Se il patto di prova è nullo, il datore di lavoro non può recedere ad nutum

Il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, non può ricondursi al recesso ad nutum di cui all’art. 2096 c.c. e configura un licenziamento ordinario soggetto alla verifica della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17921/16 depositata il 12 settembre. Il caso. La Corte d’appello di Messina accoglieva le domande proposte da un lavoratore per ottenere la dichiarazione di nullità del patto di prova apposto ad un contratto di lavoro a tempo indeterminato, stipulato dopo la fine di una collaborazione a progetto, annullando la risoluzione del rapporto disposta dalla controparte datoriale che ricorre dinanzi alla Corte di Cassazione. La causa del patto di prova. Il ricorrente censura in primo luogo la ritenuta nullità del patto di prova sostenendo che essa sia ammissibile laddove corrisponda ad una finalità apprezzabile, sussistente nel caso concreto per la differenza delle mansioni svolte dal lavoratore nella successione dei diversi rapporti contrattuali. La doglianza non viene condivisa dal Collegio che sottolinea come la giurisprudenza consolidata abbia da tempo affermato che la causa del patto di prova è quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti e sperimentarne la convivenza, risultando dunque insussistente laddove tale verifica abbia già avuto esito positivo per le medesime mansioni, a prescindere dalla natura e dalla qualificazione delle mansioni indicate nei contratti stipulati in successione tra le medesime parti. La nullità del patto di prova. La Suprema Corte condivide invece la censura relativa agli effetti della declaratoria di nullità del patto di prova, individuati dal giudice di merito nell’automatica ricostituzione del rapporto e nel risarcimento del danno. Fermo restando che il recesso del datore di lavoro durante la prova è riconducibile alla recedibilità ad nutum , presupposto imprescindibile è che il patto di prova sia stato validamente apposto. Ove la relativa clausola sia invece affetta da nullità per assenza dei requisiti di forma e di sostanza, il rapporto di prova subisce la conversione in rapporto ordinario e deve dunque trovare applicazione il regime ordinario del licenziamento individuale. In conclusione, i Giudici di legittimità cassano la sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Messina che dovrà attenersi al principio per cui il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto all’applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 Stat. Lav., qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza dl requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla l. n. 604/1996, in difetto delle condizioni necessarie per lì applicabilità della tutela reale .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 5 luglio – 12 settembre 2016, numero 17921 Presidente Macioce – Relatore Di Paolantonio Svolgimento del processo 1 - La Corte di Appello di Messina, in parziale riforma della sentenza del locale Tribunale, ha integralmente accolto le domande proposte da D.G. nei confronti del Centro Formazione Professionale San Giovanni Apostolo e, dichiarata la nullità del patto di prova apposto al contratto a tempo indeterminato sottoscritto dalle parti il 28 maggio 2007, ha annullato la risoluzione del rapporto e l’atto di recesso condannando l’ente di formazione alla riammissione in servizio e alla corresponsione delle retribuzioni dalla cessazione del rapporto fino alla effettiva reintegrazione . 2 - La Corte territoriale ha premesso che nei due anni immediatamente antecedenti la stipula del contratto il D. , quale collaboratore a progetto, aveva svolto nei corsi di formazione professionale le medesime mansioni di docente di materie informatiche. Ha, quindi, ritenuto privo di causa il patto di prova, in quanto la sperimentazione era già avvenuta con esito positivo, anche se nel periodo precedente non era stato instaurato un vero e proprio rapporto di lavoro. Dalla nullità del patto la Corte, poi, ha fatto discendere la automatica conversione della assunzione in definitiva sin dall’inizio e la vanificazione degli effetti del recesso . 