Il datore di lavoro non può abolire le festività

Non è possibile considerare legittimo il comportamento di una delle parti non dell’accordo interconfederale ma del contratto individuale di lavoro che, unilateralmente, abbia deciso di disapplicare parzialmente, e quindi modificare, il contenuto dell’accordo medesimo a seguito di una delle modifiche legislative in tema di festività, che invece le stesse parti collettive non hanno ritenuto idonee a determinare revisioni della disciplina dell’accordo nazionale da loro sottoscritto

Così si è espressa la Corte di Cassazione con la sentenza n. 26756/16 depositata il 22 dicembre 2016. Il caso. Alcuni lavoratori hanno adito il Tribunale di Napoli per ottenere il riconoscimento del proprio diritto a fruire, dal 2001, di due ulteriori giorni di permesso retribuito annuo, alla stregua degli accordi confederali che regolano la materia, dichiarando illegittima la riduzione operata, con atto unilaterale, dall’azienda a decorrere dal 2001. In particolare, la legge n. 54/1977 aveva soppresso alcune festività religiose e differito alcune festività civili facendole coincidere con la domenica. La federazione nazionale delle imprese di trasporti e l’associazione nazionale degli autoservizi in concessione stipularono con le organizzazioni sindacali nazionali di categoria un accordo collettivo nazionale, con il quale stabilirono che, a compensazione ed in luogo delle festività soppresse o differite, venivano attribuite ai dipendenti due giornate di ferie aggiuntive ed ulteriori quattro giornate di permesso retribuito. In seguito il Legislatore è più volte ritornato sul tema, reintroducendo due festività l’Epifania e il 2 giugno e l’azienda ha deciso unilateralmente di disapplicare l’accordo confederale, unilateralmente riducendo di due giorni il numero dei permessi fruibili dai dipendenti Tale domanda è stata accolta nei prime due gradi di giudizio. Con ricorso per cassazione l’azienda ha impugnato la sentenza della Corte territoriale, ma la Suprema Corte ha concluso per la manifesta infondatezza dello stesso. Non c’è simmetria tra la reintroduzione delle festività soppresse e la riduzione dei permessi. La Suprema Corte, richiamando diverse sentenze che hanno risolto questioni identiche, ha osservato che la legge del 1977 soppresse o differì alla domenica sette festività. L’accordo collettivo del 1979 previde sei giorni di ferie o permessi aggiuntivi quindi già in avvio mancava una puntuale e univoca corrispondenza tra soppressioni e incrementi. Successivamente il quadro legislativo mutò con il ripristino dell’Epifania nel 1986 e della Festa della Repubblica nel 2000 e l’asimmetria si accentuò vi erano state sette soppressioni, sei compensazioni, due ripristini e la riduzione di due permessi. Il datore di lavoro non può ridurre il numero dei permessi previsti dall’accordo confederale. I Giudici di Piazza Cavour hanno inoltre osservato che la successiva evoluzione legislativa avrebbe potuto o dovuto indurre le parti collettive ad un ripensamento della regolamentazione contrattuale, ma le organizzazioni datoriali e sindacali che avevano sottoscritto l’accordo non hanno ritenuto di operare una revisione del contenuto dell’atto sulla base delle novità legislative. Tale revisione non può operarla il giudice, legittimando l’iniziativa unilaterale di un soggetto privato che non è parte dell’accordo collettivo. Non va infatti dimenticato che parti del contratto collettivo sono le organizzazioni datoriali e dei lavoratori, che avevano tutti i poteri per aggiornare la regolamentazione e non l’hanno fatto. Anzi, pur avendo rinnovato più volte la contrattazione del settore negli anni successivi alle modifiche legislative, hanno omesso di aggiornare e ricalibrare la disciplina di questa materia. Il singolo lavoratore o datore di lavoro aderente alle organizzazioni stipulanti non ha poteri modificativi della regolamentazione collettiva. Il contratto collettivo costituisce un atto normativo con efficacia vincolante per il singolo aderente alle associazioni stipulanti e l’unica via per sottrarsi a tale efficacia è recedere dall’associazione.