Assegnata a una nuova sede, lei non prende servizio: licenziata

Confermato il provvedimento adottato da ‘Poste Italiane’ nei confronti di una lavoratrice passata dal tempo determinato” al tempo indeterminato”. La donna è risultata assente ingiustificata nell’ufficio a cui è stata assegnata, distante 120 chilometri dalla sede in cui aveva operato precedentemente.

Vittoria per la dipendente di ‘Poste Italiane’ ufficiale il passaggio dal tempo determinato” al tempo indeterminato”. Ma la gioia dura poco La lavoratrice, difatti, non prende servizio nella sede a lei assegnata, e ciò le costa il posto Cassazione, sentenza n. 18866/16, sezione Lavoro, depositata il 26 settembre . Sede. Passaggio decisivo in appello lì, ribaltando completamente le valutazioni compiute in Tribunale, viene ritenuta corretta la posizione assunta dall’azienda. Ciò significa che è legittimo il licenziamento adottato nei confronti della dipendente. Ella difatti è risultata assente ingiustificata a partire dal 12 dicembre, data entro cui avrebbe dovuto prendere servizio presso la nuova sede di destinazione , distante in linea d’aria 120 chilometri dall’ufficio in cui ella aveva operato in precedenza ma che non aveva posti disponibili . Per i giudici l’ inadempimento della lavoratrice è grave, e tale da giustificarne il licenziamento . Rifiuto. E ora, nel contesto della Cassazione, la sconfitta della oramai ex dipendente di ‘Poste Italiane’ diventa definitiva. Anche per i Magistrati del ‘Palazzaccio’, difatti, non ci sono incertezze su un dato di fondo decisivo per la lettura dell’intera vicenda la lavoratrice si è rifiutata di prendere servizio nella sede di destinazione, a seguito di comunicazione aziendale . E tale inadempimento si è concretizzato prima che all’azienda fosse addebitabile la mancata audizione per l’audizione della dipendente. Peraltro, va tenuto presente, secondo i Giudici, che l’inadempimento parziale della datrice di lavoro è di scarsa importanza rispetto alla reazione negativa della lavoratrice . Nessuna possibilità, quindi, di vedere legittimato il rifiuto aprioristico , da parte della donna, di eseguire la sua prestazione lavorativa, senza un eventuale avallo giudiziario e in mancanza di un inadempimento totale dell’azienda.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 giugno – 26 settembre 2016, numero 18866 Presidente Mammone – Relatore Berrino Svolgimento del processo Con sentenza del 20/9 - 4/12/2012 la Corte d'appello di Potenza ha accolto l'impugnazione della società Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale di Lagonegro, che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato a G.E. e condannato la datrice di lavoro a reintegrare la dipendente in servizio, e per l'effetto ha riformato tale decisione, rigettando la domanda della lavoratrice. Il licenziamento era scaturito dal fatto che la G., il cui contratto di lavoro a termine era stato convertito in quello a tempo indeterminato, era risultata assente ingiustificata dal lavoro a partire dal 12 dicembre 2005, data entro la quale avrebbe dovuto prendere servizio presso la nuova sede di destinazione di Melfi, stante la indisponibilità di posti di lavoro presso la sede di Viggianello, ove la medesima aveva prestato in precedenza lavoro a tempo determinato. La Corte territoriale ha rilevato che l'inadempimento della dipendente si era verificato ancor prima di quello della datrice di lavoro, la quale non aveva fissato l'incontro sollecitatole il 14/12/2005 ai sensi dell'art. 37 del CCNL, allorquando il rifiuto della G. di eseguire la prestazione lavorativa presso la sede assegnatale si era tradotto in una forma di autotutela priva del salvacondotto della buona fede ex art. 1460 cod. civ. Per la cassazione della sentenza ricorre G.E. con un solo motivo. Resiste con controricorso la società Poste Italiane s.p.a. che deposita, altresì, memoria al sensi dell'art. 378 c.p.c. Motivi della decisione Con l'unico motivo di ricorso la G. si duole della violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1335 e 1324 c.c. in relazione all'art. 360 numero 3 c.p.c., nonché della violazione e falsa applicazione dell'art. 37 lett. a e dell'art. 6 del ccnl dell'11/7/2003 in relazione all'art. 360 numero 3 e numero 5 c.p.c. Anzitutto, la ricorrente contesta che la formula per accettazione apposta sulla comunicazione del suo trasferimento a Melfi corrispondesse, come ritenuto nell'impugnata sentenza, ad una acquiescenza alla relativa determinazione aziendale, trattandosi, invece, di un suo atto di presa visione del provvedimento datoriale. In pratica, secondo tale assunto difensivo, la sottoscrizione apposta in calce alla predetta comunicazione non poteva equipararsi in alcun modo ad una accettazione del trasferimento, in mancanza di una espressa volontà in tal senso manifestata. La G. precisa, altresì, che alla data del 12.12.2005, in cui avrebbe dovuto prendere servizio, non era stata ancora regolarmente trasferita in Melfi, atteso che col telegramma del 9/12/2005 e con la raccomandata del 10/12/2005, che aveva inviati alla società, si era limitata ad avviare la contrattazione relativa al trasferimento, in quanto l'art. 37, lett. a , del CCNL dell'11/7/2003 prevedeva che il datore di lavoro, nel disporre unilateralmente il trasferimento, doveva tener presenti le condizioni personali e familiari del lavoratore. Aggiunge la ricorrente che l'art. 6 dello stesso contratto collettivo disciplinava la procedura che il datore di lavoro doveva seguire nel caso in cui il lavoratore esponeva le ragioni che gli impedivano il trasferimento in altra sede. Quindi, la datrice di lavoro, una volta ricevute le comunicazioni del 9 e del 10 dicembre del 