Giusta causa di licenziamento: la valutazione del giudice di merito non è censurabile in Cassazione

L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. norma cd. elastica , compiuta dal giudice di merito - ai fini dell’individuazione della giusta causa di licenziamento - mediante riferimento alla coscienza generale , è sindacabile in Cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards , conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 18715/16, depositata il 23 settembre. La vicenda esaminata licenziamento per giusta causa di dipendente di banca rinviato a giudizio in sede penale per aver favorito, omettendo i dovuti controlli, l’ottenimento di pratiche di finanziamento. Una dipendente di istituto bancario veniva rinviata a giudizio per associazione a delinquere per avere consentito, omettendo i controlli cui era tenuta, l’ottenimento di pratiche di finanziamento in favore del proprio figlio e di altri soggetti complici, fornendo altresì informazioni utili per evitare i rischi di ispezioni in seno alla banca. L’impugnazione del licenziamento promossa ai sensi della legge n. 92 veniva rigettata sia in fase sommaria che in fase di opposizione così come infine in sede di reclamo avanti la Corte d’Appello. Proponeva così ricorso in Cassazione la dipendente. Applicabile il principio della doppia conforme . In primo luogo la Suprema Corte afferma che la controversia esaminata è sottoposta alle regole imposte dall’attuale art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. e dall’art. 348- ter c.p.c. In particolare quest’ultimo trova applicazione al rito previsto dalla cosiddetta Legge Fornero. La disciplina speciale prevista dall'art. 1, comma 58, l. 28 giugno 2012, n. 92, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, va integrata con quella dell'appello nel rito del lavoro. Ne consegue l'applicabilità, nel giudizio di cassazione, oltre che dei commi terzo e quarto dell'art. 348- ter c.p.c., anche del comma quinto, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma quarto, ossia l'esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c., si applica, fuori dei casi di cui all'art. 348- bis , comma 2, lett. a , anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado cosiddetta doppia conforme . Già sotto questo aspetto, il ricorso proposto va considerato inammissibile e la sentenza impugnata dovrà essere confermata. Inammissibile in sede di legittimità il riesame della valutazione della giusta causa. Il Supremo Collegio rileva inoltre come nel ricorso la parte abbia sostanzialmente denunciato la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, con particolare riguardo all’art. 2119 c.c. Tale norma, dal contenuto limitato, delinea un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, al fine di adeguare la norma alla realtà articolata e mutevole nel tempo e rapportandola ai fattori esterni del caso concreto. Ora, proseguono gli Ermellini, tale attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c., compiuta dal giudice di merito ai fini della individuazione della giusta causa di licenziamento, è sindacabile in Cassazione a condizione che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards , conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Nel proprio ricorso la ricorrente non identifica i parametri integrativi della norma generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, ma si limita ad affermare che i fatti addebitati dal datore di lavoro non costituirebbero giusta causa di licenziamento. Con ciò contrapponendo un proprio personale giudizio a quello reso in sede di merito. Al fine di stabilire in concreto la sussistenza di una causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro cioè di grave negazione del vincolo fiduciario il giudice deve valutare la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, la loro portata oggettiva e soggettiva nel rapporto di lavoro, le circostanze in cui sono stati commessi e l’elemento intenzionale della condotta stabilendo infine se tali fatti, in concreto accertati , siano tali da giustificare la massima sanzione disciplinare. L’accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e la loro portata ai fini della sussistenza o meno della giusta causa di recesso spetta ai giudici di merito ed il sindacato su tale valutazione in sede di legittimità sarà consentito unicamente ove la parte denunci non una diversa combinazione dei parametri di valutazione, ma che la combinazione dei dati fattuali come definiti dal giudice di merito non consenta comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa. Il ricorso proposto non appare conforme ai principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte e di conseguenza è seguito il rigetto del medesimo.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 10 maggio 23 settembre 2016, n. 18715 Presidente Amoroso Relatore Amendola Svolgimento del processo 1.- Con sentenza del 10 febbraio 2015 la Corte di Appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza del locale Tribunale circa la legittimità del licenziamento intimato per giusta causa dalla UBI Banca Carime Spa nei confronti di C.C. in data 12 giugno 2012. La Corte territoriale, uniformemente al giudizio già espresso in primo grado sia nella fase sommaria che nella fase di opposizione del rito di cui all’art. 1, commi 47 e ss., l. n. 92 del 2012, ha ritenuto la sussistenza dell’addebito contestato in data 16 maggio 2012 e riferito a numerose condotte per le quali la dipendente era stata rinviata a giudizio in data 12 aprile 2012, imputata innanzitutto di associazione a delinquere per avere - come riportato dalla sentenza impugnata - assicurato, assieme al figlio Domenico, quest’ultimo in stretto contatto con M.P. , la disponibilità a trattare, omettendo i dovuti controlli, le pratiche di finanziamento che venivano presentate dal predetto M. e altri parenti e accoliti alla Banca Carime, fornendo costantemente informazioni circa i rischi derivanti da ispezioni e controlli e assicurando pertanto i profitti dei crediti erogati . 2.- Per la cassazione di tale sentenza C.C. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. La Banca Carime Spa ha resistito con controricorso. Motivi della decisione 3.