Trasferimento della lavoratrice: cambia il luogo ma non il datore di lavoro

Se cambia il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa non si ha automaticamente trasformazione del rapporto di lavoro e la subordinazione non si estende dal datore di lavoro originario anche agli altri.

Lo sostiene la Corte di Cassazione nella sentenza n. 17323/16, depositata il 25 agosto. La fattispecie. La Corte d’appello di Messina condannava un avvocato a pagare nei confronti di una sua ex dipendente una somma di denaro a titolo di differenze retributive, dichiarando nullo il licenziamento intimatole. Inoltre, condannava lo stesso avvocato a pagare, sempre nei confronti dell’attrice, le retribuzioni che le doveva dalla data di cessazione del rapporto di lavoro oltre interessi e rivalutazione monetaria. La donna ricorre in Cassazione, non solo nei confronti dell’avvocato ma anche nei riguardi di due avvocatesse, presso il cui studio il primo si era successivamente trasferito e di cui la stessa Corte messinese aveva dichiarato difetto di legittimazione passiva. Nel dettaglio, la ricorrente sostiene che, a seguito del trasferimento del suo datore di lavoro, era stata inserita in un’organizzazione produttiva facente capo ai tre avvocati ed era, pertanto, sottoposta anche al potere direttivo delle due nuove titolari. La Suprema Corte, preliminarmente, conferma la decisione dei Giudici di secondo grado per quanto concerne la carenza di legittimazione passiva delle due avvocatesse, mancando la prova della subordinazione tra la ricorrente e queste ultime. Non c’è prova della subordinazione. La Cassazione condivide, poi, le conclusioni dei Giudici d’appello anche relativamente alla questione della subordinazione in particolare, gli Ermellini ritengono che essa poteva dirsi provata nei confronti dell’avvocato ma non delle due avvocatesse. Il fatto che i tre professionisti abbiano deciso di condividere lo studio non conta era stato l’avvocato ad assumere la ricorrente, a retribuirla e, poi, a licenziarla. E, non a caso, a lui ella si era rivolta per chiedere di essere riassunta. Il luogo della prestazione non trasforma il rapporto di lavoro. Il fatto che sia cambiato materialmente il luogo di svolgimento della prestazione non comporta, in automatico, la trasformazione del rapporto di lavoro e la subordinazione non si estende da un datore di lavoro anche agli altri. Ma non è tutto non erano emerso che le avvocatesse esercitassero poteri direttivi o disciplinari sulla ricorrente, né che fosse tra loro presente un vincolo di subordinazione. Per tutto quanto detto, il ricorso non può che essere respinto.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 9 marzo – 25 agosto 2016, n. 17323 Presidente Di Cerbo – Relatore De Gregorio Svolgimento del processo Con sentenza n. 2341 del 20 novembre 2012, depositata il 7 gennaio 2013, la Corte di Appello di Messina rigettava l’appello principale, proposto dall’avv. G.V. e accoglieva quello separatamente interposto, avverso la medesima pronuncia emessa dal locale giudice del lavoro, dalle avvocatesse N.L. e C.M.I. , nonché quello incidentale dall’attrice M.D. . Dichiarava il difetto di legittimazione passiva di N.M.L. e di C.M.I. , di modo che condannava esclusivamente G.V. al pagamento, in favore dell’attrice M. , della somma complessiva di Euro 20.935,02 oltre interessi e rivalutazione monetaria per quanto dovuto a quest’ultima a titolo di differenze retributive da gennaio 1992 al luglio 2001. Dichiarava, inoltre, nullo il licenziamento intimato dall’avv. G.V. a M.D. , condannando per l’effetto il predetto al pagamento in favore dell’attrice di tutte le retribuzione dovutele dalla data di cessazione del rapporto di lavoro sino al 5 novembre 2007, oltre interessi e rivalutazione monetaria. Condannava, infine, G.V. al pagamento delle spese di entrambi i gradi del giudizio, liquidate in favore di M.D. , compensando invece tra le parti quelle relative alla