2005 di cui sopra, non avrebbe potuto disporre il trasferimento senza averla prima convocata, per cui la sua mancata presentazione al lavoro alla data del 12/12/2005 era dipesa solo dal fatto che fino a quel momento non si era ancora perfezionato il trasferimento, con conseguente illegittimità del disposto licenziamento. Il ricorso è infondato. Anzitutto, preme rilevare che sussiste una causa di improcedibilità del ricorso limitatamente alla parte in cui le ragioni di doglianza si basano sulla dedotta violazione delle summenzionate norme collettive, atteso che al riguardo la ricorrente ha omesso di produrre il testo del relativo contratto, onde consentire a questa Corte di verificare la fondatezza o meno delle relative censure. Si è, infatti, statuito Cass. Sez. Lav. numero 4350 del 4.3.2015 che nel giudizio di cassazione, l'onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi - imposto, a pena di improcedibilità del ricorso, dall'art. 369, secondo comma, numero 4, cod. proc. civ., nella formulazione di cui al d.lgs. 2 febbraio 2006, numero 40 - può dirsi soddisfatto solo con la produzione del testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di cassazione e necessario per l'applicazione del canone ermeneutico previsto dall'art. 1363 cod. civ. né, a tal fine, può considerarsi sufficiente il mero richiamo, in calce al ricorso, all'intero fascicolo di parte del giudizio di merito, ove manchi una puntuale indicazione del documento nell'elenco degli atti. In ogni caso si è anche chiarito Cass. Sez. Lav. numero 195 dell'11.1.2016 che in tema di giudizio per cassazione, l'onere del ricorrente, di cui all'art. 369, comma 2, numero 4, c.p.c., come modificato dall'art. 7 del d.lgs. numero 40 del 2006, di produrre, a pena di improcedibilità del ricorso, gli atti processuali, i documenti, i contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d'ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, munita di visto ai sensi dell'art. 369, comma 3, c.p.c., ferma, in ogni caso, l'esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366, numero 6, c.p.c., degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi. conf. a Cass. Sez. Unumero numero 22726 del 3.11.2011 , Comunque, per il resto, le censure odierne non scalfiscono la validità della decisione, risolvendosi, piuttosto, in un tentativo di diversa prospettazione dei fatti che non è consentito nel giudizio di legittimità e, soprattutto, non investono in maniera specifica il dato di fondo sul quale si basa l'impugnata decisione, vale a dire la constatazione di fatto che l'inadempimento della dipendente, cioè il rifiuto di prendere servizio presso la sede di destinazione di Melfi, a seguito di comunicazione aziendale del 5.12.2005, si era verificato ancor prima che si fosse perfezionato l'inadempimento datoriale alla mancata convocazione per la sua audizione, per cui il rifiuto della G. di rendere la prestazione lavorativa a decorrere dalla data fissatale del 12.12.2005, dava vita ad un'assenza ingiustificata dal lavoro, finendo per tradursi in una forma di autotutela non sorretta da buona fede ai sensi dell'art. 1460, comma 2, cod. civ. Infatti, con argomentazione logica immune da rilievi di legittimità, la Corte territoriale ha spiegato che il telegramma inviato dalla lavoratrice in data 9.12.2005 conteneva solo la formulazione di una riserva e non la richiesta di riesame del trasferimento e, quindi, di fissazione di un incontro, per cui la datrice di lavoro veniva posta nella condizione di fissare l'incontro nel termine di cinque giorni previsto dal contratto collettivo solo a decorrere dal ricevimento, in data 14.12.2005, della richiesta di riesame formulata il 10.12.2005, cioè solo in un momento successivo al rifiuto alla ripresa del servizio manifestato dalla G. Quindi, correttamente la Corte di merito ha osservato che l'inadempimento parziale della datrice di lavoro, giudicato di scarsa importanza rispetto alla reazione negativa della lavoratrice con apprezzamento di fatto adeguato ed esente da rilievi di legittimità, non poteva legittimare il rifiuto aprioristico di quest'ultima di eseguire la sua prestazione lavorativa, senza un eventuale avallo giudiziario ed in mancanza di un inadempimento totale della controparte. In concreto, nulla avrebbe impedito alla lavoratrice di far valere le sue ragioni, anche in via d'urgenza in sede giudiziale, una volta eseguita la prestazione richiestale, essendo la medesima tenuta ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartite dall'imprenditore, tanto più che nella fattispecie era rimasta incontestata, come ben evidenziato dai giudici d'appello, la circostanza della sussistenza delle ragioni tecnico-organizzative poste a fondamento del trasferimento da Viggianello a Melfi. In definitiva, il trasferimento del lavoratore presso altra sede giustificato da oggettive esigenze organizzative aziendali può consentire al medesimo di richiederne giudizialmente l'accertamento della legittimità, ma non lo autorizza a rifiutarsi aprioristicamente e senza un eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod.civ., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 del cod.civ., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte. Pertanto, il ricorso va rigettato. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo, unitamente al contributo unificato di cui all'art. 13, commi 1-bis e 1 quater, del d.P.R. numero 115 del 2002 P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di € 3100,00, di cui € 3000,00 per compensi professionali, oltre spese generali ai 15% ed accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.P.R. numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.