- I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati. Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 37 del CCNL per i Quadri Direttivi e Personale Dipendenti Imprese creditizie, finanziarie e strumentali nonché vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., per avere la Corte di Appello ritenuto legittima e conforme alla norma predetta la condotta della Banca concretizzatasi nel non aver mai manifestato per iscritto la volontà di attendere gli esiti del procedimento penale, omettendo allo stesso tempo di contestare gli addebiti alla C. a ridosso dei fatti e tenendo, nelle more, una condotta illegittima e gravemente lesiva dell’affidamento e del diritto di difesa della lavoratrice conseguente violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. per aver ritenuto la condotta della Banca conforme ai generali criteri di correttezza e buona fede ed aver considerato tempestiva e non lesiva del diritto di difesa, ai sensi dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970, la contestazione disciplinare e il successivo licenziamento, in relazione alle circostanze concrete della fattispecie in esame. Con il secondo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., degli artt. 2106 e 2119 c.c., art. 7 l. n. 300/70, per non avere la Corte territoriale ravvisato una grave incoerenza del licenziamento consistente nell’essere inflitta una sanzione conservativa ad altro dipendente al quale era stato contestato, in qualità di concorrente, il medesimo illecito disciplinare, in mancanza e/o insufficienza di specifiche ragioni di diversificazione, per cui sarebbe logicamente e giuridicamente da escludersi una gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva con conseguente illegittimità e grave sproporzione del licenziamento . Con il terzo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 7 della l. n. 300/70, dell’art. 2119 e dell’art. 2697 c.c. nonché vizio di motivazione ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. per avere la Corte di Appello ritenuto provati, imputabili e tempestivi gli addebiti mossi alla lavoratrice oltre che supporteli dal necessario elemento psicologico. Con il quarto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., dell’art. 2104 e 2119 c.c. nonché vizio di motivazione per avere la Corte di Appello affermato, ai fini della valutazione della giusta causa di licenziamento, la doverosità di controlli ulteriori a quelli prescritti nelle disposizioni regolamentari della Banca e/o inesigibili perché in contrasto con la normativa aziendale se non addirittura aver considerato legittimo il recesso nonostante fossero state contestate alla lavoratrice delle condotte estranee alla sua stessa competenza funzionale e propriamente esorbitanti le sue mansioni precipue o non avere considerato adeguatamente che le erano state condotte poste in essere da altri gestori in sua assenza per ferie e/o comunque inesigibili e sproporzionate ai fini espulsivi. 4.- Il ricorso non può trovare accoglimento. I motivi, che possono essere valutati congiuntamente per reciproca connessione, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure v., in particolare, Cass. n. 17931 del 2013 Cass. n. 7394 del 2010 Cass. n. 20355 del 2008 Cass. n. 9470 del 2008 , nella sostanza contestano l’accertamento operato dai giudici del merito in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando per vari profili la valutazione da costoro compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti. Si trascura però di considerare che il presente giudizio di cassazione, ratione temporis, è sottoposto alle nuove regole imposte dall’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione secondo cui le sentenze possono essere impugnate per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti , e dall’art. 348 ter, ult. co. c.p.c., secondo cui il vizio di cui innanzi comunque non può essere proposto con il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme v. Cass. n. 23021 del 2014 Cass. n. 4223 del 2016 . Tale ultima disposizione è applicabile anche al reclamo che ci occupa disciplinato dall’art. 1, commi da 58 a 60, della legge n. 92/2012, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata in tal senso Cass. n. 23021 del 2014 conforme Cass. n. 4223 del 2016 . Non hanno dunque ingresso in questa sede tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, anche relative alla tempestività della procedura disciplinare, e che lamentano una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo della critica alla valutazione giudiziale delle risultanze di causa, sia perché formulate in modo difforme dai principi enunciati da Cass. SS.UU. n. 8053 del 2014, che ha rigorosamente interpretato il novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., sia laddove attingono questioni di fatto in cui la sentenza di appello ha confermato la pronuncia di primo grado. Quanto alle censure con cui, in varie forme, si denuncia la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 2119 c.c., anche in collegamento con gli artt. 2104 e 2106 c.p.c., occorre ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta della giusta causa di licenziamento. In generale l’attribuzione di un contenuto precettivo ad una norma, compreso in un intervallo di interpretazioni plausibili, è operazione che compie ogni giudice nell’assegnare un significato alla disposizione interpretata, ma che compete a questa Corte precisare progressivamente mediante puntualizzazioni, a carattere generale ed astratto, sino alla formazione del cd. diritto vivente cfr. Cass. n. 18247 del 2009 . Tale operazione di attribuzione di significato non è logicamente dissimile per le norme contenenti le cd. clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati, anche se non se ne possono negare le peculiarità legate alla circostanza che in tali disposizioni si richiamano concetti elastici, che necessitano di una integrazione che accentua lo spazio lasciato all’interprete, delegato ad effettuare un giudizio di valore che concretizza la norma oltre i rigidi confini dell’ordinamento positivo. Tanto accade anche per la giusta causa o, con diversità solo di grado, per il giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Si tratta di disposizioni di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo, mediante la valorizzazione sia di principi che la stessa disposizione richiama sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero al rispetto di criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali e dalla disciplina particolare, anche collettiva, in cui si colloca la disposizione. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge tra le innumerevoli Cass. n. 6901 del 2016 Cass. n. 6501 del 2013 Cass. n. 6498 del 2012 Cass. n. 25144 del 2010 dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento per tutte v. Cass. n. 434 del 1999 , traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa cfr. Cass. n. 5026 del 2004 Cass. n. 10058 del 2005 Cass. n. 8017 del 2006 . Tuttavia è stato evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards , conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale cfr. Cass. n. 5095 del 2011 Cass. n. 9266 del 2005 . Invece, nella specie, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi della clausola generale che sarebbero stati violati dai giudici di merito, limitandosi esclusivamente a ribadire che secondo il suo giudizio - che è solo quello personale della parte che vi ha interesse - il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento, per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata. Le Sezioni Unite di questa Corte, poi, insegnano sent. n. 5 del 2001 che il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, co. 1, c.p.c. comprende anche l’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa. Tale vizio, sovente inteso come falsa applicazione di legge, si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e che investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell’affermazione erronea dell’esistenza o dell’insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata violazione di legge in senso proprio la falsa applicazione consiste invece o nell’assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista - pur rettamente individuata e interpretata - non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione in termini chiari così Cass. n. 18782 del 2005 v. pure Cass. n. 15499 del 2004 . Il vizio di sussunzione è ipotizzabile naturalmente anche nel caso di norme che contengano clausole generali o concetti giuridici indeterminati ma, per consentirne lo scrutinio in sede di legittimità, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici. Orbene, in ordine agli elementi fattuali che il giudice deve valutare per verificare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento, la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci affermando ripetutamente che, per stabilire in concreto l’esistenza di una causa che non consenta al prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro e che deve dunque rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali di tale rapporto, ed in particolare di quello fiduciario, occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. L’accertamento in ordine alla ricostruzione di detti fatti e del come si siano realizzati nella vicenda storica che origina la controversia compete ai giudici di merito. Ad essi spetta anche la valutazione di tali fatti al fine di esprimere un giudizio complessivo dei medesimi che spieghi le ragioni per cui da essi si sia tratto il convincimento circa la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento. Trattandosi di giudizi di fatto questa Corte può sottoporli a sindacato nei limiti consentiti - come innanzi già precisato - da una prospettazione del vizio di cui all’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione tempo per tempo vigente. Inoltre il giudice di legittimità, sempre nei limiti di una censura appropriata, può sindacare la sussunzione operata dall’impugnata sentenza della fattispecie concreta nell’alveo dell’art. 2119 c.c. correttamente interpretato. Resta fermo però che i dati fattuali di partenza devono essere quelli accertati e valutati dal giudice del merito rispetto ad essi può essere verificata in sede di legittimità la corretta riconduzione alla fattispecie astratta. Poiché, come abbiamo visto, gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono molteplici occorre guardare, nel sindacato di questa Corte, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza della sussunzione nell’ambito della clausola generale. Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l’esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell’integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell’art. 360, co. 1, n. 5, con tutti i limiti innanzi ricordati, e solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l’errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall’omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per falsa applicazione di legge. Nella specie, invece, parte ricorrente, oltre a contestare inammissibilmente per quanto innanzi detto - l’accertamento degli addebiti come operato dai giudici di merito, in alcun modo specifica perché quanto accertato e ritenuto da costoro non sarebbe sussumibile nell’ambito dell’art. 2119 c.c. piuttosto si limita ad indicare taluni elementi, tra i quali la pretesa incoerenza aziendale nell’avere inflitto ad altro dipendente una sanzione conservativa per il medesimo illecito contestato alla C. di certo non rilevante per la giurisprudenza di questa Corte cfr. Cass. n. 6901 del 2016 Cass. n. 16682 del 2015 Cass. n. 2018 del 1995 , che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali, ma nessuno di detti fatti, anche per la loro stessa pluralità, può ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicché le doglianze in proposito nella sostanza prospettano una generica rivisitazione del giudizio di merito, evidentemente non consentita in questa sede. 5.- Per tali ragioni il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo. Poiché il ricorso per cassazione risulta nella specie notificato in data 11 aprile 2015 occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in Euro 5.100,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% nonché accessori secondo legge. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.