Pesa 144 chili: donna obesa, ma non ha diritto all’assegno di invalidità

Decisiva la valutazione compiuta dal consulente tecnico d’ufficio, che ha preso in esame le precarie condizioni fisiche della donna. Egli ha riconosciuto una riduzione della capacità lavorativa pari al 71 per cento. Tale dato non è sufficiente però per obbligare l’INPS a versare alla donna l’assegno di invalidità.

Donna affetta da obesità è arrivata a pesare 144 chilogrammi. Tale condizione, però, non è sufficiente per riconoscerle il diritto all’assegno di invalidità. Legittimo, quindi, il no opposto dall’INPS e dalla Regione. Cassazione, sentenza n. 17644, sezione Lavoro, depositata il 6 settembre 2016 Perizia. Decisiva, sia in Tribunale che in Corte d’appello, la perizia redatta dal consulente tecnico d’ufficio. Dalla relazione emerge che la donna, gravemente obesa, con complicanze artrosiche in ipertensione arteriosa ed esiti di intervento chirurgico per tunnel carpale, oltre a disturbo depressivo in blando trattamento farmacologico , presenta una riduzione della capacità lavorativa nella misura del 71 per cento . Questo dato non è sufficiente, evidenziano i giudici, per l’assegno di invalidità . Tabella. Secondo il legale della donna, però, il consulente tecnico ha commesso un errore. In sostanza, è stata riconosciuta un’invalidità del 71 per cento facendo riferimento a un indice di massa corporea tra 35 e 40 , mentre l’indice riferibile alla donna, che pesa 144 chilogrammi, è pari a 51 . Ciò comporta, sempre secondo il legale, che sarebbe stato più logico, facendo riferimento alla Nuova tabella indicativa delle percentuali d’invalidità per le minorazioni e le malattie invalidanti , riconoscere un’invalidità del 75 per cento . Tutto ciò serve, ovviamente, a sostenere il diritto della donna all’ assegno da parte dell’INPS. La visione proposta dal legale, però, viene respinta anche dai magistrati della Cassazione. Ciò perché è corretto l’operato del consulente che ha riconosciuto una percentuale invalidante del 71 per cento, svincolandosi dalle previsioni della tabella – approvata con decreto del ministero della Sanità, datato 5 febbraio 1992 – proprio in considerazione della maggiore gravità della patologia lamentata dalla donna.