costituzione delle suddette N. e C. . Contro la sentenza della Corte messinese ha proposto ricorso per cassazione M.D. con sette motivi, nei riguardi di N.M.L. e di C.I. , nonché nei confronti di G.V. . Hanno resistito al ricorso le avvocatesse C. e N. , mediante controricorso. G.V. è rimasto invece intimato. La ricorrente e le controricorrenti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c Motivi della decisione Secondo la Corte distrettuale l’esame delle prove testimoniali forniva la prova dell’esistenza del rapporto di lavoro tra la M. ed il G. , a partire dall’inizio dell’anno 1992, così come individuato nel giuramento decisorio deferito alla prima dal secondo, laddove l’istruttoria di primo grado non aveva consentito di collocare l’inizio dell’attività lavorativa presso lo studio in epoca ancor più antecedente. Dopo il 1994 la M. aveva iniziato a lavorare per il notaio G. , ciò che trovava conforto anche nelle ammissioni fatte in ricorso dall’attrice, la quale aveva dichiarato che da tale epoca aveva lavorato per l’avv. G. soltanto nelle ore antimeridiane, dalle 9 alla 12,30. Di conseguenza, era apparsa corretta la quantificazione delle differenze retributive dovute dall’avv. G. pure in relazione all’orario osservato durante tale periodo e quantificate dall’ausiliare. Il c.t.u. contabile, nominato dal collegio, aveva, quindi, stimato la retribuzione dovuta sulla base della prestazione eseguita con riferimento all’orario osservato, sino al 31 gennaio 1999 di 17,5/40 e da febbraio 1999 sino a luglio 2001 secondo la frazione di 35/40. La stessa M. , poi, in occasione del giuramento decisorio deferitole dall’avv. G. aveva indicato le circostanze, sulla cui base era stata sviluppata la consulenza contabile. Andava, pertanto, disatteso l’assunto dell’avv. G. circa l’inesistenza, sino al 1999, di un rapporto di lavoro con la M. , secondo cui quest’ultima sarebbe stata invece dipendente soltanto del cugino, notaio G. , suo omonimo. Quanto, poi, al periodo di lavoro febbraio 1999 / 5 luglio 2001, successivo al trasferimento dell’avv. G. presso altro studio, condiviso con le avvocatesse C. e N. , secondo la Corte messinese, il rapporto era proseguito senza soluzione di continuità. Nulla in proposito avevano riferito i testi escussi, circa un effettivo diverso svolgimento dell’attività svolta dalla M. , la quale aveva soltanto condiviso l’ufficio di segreteria con altra segretaria, già dipendente dalle suddette C. e N. . Dalle dichiarazioni testimoniali, tra l’altro, emergeva che lo stesso avv. G. fu contattato dalla M. per ottenere la riassunzione e che il medesimo aveva adempiuto all’obbligo retributivo per l’attività espletata dalla lavoratrice, mentre mai le avvocatesse erano state viste pagare la stessa. In tale contesto quanto ribadito dall’avv. G. nel corso del giuramento deferitogli dalle colleghe assumeva sicura attendibilità . Per contro, nessun valore poteva attribuirsi alle generiche ed imprecise dichiarazioni rese dal teste B. , il quale aveva riferito circostanze de relato , che non consentivano di chiarire quali fossero gli accordi tra i tre avvocati nella gestione delle spese del nuovo studio. Parimenti, la Corte distrettuale opinava in ordine alle circostanze riferite dalla teste M. , segretaria della C. e della N. . Né peraltro, l’esistenza del necessario vincolo fiduciario risultava apprezzabile nella fattispecie, trattandosi di lavoratrice assunta, retribuita ed infine anche licenziata da altro collega avv. G. dello studio. Nulla poi escludeva la possibilità che all’interno della segreteria, un’addetta potesse offrire uno sporadico aiuto all’altra, secondo un loro possibile e tacito reciproco accordo di collaborazione. Pertanto, mancando la prova di un vincolo fiduciario e di subordinazione tra l’attrice e le avvocatesse C. e N. , la domanda nei confronti di costoro andava respinta. Per contro, l’avv. G. andava condannato, in via esclusiva, al pagamento della somma