L’avvio del procedimento disciplinare a seguito della “privatizzazione” del pubblico impiego

In tema di licenziamento disciplinare, la Corte di Cassazione fa chiarezza sulle tempistiche di contestazione della condotta da sanzionare, specie nel particolare campo del pubblico impiego e soprattutto a seguito della privatizzazione” intervenuta nel settore.

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 209/17 depositata il 9 gennaio. Il caso. Un’insegnante era stata destinataria di un provvedimento di licenziamento dall’incarico temporaneo di supplente e, successivamente, si vedeva applicata dal MIUR la sanzione disciplinare dell’esclusione definitiva dall’insegnamento a causa di alcuni fatti gravi, oggetto di separato giudizio in sede penale. In seguito impugnava i summenzionati provvedimenti, censurandoli sotto il profilo formale per essere decaduta l’Amministrazione dall’esercizio della potestà disciplinare, in considerazione del tempo trascorso tra la conoscenza dei fatti e la contestazione degli stessi . Al rigetto della domanda ad opera del Tribunale d’appello, si faceva quindi seguire ricorso in Cassazione. Il parallelo procedimento penale. Motivo di doglianza della ricorrente era il fatto che la P.A. non aveva prontamente irrogato la sanzione, in violazione del termine di 40 giorni per effettuare contestazioni. La ritardata contestazione era giustificata ufficialmente dalla volontà di attendere l’esito del procedimento penale legato alla vicenda. Secondo l’ex insegnante tale attesa non era essenziale al fine dell’agire disciplinare e, anzi, dimostrava l’assenza di buona fede e correttezza in capo all’Amministrazione. Inoltre, nel frattempo era intervenuto il d. lgs. n. 150/2009, la cui disciplina andava applicata, in virtù del principio tempus regit actum . La privatizzazione” del pubblico impiego e le conseguenze. Secondo la Corte di Cassazione il motivo non è fondato e, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, il dies a quo per l’effettuazione della contestazione è stato correttamente individuato dal giudice della sentenza impugnata. A seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici è venuto meno il divieto di avvio di un procedimento disciplinare in pendenza di quello penale, quindi è data facoltà all’Amministrazione di scegliere in ogni tempo se avviare il procedimento disciplinare o attendere l’esito del giudizio penale . In tal proposito le regole introdotte dal d. lgs. non prevedono una disciplina transitoria, motivo per il quale si applica il principio del tempus regit actum . La Suprema Corte, inoltre, non ravvisa alcuna violazione della buona fede da parte della P.A., soprattutto tenendo conto del fatto che l’attesa non avrebbe comunque potuto pregiudicare il diritto alla difesa , poiché tale diritto va considerato solo dopo l’avvenuta contestazione. Per questi motivi il ricorso deve essere rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 ottobre 2016 – 9 gennaio 2017, n. 209 Presidente Macioce – Relatore Tricomi Svolgimento del processo 1. La Corte d’Appello di Lecce, con la sentenza n. 1618 del 2014, rigettava l’impugnazione proposta da L.S.F. nei confronti del MIUR e dell’Ufficio scolastico regionale per la Puglia, avverso la sentenza n. 276 del 16 gennaio 2013, emessa tra le parti dal Tribunale di Lecce. 2. Espone il giudice di secondo grado che la L. , docente dapprima destinataria di provvedimento di licenziamento dall’incarico temporaneo di supplente del 10 maggio 2007, adottato dal dirigente scolastico dell’Istituto , e poi inclusa per la provincia di Lecce e per il triennio 2007/2009 nelle graduatorie ad esaurimento degli insegnanti non di ruolo fascia 3 A047, matematica Ad01 , negli elenchi di sostegno area scientifica e nella graduatoria provinciale definitiva A47matematica , inclusioni ottenute all’esito di provvedimenti cautelari del TAR di Lecce, impugnava il provvedimento n. 0001624, del 29 luglio 2010, con il quale il MIUR aveva applicato nei suoi confronti la sanzione disciplinare della esclusione definitiva dall’insegnamento ai sensi dell’art. 535, punto 6, e dell’art. 537, del d.lgs. n. 297 del 1994. A sostegno della impugnazione rilevava l’illegittimità del provvedimento sanzionatorio sotto il profilo formale, per essere decaduta l’Amministrazione dall’esercizio della potestà disciplinare, in considerazione del tempo trascorso tra la conoscenza dei fatti e la contestazione degli stessi, che aveva condotto all’applicazione della sanzione impugnata, quest’ultima da ritenersi, quindi, tardivamente irrogata, nonché sotto il profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità degli illeciti disciplinari. Si costituiva il MIUR sostenendo la legittimità del provvedimento disciplinare. 3. Il Tribunale rigettava la domanda. 4. Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la L. prospettando tre motivi di ricorso. 