Corte di Cassazione, sez, Lavoro, sentenza 24 maggio – 6 settembre 2016, n. 17644 Presidente D’Antonio – Relatore Ghinoy Svolgimento del processo La Corte d'appello di Torino, con la sentenza n. 471 del 2009, confermava la sentenza dei Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso proposto da M.A.L.M. per ottenere dall'Inps e dalla Regione Piemonte il riconoscimento del proprio diritto a percepire l'assegno di invalidità ex art. 13 della L.n. 118 del 1971. La Corte d'appello recepiva le conclusioni della c.t.u. rinnovata in secondo grado, che aveva concluso che la periziata, soggetto gravemente obeso con complicanze artrosiche in ipertensione arteriosa ed esiti di intervento chirurgico per tunnel carpale, oltre a disturbo depressivo in un blando trattamento farmacologico, era affetta da riduzione della capacità lavorativa in misura del 71%, come già ritenuto dal c.t.u. di primo grado. Compensava le spese processuali, nella ritenuta sussistenza di giuste ragioni, ponendo quelle di c.t.u. a carico dell'Inps. Per la cassazione della sentenza M.A.L.M. ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. L'Inps, il Ministero dell'economia e delle Finanze e la Regione Piemonte sono rimasti intimati. Motivi della decisione 1. A sostegno dei primo motivo di ricorso, M.A.L.M. deduce violazione e falsa applicazione dell'articolo 13 della L. 30/3/1971 n. 118 e successive modificazioni con riferimento agli articoli 1,2, e 5 del d.lgs. n. 509 del 1988, alle tabelle di cui al Dm 5/2/1992, codice 7105 e 7101 ed ai principi scaturiti da Cass. 19/8/2004 n. 16251. Lamenta che il consulente tecnico abbia riconosciuto un' invalidità dei 71% applicando il codice 7105 della tabella approvata con Dm 5/2/1992, che riconosce un'invalidità dal 31 al 40% con riferimento ad un indice di massa corporea tra 35 e 40, mentre l'indice riferibile alla ricorrente, del peso di 144 kg al momento della visita del primo c.t.u., è pari a 51. II c.t.u. avrebbe dovuto quindi applicare per analogia un'altra voce di tabella, quale il codice 7001 che prevede per l'anchilosi dei rachide totale un'invalidità del 75%. Aggiunge che le modalità d'uso della nuova tabella di invalidità approvate con il suddetto Dm nella prima parte dispongono che quando l'infermità non è tabellata, in ragione della sua natura e della sua gravità, è possibile valutarne il grado con criterio analogico rispetto a quelle tabella sostiene altresì che il consulente tecnico avrebbe dovuto ricorrere ad una valutazione complessiva dei danni, che rendeva applicabili anche gli articoli 2 e 5 del decreto legislativo 23/11/88 numero 1509, ad effetto dei quali le percentuali di invalidità indicate in misura fissa ovvero per fasce possono essere aumentate fino a cinque punti percentuali rispetto ai valori fissi indicati, rendendo valutabili anche le menomazioni non concorrenti comprese nella fascia tra lo 0 e il 10%. 2. Come secondo motivo, lamenta omessa motivazione sulle medesime circostanze, rilevando che la sentenza impugnata non dà conto della diversa valenza delle infermità che dovevano essere accertate con corretti criteri. 3. Come terzo motivo, deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 99,112,132 c.p.comma 118 disp. att. c.p.comma e lamenta che il giudice d'appello non si sia pronunciato sul motivo con il quale ella si doleva che il tribunale avesse posto le spese di c.t.u. di primo grado per metà a suo carico, malgrado sussistessero le condizioni reddituali idonee a renderla esente dal pagamento. 4. Come quarto motivo, deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 152 disp.att. c.p.c., 92 c.p.c., 42 comma 11 DI numero 269 del 2003 convertito in legge 326 del 2003 e ribadisce che la gratuità prevista dalla disposizione censurata deve ritenersi estesa anche alle spese di consulenza tecnica. 5. II primo motivo di ricorso non è fondato. 5.1. Occorre premettere che la tabella indicativa delle percentuali di invalidità per le minorazioni e le malattie invalidanti, approvata con d.m. dei 5 febbraio 1992, in attuazione dell'art. 2 dei d.lgs. 23 novembre 1988, n. 509, integra la norma primaria ed è vincolante, con la conseguenza che la valutazione del giudice, che prescinda dei tutto dall'esame di tale tabella, comporta un vizio di legittimità denunciabile con ricorso per cassazione Cass.n. 6850 del 24/03/2014 . 5.2. La Corte territoriale non è tuttavia incorsa nella denunciata violazione di legge. La ricorrente richiama il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 16251 del 2004, secondo il quale il codice 7105 della tabella contenuta nel d.m. 5 febbraio 1992 include l'obesità con complicanze artrosi che nella fascia di invalidità dal 31 al 40%, quando vi sia un indice di massa corporea compreso tra 35 e 40, sicché quando l'indice di massa corporea risulti superiore, occorre un' indagine diretta ad acclarare l'effettivo grado di invalidità, svincolata dai limiti specificati dalla richiamata tabella. A tale principio la Corte territoriale si è attenuta, laddove ha richiamato e condiviso le conclusioni dei consulente tecnico, che aveva riconosciuto una percentuale invalidante del 71%, superiore rispetto a quella massima del 40% prevista dalla voce 7105, così svincolandosi dalle previsioni della tabella proprio in considerazione della maggiore gravità della patologia riscontrata rispetto a quella ivi considerata. La ricorrente, chiedendo che la propria malattia sia classificata in una voce di tabella riferita a malattia diversa, ma assimilabile alla propria per gravità, non formula in sostanza una critica relativa all'errata applicazione delle tabelle, ma alla valutazione della gravità della propria patologia come ritenuta dal c.t.u., chiedendone una valutazione superiore. La denuncia si risolve quindi nella mera prospettazione di un sindacato di merito sulla valutazione, inammissibile in sede di legittimità cfr., ex multis, Cass. n. 10222 dei 4/5/2009, n. 23530 del 16/10/2013 . 6. Neppure il secondo motivo è fondato. Basta qui richiamare il principio consolidato secondo il quale il giudice del merito, qualora condivida i risultati della consulenza tecnica d'ufficio, non è tenuto ad esporre in modo specifico le ragioni del suo convincimento, atteso che la decisione di aderire alle risultanze della consulenza implica valutazione ed esame delle contrarie deduzioni delle parti, mentre l'accettazione dei parere del consulente, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce motivazione adeguata, non suscettibile di censure in sede di legittimità Cass., 22 febbraio 2006, n. 3881 . In tal caso l'obbligo della motivazione è assolto con l'indicazione della fonte dell'apprezzamento espresso, senza la necessità di confutare dettagliatamente le contrarie argomentazioni della parte, che devono considerarsi implicitamente disattese cfr. fra le tante, Cass. 9 marzo 2001, n. 3519 . 7. Sono invece fondati il terzo e il quarto motivo. Questa Corte ha chiarito sin da epoca risalente che I' onere delle spese di consulenza tecnica d' ufficio non si sottrae alla comune disciplina delle spese processuali e che pertanto le stesse, a norma dell'art 152 disp. att. cod. procomma civ, non possono gravare sul soccombente nei confronti del quale sussistano le condizioni per l'esonero previste dalla richiamata disposizione. Cass. n. 4481 del 08/04/2000, n. 4589 del 06/05/1998, n. 2540 del 17/04/1980 . La Corte territoriale, in presenza di uno specifico motivo di gravame ed avendo provveduto in tal senso nel giudizio di secondo grado, avrebbe quindi dovuto riformare il capo della sentenza di primo grado oggetto di censura e porre per intero le spese di c.t.u. anche di primo grado a carico dell'Inps. 8. Il ricorso deve quindi essere accolto in relazione al terzo e quarto motivo e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 II comma c.p.c., ponendosi le spese di c.t.u. di primo grado per intero a carico dell'Inps. 9. Non vi è luogo a condanna alle spese della ricorrente, malgrado la sua prevalente soccombenza, in considerazione della mancata costituzione in giudizio delle parti intimate e della sussistenza delle condizioni per l'esonero, sopra richiamate. P.Q.M. La Corte accoglie il terzo e quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione i motivi accolti e, decidendo nel merito, pone le spese di c.t.u. di primo grado, come, liquidate dal Tribunale, interamente a carico dell'Inps. Non assoggetta la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.