3 - Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Centro Formazione Professionale S. Giovanni Apostolo sulla base di due motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c D.G. ha depositato procura ed il difensore ha discusso oralmente la causa, concludendo per il rigetto del ricorso ed eccependo anche l’inammissibilità del secondo motivo. Motivi della decisione 1.1 - Il primo motivo di ricorso denuncia ex art. 360 numero 3 c.p.c. violazione degli artt. 2096, 2697, 2729 c.c. e censura il capo della decisione relativo alla ritenuta nullità del patto di prova. Sostiene il ricorrente che il patto, in quanto destinato alla verifica non solo delle qualità professionali ma anche del comportamento e della professionalità complessiva del lavoratore, è ammissibile ogniqualvolta risponda ad una finalità apprezzabile , sussistente nella fattispecie in considerazione della differenza quantitativa e qualitativa delle mansioni svolte sulla base dei contratti, di diversa natura, succedutisi nel tempo. Precisa al riguardo che la collaborazione a progetto aveva riguardato un’unica materia e l’insegnamento era stato reso in corsi destinati ad allievi in possesso della sola licenza media inferiore. Il rapporto di lavoro subordinato, invece, oltre a comportare un maggior impegno in termini temporali, era stato instaurato per l’attività di docenza di sei materie in corsi destinati a studenti che avessero conseguito il diploma di scuola media superiore. 1.2 - Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1223 c.c. e dell’art. 8 della legge numero 604/1966 . Il ricorrente, richiamando giurisprudenza di questa Corte, evidenzia che la nullità del patto di prova non determina la sanzione risarcitoria di diritto comune in quanto il licenziamento resta assoggettato alla disciplina sua propria e, quindi, la illegittimità comporta, in caso di insussistenza del requisito dimensionale, le conseguenze previste dall’art. 8 della legge richiamata in rubrica. Aggiunge che il Tribunale di Messina, proprio in considerazione della incontestata inapplicabilità della tutela reale, aveva condannato il Centro al pagamento di tre mensilità. 2 - Il primo motivo è infondato, nella parte in cui denuncia la violazione dell’art. 2096 c.c., ed è per il resto inammissibile. La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che la causa del patto di prova è quella di tutelare l’interesse di entrambe le parti del rapporto a sperimentarne la convenienza, sicché detta causa risulta insussistente ove la verifica sia già intervenuta, con esito positivo, per le medesime mansioni, in virtù di prestazione resa dal lavoratore, per un congruo lasso di tempo, a favore dello stesso datore di lavoro in tal senso fra le più recenti Cass. 17.7.2015 numero 15059 Cass. 25.3.2015 numero 6001 Cass. 5.3.2015 numero 4466 . È stato anche precisato che il principio è applicabile ogniqualvolta il prestatore venga chiamato a svolgere la medesima attività, senza che rilevino la natura e la qualificazione dei contratti stipulati in successione Cass. 29.7.2005 numero 15960 nonché la diversa denominazione delle mansioni Cass. 1.9.2015 numero 17371 e senza che in sede di legittimità possa essere censurato l’accertamento di eguaglianza effettiva delle mansioni, in quanto riservato al sovrano apprezzamento del giudice di merito Cass. numero 17371/2015 e Cass. 6001/2015 . La sentenza impugnata è conforme ai principi di diritto sopra richiamati, dei quali ha fatto corretta applicazione, evidenziando che l’attività di insegnamento affidata al D. negli anni 2005 e 2006, nell’ambito del corso per operatore su computer, era del tutto sovrapponibile a quella oggetto del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato stipulato nell’anno 2007. Il motivo, nella parte in cui censura detta valutazione, sottolineando le differenze che la Corte territoriale non avrebbe apprezzato, esula dalla denunciata violazione di legge e si risolve nella inammissibile sollecitazione di una diversa valutazione delle risultanze di causa, non consentita in sede di legittimità. Al riguardo occorre ribadire che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nel rispetto della disciplina applicabile ratione temporis . Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa Cass. 26.3.2010 numero 7394 e negli stessi termini Cass. 10.7.2015 numero 14468 . Ne discende che per le sentenze pubblicate, come nella fattispecie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della legge 7 agosto 2012 numero 134 pubblicata sulla G.U. numero 187 dell’11.8.2012 , di conversione del d.l. 22 giugno 2012 numero 83, la motivazione è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi, che qui non ricorre, di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti . 3 - È, invece, fondato il secondo motivo perché erroneamente la Corte territoriale ha ritenuto che alla nullità del patto di prova dovessero conseguire, in modo automatico, la vanificazione degli effetti del recesso, la ricostituzione del rapporto, il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data della risoluzione sino a quella della riammissione in servizio. Va premesso che la censura, con la quale si sostiene, attraverso il richiamo a Cass. 5 marzo 2013 numero 5404, che le conseguenze del licenziamento intimato in presenza di un patto di prova affetto da nullità, dovevano essere quelle previste dall’art. 8 della legge numero 604 del 1966, applicato dal giudice di primo grado, e non quelle di diritto comune , prospetta una questione di diritto e non di fatto, sicché la stessa non può essere ritenuta inammissibile per novità, tanto più che le deduzioni del ricorso sono volte a contrastare la motivazione della sentenza impugnata. Si è detto che il patto di prova tutela l’interesse di entrambe le parti a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, sicché, proprio in ragione di detto interesse, l’art. 2096 c.c. consente il recesso ad nutum che permette al datore di lavoro di recedere dal rapporto, senza alcun obbligo motivazionale, qualora sia insoddisfatto dell’esito della sperimentazione. A sua volta l’art. 10 della legge numero 604 del 1966, nello stabilire che le norme della presente legge sui licenziamenti individuali si applicano nei confronti dei prestatori di lavoro . assunti in prova . dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva , sottrae il rapporto nel quale il patto di prova sia stato validamente inserito alla applicazione della disciplina limitativa del licenziamento, con la conseguenza che il recesso del datore licenziamento durante il periodo di prova rientra così nella cosiddetta area della recedibilità acausale, o ad nutum il datore è titolare di un diritto potestativo, il cui esercizio legittimo non richiede giustificazione Cass. S.U. 2.8.2002 numero 11633 . Peraltro detta recedibilità, libera sia pure nei limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, presuppone che il patto di prova sia stato validamente apposto, sicché ove difettino i requisiti di sostanza e di forma richiesti dalla legge, la nullità della clausola, in quanto parziale, non estendendosi all’intero contratto, determina la conversione in senso atecnico del rapporto in prova in rapporto ordinario . e trova applicazione, ricorrendo gli altri requisiti, il regime ordinario del licenziamento individuale Cass. 18.11.2000 numero 14950 . In altri termini il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull’erroneo presupposto della validità della relativa clausola o in forza di errata supposizione della persistenza del periodo di prova, in realtà già venuto a scadenza, non può iscriversi nell’eccezionale recesso ad nutum di cui all’art. 2096 c.c. bensì, non trovando applicazione l’art. 10 della legge numero 604 del 1966, consiste in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o giustificato motivo Cass. 19.8.2005 numero 17045 e negli stessi termini Cass. 22.3.1994 numero 2728 . Ha, quindi, errato la Corte territoriale nel ritenere che la nullità del patto di prova vanificasse gli effetti del recesso determinando, per ciò solo, la ricostituzione del rapporto, dovendo, al contrario, trovare applicazione la disciplina ordinaria sui licenziamenti e, quindi, in presenza dei requisiti rispettivamente richiesti, la tutela assicurata dalla legge numero 604 del 1966 o dall’art. 18 della legge numero 300 del 1970. Inoltre, ai fini della applicazione della disciplina concretamente applicabile alla fattispecie, valgono i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in merito all’onere della prova gravante sul datore di lavoro, anche in relazione al requisito dimensionale. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame attenendosi a quanto sopra indicato ed al principio di diritto di seguito enunciato il licenziamento intimato sull’erroneo presupposto della validità del patto di prova, in realtà affetto da nullità, riferendosi ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non è sottratto alla applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti, per cui la tutela da riconoscere al prestatore di lavoro sarà quella prevista dall’art. 18 della legge numero 300 del 1970, qualora il datore di lavoro non alleghi e dimostri la insussistenza del requisito dimensionale, o quella riconosciuta dalla legge numero 604 del 1966, in difetto delle condizioni necessarie per la applicabilità della tutela reale . P.Q.M. La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Messina in diversa composizione.