quantificata dal c.t.u. in 20.935,02 Euro a titolo di differenze retributive per il periodo gennaio 1992 / luglio 2001, oltre accessori, al lordo di trattenute fiscali e previdenziali. Quanto, poi, alla risoluzione del rapporto di lavoro, nessuna prova era stata fornita dal G. circa la cessazione consensuale dello stesso con la M. , essendovi in atti la prova contraria. Il licenziamento, comunque inefficace perché intimato durante la gravidanza della lavoratrice, risultava altresì inefficace perché disposto senza la prescritta forma scritta. Orbene, la M. a fronte delle anzidette risultanze processuali impugna la sentenza de qua in base ai seguenti motivi 1 violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 2094 c.c. anche in relazione all’articolo 2697 dello stesso codice. In particolare, la ricorrente si duole che in base al ragionamento seguito dalla Corte distrettuale la decisione di secondo grado avrebbe completamente svalutato il dato dell’inserimento di essa ricorrente per il periodo 31 gennaio 1999 / 5 luglio 2001, successivo al trasferimento dell’avvocato G. presso altro studio, condiviso con le avvocatesse C. e N. , all’interno di un’organizzazione produttiva facente capo ai tre avvocati 2 omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, costituito dall’assoggettamento della ricorrente al potere direttivo altresì delle avvocatesse C. e N. 3 violazione e falsa applicazione dell’articolo 116 c.p.c. anche in relazione all’articolo 2094 dall’articolo 2697 del codice civile nonché all’articolo 115 c.p.c., essendo indubbia la non conformità al canone del prudente apprezzamento, ex cit. art. 116, la valutazione delle prove da parte del giudice di merito che, chiamato a scrutinare la natura autonoma o subordinata di un rapporto di lavoro, aveva completamente omesso di valutare le circostanze di fatto dedotte sub secondo motivo, che erano dotate di una rilevanza decisiva avuto riguardo al parametro normativo di cui all’art. 2094 c.c., tant’è che non era stata nemmeno indicata la fonte di prova dell’asserita circostanza, secondo la quale nulla escludeva la possibilità che all’interno della segreteria tra le addette fosse intervenuto un tacito accordo di reciproca collaborazione 4 nullità della sentenza o del procedimento, per aver la Corte di Appello ha ritenuto di ufficio l’esistenza di un fatto non allegato, né provato da alcuna delle parti interessate a dedurlo, laddove si era ritenuta non esclusa la possibilità che all’interno della segreteria una segretaria potesse offrire uno sporadico aiuto al all’altra secondo un possibile tacito, reciproco accordo di collaborazione 5 violazione e falsa applicazione articolo 112 c.p.c. anche in relazione all’articolo 115 dello stesso codice di rito, sempre in relazione alla circostanza di cui ai precedenti punti tre e quattro 6 violazione o falsa applicazione degli articoli 233 e 239 c.p.c., anche in relazione all’articolo 2736 n. 1 codice civile, laddove la Corte di Appello aveva attribuito rilievo probatorio alle dichiarazioni rese dall’avvocato G. in sede di giuramento, deferitogli dalle avvocatesse C. e N. , mentre a norma dell’art. 2736 il giuramento è quello che una parte riferisce all’altra per farne dipendere la decisione totale o parziale della causa, sicché una parte per poter deferire il giuramento decisorio all’altra deve aver proposto contro di questa una domanda. Nella fattispecie, invece, le avvocatesse C. e N. non avevano proposto alcuna domanda nei confronti del G. 7 violazione e falsa applicazione dell’articolo 116 c.p.c., anche in relazione all’articolo 2738, comma terzo, codice civile, sempre in relazione al giuramento deferito dalle Convenute N. e C. all’avvocato G. , trattandosi di litisconsorzio necessario con conseguente libero apprezzamento da parte del giudice. Infatti, il confitente ex art. 2733 n. 3 c.c. e colui che rende il giuramento, nell’ambito di quanto previsto dall’art. 2738, co. III, cit., non