Email anonima contro i dirigenti: licenziato

Il lavoratore ha diffuso tra i colleghi uno scritto assai critico nei confronti di due dirigenti. Per l’azienda si è trattata di una vera e propria diffamazione. E i giudici mostrano di condividere questa visione.

Sfogo via email contro due dirigenti. Episodio ritenuto grave dai vertici aziendali, e sufficiente, concordano i magistrati, per il licenziamento del dipendente. Cassazione, sentenza n. 18404, sezione Lavoro, depositata il 20 settembre Email. A porre sotto accusa il lavoratore è una email inviata a numerosi altri dipendenti della società . Il contenuto è inequivocabile sono rivolte critiche pesantissime nei confronti di due dirigenti . Una volta intercettato lo scritto, l’azienda opta per il provvedimento più drastico, cioè il licenziamento disciplinare . Decisivo, per i vertici societari, il tenore del messaggio di posta elettronica a loro avviso è evidente la diffamazione nei confronti dei due rappresentanti dell’azienda. E questa visione viene ritenuta corretta dai giudici sia in Tribunale che in Appello, dove vengono respinte tutte le obiezioni proposte dal lavoratore. Rottura. Ora a chiudere la battaglia legale provvedono i magistrati della Cassazione. E anche la loro valutazione è sfavorevole all’oramai ex dipendente della società il licenziamento, difatti, viene confermato in via definitiva. In sostanza, la condotta tenuta dal lavoratore è valutata come un lampante caso di diffamazione nei confronti di superiori , sicuramente sufficiente a convincere l’azienda della rottura definitiva del rapporto. E vanno anche tenute presenti in questa vicenda, sottolineano i giudici, le modalità utilizzate dal dipendente, che ha realizzato uno scritto anonimo , creando un falso mittente , per poi diffonderlo tra i colleghi d’ufficio. Nessun dubbio è possibile, quindi, sul dolo nell’operazione compiuta dal lavoratore