5. Resiste il MIUR, Ufficio scolastico regionale per la Puglia, Direzione generale, Ufficio , con controricorso. 6. La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cpc. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso, con plurime argomentazioni, è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 117 del d.P.R. n. 3 del 1957 del d.lgs. n. 150 del 2009, art. 5, comma 4 della legge n. 97 del 2001 dell’art. 55-bis del d.lsg. n. 165 del 2001 degli artt. 535-539 del d.lgs. n. 297 del 1994 dell’art. 2106 cc dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 violazione dei principi del legittimo affidamento e di buona fede e correttezza. Assume la ricorrente che, in virtù del principio tempus regit actum , nella specie doveva trovare applicazione il d.lgs. n. 150 del 2009, entrato in vigore il 15 novembre 2009, che aveva modificato il d.lgs. 165 del 2001, e in particolare l’art. 55. Dunque, il termine perentorio per l’adozione dell’atto di contestazione sarebbe dovuto essere di 40 giorni decorrenti dalla conoscenza legale dei fatti contestati in realtà risalente al febbraio-marzo 2007 , e pertanto lo stesso andava computato dall’entrata in vigore del d.lgs. 150 del 2009, come sancito dagli artt. 55-bis e 55-ter del d.lgs. n. 165 del 2001. Erroneamente, il giudice di appello applicava la disciplina previgente art. 117 della legge n. 3 del 1957, in particolare , dopo aver riconosciuto che l’Amministrazione era a conoscenza degli addebiti disciplinari già nel periodo febbraio-marzo 2007, sostenendo che il momento di insorgenza dell’obbligo di contestazione doveva farsi risalire alla conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna avvenuta con nota del 20 aprile 2010. Doveva, invece, trovare applicazione l’art. 55-bis del d.lgs. n. 165 del 2001, ma anche nel caso di ritenuta applicabilità dell’art. 55 del medesimo d.lgs., vecchio testo, l’applicazione in senso relativo del principio di immediatezza non escludeva l’intempestivo avvio dell’azione disciplinare. Il lungo tempo trascorso tra la conoscenza dei fatti e la contestazione denotava nell’Amministrazione l’assenza di buona fede e correttezza. Rilevava, altresì, che l’attesa dell’esito del procedimento penale non era essenziale al fine dell’agire disciplinare, atteso che sempre l’amministrazione scolastica aveva posto in essere le altre iniziative disciplinari, e si era arbitrariamente astenuta dal contestare gli stessi fatti anche ai fini della irrogazione della differente finalità sanzionatoria quale quella dell’allontanamento definitivo dall’insegnamento. La sentenza di appello veniva censurata anche nella parte in cui aveva affermato che, nel rapporto di lavoro a tempo determinato, il decorso di un tempo anche lungo tra conoscenza datoriale della commissione dell’infrazione disciplinare e contestazione della stessa assume un valore assai meno pregnante che nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato. 2. Occorre premettere che, come dedotto nella sentenza di appello, la ricorrente ha impugnato il provvedimento prot. n. del 29 luglio 2010, con il quale il MIUR aveva applicato nei confronti della stessa la sanzione disciplinare della esclusione definitiva dall’insegnamento ai sensi dell’art. 535, punto 6, e dell’art. 537 del d.lgs. n. 297 del 1994. La contestazione disciplinare era intervenuta con lettera del 25 maggio 2010, dopo che con nota del 20 aprile 2010 era stata comunicata alla USR il passaggio in giudicato, in data 26 gennaio 2010, della sentenza del 14 maggio 2009, emessa nei confronti della L. dal GIP presso il Tribunale di Lecce, ex art. 444 cpc, con cui veniva accolta la richiesta di pena concordata tra le parti anni due di reclusione , ritenendo l’ipotesi di reato di cui all’art. 609-bis, c.3, c.p 3. La Corte d’Appello ha fatto riferimento alla data del 20 aprile 2010, conoscenza del passaggio in giudicato della sentenza penale di patteggiamento, per valutare la tempestività della procedura disciplinare, ritenendo tempestiva la contestazione intervenuta il 25 maggio 2010. Non concorre, quindi, ad integrare la ratio decidendi , ma costituisce un mero obiter dictum , l’affermazione della Corte d’Appello circa il meno pregnante valore del decorso del tempo, nel rapporto di lavoro a tempo determinato rispetto al rapporto di lavoro a tempo indeterminato, tra conoscenza dell’infrazione e contestazione della stessa, con conseguente inammissibilità della relativa censura. Ad avviso della ricorrente, essendo già intervenuta la conoscenza legale dei fatti contestati in realtà risalente al febbraio-marzo 2007 al momento dell’entrata in vigore del d.lgs. 150 del 2009, da tale momento doveva iniziare a decorrere il termine di 40 giorni, come previsto dalla novella, per effettuare la contestazione, con conseguente tardività, nella specie, di quest’ultima. 4. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato, avendo la Corte d’Appello correttamente individuato il dies a quo per l’effettuazione della contestazione, dovendosi tuttavia correggere la motivazione della sentenza di appello nei sensi di seguito esposti. 5. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare Cass., n. 11985 del 2016 e n. 11635 del 2016 , a seguito della privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti pubblici, essendo divenuto inapplicabile l’art. 117 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 cfr. allegato a, sub VI, Scuola , del d.lgs. n. 165 del 2001 , che stabiliva il divieto di avvio di un procedimento disciplinare in pendenza di quello penale, all’amministrazione è data facoltà in ogni tempo di scegliere se avviare il procedimento disciplinare o attendere l’esito del giudizio penale v., Cass., n. 9458 del 2009 . Nella vigenza del regime di pubblico impiego privatizzato la regola è costituita dalla possibilità - e non più dall’obbligo - di attendere l’esito del processo penale in ordine all’accertamento dei fatti prima di avviare il procedimento disciplinare, così come è facoltà dell’Amministrazione sospendere il procedimento già avviato in attesa dell’esito del giudizio penale. Una volta optato per l’attesa dell’esito definitivo - come è avvenuto nella specie - la fattispecie restava regolata dalla stessa disciplina contrattuale per tutta la durata del procedimento. La P.A. aveva optato per il differimento dell’iniziativa disciplinare, né poteva incidere sulla situazione così determinatasi il sopravvenire delle nuove regole introdotte dal d.lgs. 150 del 2009, che non prevedono una disciplina transitoria, per cui deve trovare applicazione il generale principio per cui i procedimenti sono regolati dalla normativa del tempo in cui gli atti sono posti in essere. In relazione all’epoca dell’inizio del procedimento penale a carico della docente 2007 misura interdittiva del GIP, limitatamente al reato di cui all’art. 609-quater c.p. 2008 richiesta del P.M. di rinvio a giudizio per il delitto di cui agli artt. 81, 609-quater, comma 1, n. 2, c.p. - il cui capo di imputazione è riportato nella sentenza di appello - in relazione alla quale veniva chiesta l’applicazione dell’art. 444 c.p.p., ritenendosi la fattispecie di cui all’art. 609-bis, c.3, c.p. doveva farsi applicazione della disciplina contrattuale l’art. 93 del CCNL comparto scuola 2002-2005, e l’art. 96 del CCNL del comparto scuola 2006-2009, prevedono al comma 1, in modo analogo Nel caso di commissione in servizio di gravi fatti illeciti, commessi in servizio, di rilevanza penale l’amministrazione inizia il procedimento disciplinare ed inoltra la denuncia penale. Il procedimento disciplinare rimane tuttavia sospeso fino alla sentenza definitiva. Analoga sospensione è disposta anche nel caso in cui l’obbligo della denuncia penale emerga nel corso del procedimento disciplinare già avviato , che ha certamente natura di norma procedimentale. La circostanza della introduzione medio tempore di nuove regole del procedimento disciplinare non poteva incidere sulla situazione determinatasi al tempo della vigenza del precedente regime ciò in forza del generale principio per cui i procedimenti sono regolati dalla normativa del tempo in cui gli atti sono posti in essere, non esclusa, ovviamente, quella che consentiva di differire la contestazione disciplinare all’esito del giudizio penale cfr., pure Cass. n. 21032 del 2006 . Pertanto, non vi era alcun onere della P.A. di avviare il procedimento disciplinare o comunque di riattivarsi una volta entrato in vigore il d.lgs. 150 del 2009, che, all’art. 55-ter rapporti fra procedimento disciplinare e procedimento penale , ha definitivamente soppresso la regola della pregiudizialità penale in favore di quella della autonomia dei due procedimenti, prevedendo che il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l’autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale . Come affermato nella giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, la nuova disciplina procedurale si applica a tutti i fatti disciplinarmente rilevanti per i quali la notizia dell’infrazione sia acquisita dagli organi dell’azione disciplinare dopo l’entrata in vigore della riforma, ossia dal 16 novembre 2009 e restano regolati dalla disciplina previgente al d.lgs. n. 150 del 2009 i casi in cui la notizia dell’infrazione è stata acquisita anteriormente. Ne discende che, sopravvenuta la normativa di cui al d.lgs. 150 del 2009, l’amministrazione non aveva l’onere di inviare la contestazione disciplinare, né di rinnovare la sua volontà successivamente all’entrata in vigore della novella. Né l’attesa avrebbe potuto pregiudicare il diritto alla difesa, considerato che tale diritto viene in considerazione dal momento della contestazione, in questo caso avvenuta dopo il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna. Pertanto, in ragione della disciplina sopra richiamata che regola la fattispecie, non è ravvisabile alcuna violazione della buona fede e dell’affidamento da parte dell’amministrazione, che ha effettuato tempestivamente la contestazione. 6. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta violazione art. 360, n. 5, cpc. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Assume la ricorrente che il giudice di appello non ha tenuto conto dell’accordo transattivo del 9 aprile 2009. Ciò assume rilievo al fine di dimostrare l’assenza di buona fede nell’operato dell’Amministrazione, la quale pur avendo adottato già nel 2007 alcuni provvedimenti disciplinari nei confronti della docente manifestava solo nel maggio 2010 la volontà di procedere disciplinarmente per i medesimi fatti. L’Amministrazione aveva siglato un accordo transattivo con la docente, con il quale aveva manifestato il venir meno dell’interesse ad agire disciplinarmente nei suoi confronti e dichiarava espressamente cessata la materia del contendere con connessa archiviazione della relativa pratica, senza riservarsi espressamente di agire in giudizio all’esito del procedimento penale ex art. 444 c.p.p. nei termini in cui si era poi attivata, in tal modo ingenerando un legittimo affidamento al mancato avvio di altre iniziative disciplinari. Ciò, anche alla luce della sospensione del provvedimento di ammissione con riserva della ricorrente nella graduatorie provinciali del 12 dicembre 2007, disposta dal TAR Lecce. 7. Il motivo è inammissibile per violazione del criterio dell’autosufficienza, atteso che con lo stesso si lamenta l’omesso esame da parte del giudice di appello di un fatto decisivo, oggetto di contraddittorio tra le parti, senza tuttavia compiutamente riportare nella sua integralità, nel ricorso, il relativo motivo di appello, sì da consentire alla Corte di verificare che la questione sottoposta non sia nuova e di valutare la decisività del motivo stesso senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte. 8. Con il terzo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 535, punto 6, e dell’art. 537, del d.lgs. n. 165. del 2001. Violazione dell’art. 2106 cc. La ricorrente assume che il giudice di merito non avrebbe fatto corretta applicazione del principio di proporzionalità tra i fatti contestati e la sanzione irrogata esclusione definitiva dall’insegnamento , essendoci stato un appiattimento tra la motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare e il contenuto della sentenza di patteggiamento. L’avere ritenuto legittima la sanzione più grave, tra quelle di cui alla citata disciplina, si pone in contrasto con quanto statuito in sede penale ove veniva riscontrata un’ipotesi lieve del reato di violenza sessuale, in considerazione dell’assenza di congiunzione carnale, nonché in considerazione della passività delle condotte subite. 9. Il motivo non è fondato. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare Cass., n 18858 del 2016 in tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta. Nella specie, la Corte d’Appello ha esaminato specificamente la questione della proporzionalità della sanzione affermando, in via preliminare, che il provvedimento impugnato non era censurabile per l’assenza di autonoma valutazione della rilevanza disciplinare del fatto, atteso che veniva posto in rilievo la grave negazione della funzione educativa nel contegno serbato dall’insegnante. Rilevava, quindi, che appariva arduo comprendere come fosse ipotizzabile l’eventuale futuro affidamento di minori alla L. , affinché la stessa quale docente si occupasse della loro istruzione, educazione, vigilanza e custodia. I comportamenti tenuti, quali indicati nel capo di imputazione a cui la Corte d’Appello ha fatto espresso richiamo, avendoli riportati in sentenza, si connotavano per il loro grave disvalore disciplinare morale e sociale, e tanto a prescindere dalla circostanza che, in sede penale, fosse stata ritenuta la sussistenza di una ipotesi di minore gravità, con conseguente diminuzione della pena in misura non eccedente i due terzi. 10. Generica è la doglianza relativa all’esclusione, in sede penale, della pena accessoria dell’interdizione perpetua da qualunque incarico nelle scuole, che la ricorrente, peraltro, assume essere stata introdotta dopo i fatti commessi. Ed infatti, l’art. 609 nonies c.p., che la prevede, è stato introdotto dalla legge 38 del 2006 e come affermato da questa Corte sentenza n. 8 del 2015 non poteva trovare applicazione per fatti commessi anteriormente in virtù del divieto di retroattività della legge penale disposto dall’art. 12 c.p. e art. 25 Cost. Pertanto, non è ravvisabile il dedotto contrasto nella valutazione di proporzionalità svolta dalla Corte d’Appello, anche in ragione dell’autonomia tra il procedimento penale e il procedimento disciplinare. 11. Il ricorso deve essere rigettato. 12. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio nei confronti dell’Amministrazione che liquida in euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.