hanno alcun potere di disposizione del diritto degli altri litisconsorti, donde l’inammissibilità del giuramento decisorio nel caso di specie e comunque l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese sulla base di un giuramento non dalla parte che abbia proposto domande nei confronti di colui verso il quale il giuramento è deferito, ma nei riguardi di altro convenuto, coobbligato in solido con l’altro secondo la tesi di parte attrice. Gli anzidetti motivi sono infondati e vanno, di conseguenza disattesi, in forza delle seguenti considerazioni. Attesa la loro connessione, i primi tre possono essere esaminati congiuntamente. In effetti, parte ricorrente assume più che le asserite violazioni di legge, il difetto di congrua e logica motivazione, però del tutto insussistente in base a quanto emerso dall’istruttoria così come dettagliatamente riportata nella sentenza de qua. Invero, la M. tende a rimettere in discussione le valutazioni e gli apprezzamenti in punto di fatto operati dal giudice di merito con esauriente motivazione, ma del tutto inammissibilmente in questa sede di legittimità, laddove il vizio di motivazione può configurarsi unicamente allorché il ragionamento seguito appaia manifestamente incoerente ed illogico, e non già quando in effetti non tenga conto delle aspettative in punto di fatto di parte ricorrente. Per di più nel caso in esame la sentenza impugnata n. 2341/2012 risale al 20 novembre 2012 ed è stata pubblicata il sette gennaio 2013, di modo che, ratione temporis , applicabile il nuovo testo dell’art. 360, co. 2, n. 5 omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti , numero così sostituito dall’art. 54, co. 1, lett. b , d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 norma che, per espressa previsione dell’art. 54, co. 3, di. cit., si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, avvenuta il 12 agosto 2012, tenuto peraltro anche conto che nella specie neppure opera la sospensione dei termini durante il periodo feriale, trattandosi di causa soggetta al rito speciale lavoro v. in pan. Cass. sez. un. civ. n. 749 del 16/01/2007, secondo cui l’esclusione delle controversie di lavoro dalla sospensione feriale dei termini processuali si applica anche con riferimento ai giudizi di cessazione tale principio opera anche nel caso in cui il giudice del lavoro originariamente adito abbia escluso la giurisdizione del giudice ordinario e tale decisione sia impugnata con ricorso per cessazione poiché il relativo giudizio rappresenta, un ulteriore grado di un processo promosso come causa di lavoro e assoggettato, nelle fasi di merito, al relativo rito. In senso analogo Cass. lav. n. 20732 del 26/10/2004, secondo cui la sospensione feriale dei termini processuali non si applica alle controversie di lavoro e previdenza, neanche nel giudizio di cassazione. Conforme altresì Cass. n. 5015 del 2002 . Orbene, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione Cass sez. un. civ. n. 8053 del 07/04/2014. Conformi Sezioni unite n. 8054 del 07/04/2014, nonché tra le Cass. civ. Sez. 6 - 3, n. 21257 in data 08/10/2014, secondo la quale dopo la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5 , cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto al contrario, il vizio motivazionale previsto dal n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico , nella motivazione apparente , nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile , esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione. In senso analogo v. altresì Cass. 6 - 3, n. 23828 del 20/11/2015. Per di più, le Sezioni unite civili della Corte con la succitata sentenza n. 8053/2014 hanno precisato che di seguito alle riformulazione dell’art. 360, co 1, n. 5, ex cit. art. 54 d.l., n. 83/2012, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività , fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. V. altresì Cass. lav. n. 6288 del 18/03/2011, secondo cui