullità del licenziamento in quanto ritorsivo applicando il comma 1 dell’articolo 18. La Corte territoriale rilevava che il S. aveva dedotto il carattere ritorsivo del licenziamento, rappresentando di essere stato originariamente assunto a tempo determinato ed inserito nell’organico aziendale solo a seguito della impugnazione in via giudiziaria della apposizione del termine. L’addebito disciplinare rappresentava un pretesto per allontanare un lavoratore rientrato da appena un anno in esito al precedente contenzioso, che si era dimostrato, con la partecipazione attiva alla chat, per nulla remissivo alle iniziative datoriali sulla organizzazione del lavoro, cercando di coinvolgere altri colleghi nella contestazione nella fase di rinnovo degli accordi sindacali aziendali. Era assente un motivo legittimo di licenziamento, come evidente per la banalità del fatto contestato la immagine pubblicata recava una vignetta satirica non dissimile alle rappresentazioni quotidianamente diffuse dai mass media il disegno aveva ricevuto una diffusione limitata ai dieci colleghi del S. partecipanti alla chat. L’accesso dall’esterno restava del tutto eventuale e legato ai contatti dei singoli aderenti alla chat non risultava che la vignetta avesse avuto diffusione ulteriore sul web e che potesse avere qualche interesse per il pubblico degli acquirenti del marchio GUCCI. L’unico motivo determinante era dunque quello ritorsivo. Da ultimo l’aliunde perceputm, pur non essendo oggetto di una eccezione in senso stretto ma fatto rilevabile d’ufficio, non poteva trovare ingresso nel giudizio per mancanza di specificità delle allegazioni e delle richieste di prova del datore di lavoro. Per la Cassazione della sentenza ricorre LUXURY srl, articolando due motivi, illustrati con memoria. Resiste con controricorso S.C. . Motivi della decisione 1. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto - ai sensi dell’articolo 360 co.1 nr 3 cpc violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116. cpc 1175, 1324, 1345, 1375, 1418 co. 2, 1455, 2104, 2105, 2106, 2607, 2727, 2729 cc. - ai sensi dell’articolo 360 nr.5 cpc omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti. Ha esposto che il fatto disciplinare contestato consisteva nell’avere pubblicato nella chat del social network Facebook denominata Vaselina day una immagine lesiva del marchio Gucci - della cui divisione faceva parte l’azienda - che raffigurava un tappo di vasellina con il segno distintivo del gruppo Gucci la doppia G , una caricatura di spalle con il dito medio puntato sul fondoschiena e la scritta Gucci Vaselina la trovi nei migliori outlet . Ha dedotto la violazione dei consolidati principi in tema di oneri probatori del licenziamento ritorsivo, lamentando che nella sentenza impugnata non vi era il richiamo ad elementi fattuali da cui trarre la prova della natura ritorsiva del licenziamento, in quanto, come da essa dedotto sin dalla prima fase, la precedente controversia tra le parti era stata conciliata e con il S. era stato licenziato anche un altro dipendente. Vi era altresì vizio della motivazione circa un fatto decisivo del giudizio ovvero la efficienza causale esclusiva dell’intento ritorsivo, in ragione della presenza di un addebito disciplinare idoneo a giustificare il licenziamento. La Corte di merito confondeva la inosservanza degli obblighi di correttezza, buona fede e civiltà sottesi al rapporto di lavoro con la satira televisiva o a mezzo stampa, nella quale mancava un vincolo obbligatorio tra autore e destinatario della satira. Né poteva invocarsi il diritto di critica, che doveva essere rivolto nei confronti di scelte organizzative del datore di lavoro laddove l’immagine pubblicata era gratuitamente lesiva del decoro del datore di lavoro. La sentenza non offriva alcuna giustificazione della assunta banalità del fatto senza valutare la grave lesione dell’immagine del gruppo GUCCI realizzata con la denigrazione del marchio, gravemente pregiudizievole degli interessi del datore di lavoro. La natura ritorsiva del licenziamento era esclusa dalla fondatezza dell’addebito disciplinare contestato, rispetto al quale il licenziamento era sanzione proporzionata. Il motivo è inammissibile. Il licenziamento ritorsivo ricade nella disciplina dell’articolo 1345 cc. sicché il relativo giudizio