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 6 ottobre – 22 dicembre 2016, n. 26756 Presidente Curzio – Relatore Mancino Svolgimento del processo e motivi della decisione 1. La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione a norma dell'art. 380-bis c.p.c., condivisa dal Collegio. 2. L'ENTE AUTONOMO VOLTURNO s.p.a. chiede l'annullamento della sentenza della Corte d'appello di Napoli che ha riconosciuto il diritto dei lavoratori a fruire, dal 2001, di due ulteriori giorni di permesso retribuito annuo alla stregua degli accordi confederali che regolano la materia, dichiarando illegittima la riduzione operata, con atto unilaterale, dall'azienda a decorrere dal 2001. 3. La società ricorre per cassazione, articolando plurimi motivi di impugnazione. 4. I lavoratori intimati hanno resistito con controricorso, ulteriormente illustrato con memoria. 5. Il ricorso è manifestamente infondato alla luce delle numerose decisioni di questa Corte intervenute in vicende del tutto analoghe Cass. nn. 18715, 20201, 20202, 20203, 20204, 20205, 20206 del 2014 da ultimo, Cass., sez. sesta - L 9358/2016 . 6. In tali decisioni è stato innanzitutto evidenziato che si era in presenza di un rapporto asimmetrico tra la legge che aveva eliminato alcune festività e l'accordo collettivo successivo che aveva previsto un incremento di ferie e permessi numericamente non corrispondente alle soppressioni nel tempo intervenute ma inferiore. 7. Inoltre è stato precisato che l'evoluzione legislativa intervenuta dopo la stipula dell'accordo interconfederale che aveva previsto giorni di ferie o permessi aggiuntivi avrebbe potuto forse dovuto indurre le parti collettive ad un ripensamento della regolamentazione pattizia ma le organizzazioni datoriali e sindacali che avevano sottoscritto l'accordo non hanno ritenuto di operare una revisione del contenuto dell'atto sulla base delle nuove emergenze legislative. 8. Tale revisione non può operarla il giudice, legittimando l'iniziativa unilaterale di un soggetto privato che non è parte dell'accordo collettivo. 9. Non va dimenticato che parti del contratto collettivo id est dell'accordo interconfederale sono le organizzazioni datoriali e dei lavoratori, che avevano tutti i poteri per aggiornare la regolamentazione e non lo hanno fatto. 10. anzi, pur avendo rinnovato più volte la contrattazione del settore negli anni successivi alle modifiche legislative, hanno omesso di aggiornare e ricalibrare la disciplina di questa materia. 11. I1 singolo lavoratore o datore di lavoro aderente alle organizzazioni stipulanti non ha poteri modificativi della regolamentazione collettiva. 12. In presenza, dunque, di un atto normativo con efficacia vincolante per il singolo aderente alle associazioni stipulanti, l'unica via per sottrarsi a tale efficacia è quella del recesso dall'associazione. 13. In conclusione, non è possibile considerare legittimo il comportamento di una delle parti non dell'accordo interconfelerale, ma del contratto individuale di lavoro, che, unilateralmente, abbia deciso di disapplicare parzialmente e quindi modificare il contenuto dell'accordo medesimo a seguito di una delle modifiche legislative in materia di festività, che invece le stesse parti collettive non hanno ritenuto idonee a determinare revisioni della disciplina dell'accordo nazionale da loro sottoscritto. 14. In definitiva, il ricorso deve rigettarsi. 15. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in favore degli avvocati N. A. ed E. A., per dichiarato anticipo fattone. 16. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità del d.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma I-grrater, nel testo introdotto dalla l,. n. 228/2012, art. 1, comma 17 sulla ratio della disposizione si rinvia a Cass. Sez. Un. 22035/2014 e alle numerose successive conformi . 17. Essendo il ricorso in questione avente natura chiaramente impugnatoria da rigettarsi integralmente, deve provvedersi in conformità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Puro 3.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese generali in misura del 15%, da distrarsi in favore degli avvocati N. A. ed E. A., dichiaratisi antistatari. Ai sensi dell'art.l3,comma 1- quater , d.P.R.115/2002, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art. 13,comma 1-bis.