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 maggio – 20 settembre 2016, n. 18404 Presidente Nobile – Relatore Manna Svolgimento del processo Con sentenza depositata il 26.1.15 la Corte d'appello di Milano rigettava il reclamo proposto da E.P. contro la sentenza dei Tribunale di Monza che ne aveva respinto l'impugnativa del licenziamento disciplinare intimatogli da Videotime S.p.A. il 21.5.13 per il contenuto - qualificato come diffamatorio nei confronti di due dirigenti aziendali - di una e-mail inviata dal lavoratore a numerosi altri dipendenti della società. Per la cassazione della sentenza ricorre E.P. affidandosi a due motivi. Videotime S.p.A. resiste con controricorso, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c. Motivi della decisione 1- Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 18 co. 10 legge n. 300/70, 1345, 1324, 2727 e 2729 c.c., 421 c.p.c. e 28 co. 40 d.lgs. n. 150/11, per avere la sentenza impugnata negato il carattere discriminatorio - dovuto all'orientamento sessuale del ricorrente - del licenziamento per cui è causa, nonostante che numerose e pacifiche circostanze di fatto e risultanze processuali, non considerate dai giudici del reclamo, deponessero in tal senso inoltre - si prosegue nel motivo - la Corte territoriale ha travisato il tenore dei messaggio di posta elettronica oggetto della lettera di contestazione disciplinare. I! motivo va disatteso perché si colloca all'esterno dell'area di cui all'art. 360 c.p.c. Invero, ad onta dei rinvio a norme di diritto, in realtà in esso si suggerisce esclusivamente una generale rivisitazione del materiale istruttorio affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione. In altre parole, il ricorso si dilunga nell'opporre al motivato apprezzamento della Corte territoriale proprie difformi valutazioni delle prove, ma tale modus operandi non è idoneo a segnalare un vizio denunciabile ai sensi dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. nel testo, nel caso di specie applicabile ratione temporis, novellato dall'art. 54 d.l. n. 83/2012, convertito in legge 7.8.2012 n. 134 né, a maggior ragione, ai sensi degli altri canali di accesso al giudizio di legittimità tassativamente indicati dall'art. 360 c.p.c. La nuova formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. applicabile, ai sensi dei cit. art. 54, co. 30, alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione dei decreto, cioè alle sentenze pubblicate dal 12.9.12 e, quindi, anche alla pronuncia in questa sede impugnata rende denunciabile per cassazione solo il vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti . In tal modo ii legislatore è tornato, pressoché alla lettera, all'originaria formulazione dell'art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. dei codice di rito del 1940. Con orientamento cui va data continuità espresso dalla sentenza 7.4.14 n. 8053 e dalle successive pronunce conformi , le S.U. di questa S.C., nell'interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di minimo costituzionale , ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris. Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, o di motivazione del tutto apparente, oppure di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sé, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie. Per l'effetto, il controllo sulla motivazione da parte dei giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell'art. 132 co. 2° n. 4 c.p.c. deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sé, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito. Secondo le S.U., l'omesso esame deve riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico principale o primario ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo dei diritto azionato o secondario cioè dedotto in funzione probatoria . Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 co. 1° n. 5 c.p.c. anche l'omesso esame di determinati elementi probatori basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all'esito dell'istruttoria come astrattamente rilevanti. A sua volta deve trattarsi di un fatto processualmente esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata e allora si parlerà di rilevanza dei dato testuale o dagli atti processuali rilevanza del dato extra-testuale . Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico dei ricorrente ai sensi degli artt. 366 co. 1° n. 6 e 369 co. 2° n. 4 c.p.c. il ricorso deve non solo indicare chiaramente il fatto storico dei cui mancato esame ci si duole, ma deve indicare il dato testuale emergente dalla sentenza o extra testuale emergente dagli atti processuali da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività. L'omesso esame dei fatto decisivo si pone, dunque, nell'ottica della sentenza n. 8053/14 come il tassello mancante così si esprimono le S.U. alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro dei sillogismo giudiziario. Invece, il ricorso in oggetto, oltre a non rispondere ai requisiti prescritti dalla citata sentenza delle S.U., invoca una generale rivisitazione nel merito dì tutto il materiale probatorio acquisito in sede di merito, il che non è consentito innanzi a questa Corte Suprema. Né può dirsi che i giudici di merito abbiano omesso di esaminare i fatti decisivi che avrebbero consentito di qualificare come discriminatorio il licenziamento per cui è causa anzi, hanno espressamente segnalato che già nel 2010, pur in presenza di un altro addebito obiettivamente grave e pur già conoscendo gli orientamenti sessuali dell'odierno ricorrente, la società aveva irrogato all'odierno ricorrente una sanzione conservativa e che in altre occasioni non aveva adottato sanzione alcuna nei suoi riguardi. 2- II secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., dell'art. 18 co. 4° legge n. 300/70, vista l'irrilevanza come giusta causa di licenziamento dei fatto contestato, nonché violazione e falsa applicazione dell'art. 599 c.p., per avere la gravata pronuncia escluso l'esimente dell'aver agito nello stato d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse all'interno dell'azienda dai dirigenti che a loro volta si erano poi sentiti diffamati dalla e-mail del ricorrente. Il motivo è infondato. Per costante giurisprudenza di questa Corte Suprema, il giudice di merito investito del giudizio circa la legittimità d'un provvedimento disciplinare deve necessariamente valutare la sussistenza o meno dei rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, a tal fine tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive della condotta del lavoratore e di tutti gli altri elementi idonei a consentire l'adeguamento della disposizione normativa dell'art. 2119 c.c. - richiamato dall'art. 1 della legge n. 604/66 - alla fattispecie concreta cfr., ex aliis, Cass. n. 8456/11 Cass. n. 736/02 Cass. n. 1144/2000 . In altre parole, il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto e non semplicemente in astratto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi cfr., ex aliis, Cass. n. 15058/15 Cass. n. 2013/12 Cass. n. 2906/05 Cass. n. 16260/04 Cass. n. 5633/01 . A tal fine, sempre secondo costante giurisprudenza, bisogna tener conto di tutti i connotati oggetti e soggettivi del fatto, vale a dire del danno arrecato, dell'intensità dei dolo o del grado della colpa, dei precedenti disciplinari nonché dì ogni altra circostanza tale da incidere in concreto sulla valutazione del livello di lesione del rapporto fiduciario tra le parti. La sentenza impugnata si è attenuta a tali insegnamenti. Il fatto oggetto di contestazione disciplinare è stato accertato e poi correttamente inquadrato come giusta causa in quanto integrante una diffamazione nei confronti di superiori dell'odierno ricorrente sull'idoneità di condotte diffamatorie ad integrare, in astratto, giusta causa di licenziamento v., ad esempio, Cass. n. 9395/06 Cass. n. 7091/01 Cass. n. 10511/98 . Quanto all'irrimediabile lesione del vincolo fiduciario tra le parti, nel caso concreto essa è stata adeguatamente motivata in ragione del coefficiente doloso e delle modalità usate scritto anonimo e creazione d'un falso mittente per diffondere il messaggio di posta elettronica giudicato diffamatorio. Infine, in ordine all'invocata esimente di cui all'art. 599 c.p. co. 2° per avere il ricorrente agito nello stato d'ira determinato dall'altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie ai suoi danni diffuse all'interno dell'azienda dai dirigenti che a loro volta erano stati poi diffamati dalla e-mail del dipendente, la censura si rivela non accoglibile per l'assorbente rilievo che, a monte, l'ingiusta condotta che E.P. rimprovera ai suddetti dirigenti aziendali non è rimasta provata. 3- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi. Le spese dei giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 3.100,00 di cui euro 100,00 per esborsi ed euro 3.000,00 per compensi professionali, oltre al 15% di spese generali e agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 co. 1 quater d. P. R. n. 115/2002, come modificato dall'art. 1 co. 17 legge 24.12.2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del co. 1 bis dello stesso articolo 13.