consta di due accertamenti il motivo di ritorsione motivo illecito la assenza di altre ragioni lecite determinanti esclusività del motivo . Ambedue gli accertamenti involgono un giudizio di fatto, in quanto teso a ricostruire la volontà del datore di lavoro ne consegue che in sede di legittimità tale giudizio è censurabile nei limiti di cui all’articolo 360 nr. 5 cpc. Nella fattispecie si applica ratione temporis il vigente testo del suddetto articolo 360 nr. 5 cpc sicché il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di omesso esame di un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti. La denunzia non coglie alcun fatto non esaminato in sentenza giacché il giudice del merito ha considerato la potenziale lesione dell’immagine aziendale derivata dalla condotta contestata, che ha escluso argomentando sulla limitata diffusione della vignetta tra i dieci partecipanti alla chat e sulla assenza di prova di una sua divulgazione all’esterno dell’ambiente di lavoro si veda a pagina 3 della sentenza . Al compito assegnato alla Corte di Cassazione dal nuovo testo dell’articolo 360 nr. 5 cpc resta invece estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice. Per le stesse ragioni anche la censura sul difetto di prova dell’intento ritorsivo non è sussumibile nella ipotesi dell’articolo 360 nr. 5 cpc, risolvendosi, piuttosto che nella allegazione di un fatto non esaminato, nella deduzione di una insufficienza della motivazione. 2. Con il secondo motivo la società ricorrente ha denunziato - ai sensi dell’articolo 360 nr. 3 cpc violazione e falsa applicazione degli articoli 18 co.2 L. 300/1970 e 115 cpc - ai sensi dell’articolo 360 co.1 nr.5 cpc. omesso esame circa un fatto decisivo del giudizio ed oggetto di discussione tra le parti. Il motivo afferisce al rigetto della eccezione di aliunde perceptum . La società ricorrente ha esposto di avere ritualmente richiesto sin dalla prima fase del procedimento l’interrogatorio formale del S. e la assunzione di informazioni presso l’INPS e la Agenzia delle Entrate in ordine ai compensi da questi percepiti in epoca successiva al licenziamento, come dal capitolo di prova trascritto nel presente ricorso. Ha dedotto che le richieste istruttorie articolate costituivano l’unico mezzo di prova dell’ aliunde perceptum e che immotivatamente non erano state accolte l’interrogatorio formale o erano state disattese. Il motivo è infondato. Questa Corte ha già affermato con riguardo all’ aliunde perceptum o percipiendum , che la deduzione - pur non integrando una eccezione in senso stretto ed essendo, pertanto rilevabile dal giudice anche in assenza di un’eccezione di parte - presuppone comunque l’allegazione da parte del datore di lavoro di circostanze di fatto specifiche Cfr. Cass. sez. lav. 04/12/2014, n. 25679. Il Giudice del merito ha correttamente applicato le norme di legge evocate nella rubrica del motivo, attribuendo valenza preclusiva all’ingresso dei mezzi istruttori alla mancanza di una puntuale allegazione del datore di lavoro circa il reperimento da parte del lavoratore di altra occupazione, non essendo consentita la acquisizione della prova su fatti genericamente allegati. Peraltro, sempre per consolidata giurisprudenza di legittimità il datore di lavoro, onerato a provare l’ aliunde perceptum da detrarre dall’ammontare del risarcimento del danno dovuto in base all’articolo 18 legge n. 300/1970, non può esonerarsi chiedendo al giudice di voler disporre generiche informative o di attivare poteri istruttori con finalità meramente esplorative Cassazione civile sez. lav. 11 marzo 2015 n. 4884,. 29 dicembre 2014 n. 27424, 04 dicembre 2014, n. 25679. La denunzia proposta sotto il profilo del vizio di motivazione parimenti difetta della allegazione del fatto decisivo del giudizio non esaminato dal giudice del merito in quanto dedotto nel capitolato delle prove non ammesse. Il ricorso deve essere conclusivamente respinto. Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell’articolo 1 co 17 L. 228/2012 che ha aggiunto il comma 1 quater all’articolo 13 DPR 115/2002 - della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100 per spese ed Euro 4.000 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge, con attribuzione. Ai sensi dell’articolo 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.