il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perché la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione . Pertanto, alla luce di quanto chiarito in narrativa, circa il percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale, è del tutto insussistente l’asserito vizio di motivazione e con esso le altre connesse censure di cui al I e III mezzo d’impugnazione. Invero, la complessiva ratio decidendi posta a sostegno della decisione impugnata appare del tutto legittima e corretta, alla stregua di quanto sul punto accertato dai giudici di appello, secondo cui in particolare non poteva dirsi provata la subordinazione della M. , nel rapporto di lavoro che pacificamente la legava al solo avv. G. , anche nei confronti delle avvocatesse N. e C. , per il solo fatto che da un certo momento i tre professionisti avevano condiviso lo studio legale presso cui operavano, tenuto conto invece che la ricorrente risultava retribuita unicamente dall’avv. G. , che in seguito l’aveva pure licenziata e al quale peraltro la diretta interessata si era anche rivolta per essere riassunta. Di conseguenza, il mero dato oggettivo, costituito dallo svolgimento della prestazione presso uno studio facente capo a tre professionisti le cui modalità di gestione o la cui titolarità, se in forma individuale o associata, non sono peraltro neanche note non comporta di per sé necessariamente la trasformazione del rapporto di lavoro, mediante l’estendersi della subordinazione della lavoratrice da uno di essi, sicuramente datore di lavoro di quest’ultima, agli altri due, tanto più poi che il rapporto contrattuale risulta rimasto inalterato rispetto alle parti originarie dello stesso in relazione al suo divenire, per cui il corrispettivo del contratto ha riguardato esclusivamente tali soggetti, uno dei quali poi di fatto ha unilateralmente disposto la cessazione del rapporto medesimo, perciò senza necessità di rivolgersi ad altri. Nulla di preciso ha confutato sul punto la ricorrente, che si è limitata a criticare la pronuncia de qua perché aveva attribuito rilevanza ad elementi asseritamene estrinseci e privi di significato come quelli, concernenti l’espletamento da parte dell’avv. G. , del colloquio per individuare un sostituto della ricorrente ed il fatto che quest’ultima l’avesse contatto per ottenere la riassunzione ed ancora il fatto che l’obbligo retributivo fosse materialmente adempiuto dal G. . Per di più, la Corte di Appello aveva rilevato, in base alle acquisite dichiarazioni testimoniali, che la M. dattiloscriveva e che inizialmente non sapeva utilizzare il computer, mentre le avvocatesse erano solite pretendere la redazione dei loro atti mediante videoscrittura, laddove l’avv. G. dettava i suoi appunti ai collaboratori, i quali poi li lasciavano alla M. perché provvedesse a dattiloscriverli. Né erano emersi elementi che consentissero di ravvisare alcun esercizio di poteri direttivi delle avvocatesse N. e C. sulla M. , né alcun elemento da cui poter desumere l’esistenza dl un vincolo di subordinazione della lavoratrice nei confronti delle stesse o dell’esercizio di poteri disciplinari. Nessun valore, poi, si poteva attribuire alle dichiarazioni generiche ed imprecise rese de relato dal teste B. . Quanto, poi, alle circostanze narrate dalla teste M. , segretaria delle due avvocatesse, la Corte messinese ha attribuito natura meramente valutative delle affermazioni contenute in tale deposizione lavorava alle dipendenze di tutti e tre gli avvocati . io lavoravo alle dipendenze di tutti e tre gli avvocati , perciò non consentite. Nulla però la M. aveva riferito in ordine all’atteggiarsi in concreto del rapporto tra la M. e le avvocatesse. Pertanto, con insindacabile accertamento di fatto i giudici dell’appello hanno ritenuto la mancanza di prova, da parte dell’attrice, che ne aveva evidentemente l’intero onere ex art. 2697 c.c., in ordine alla sussistenza del preteso rapporto di lavoro subordinato tra la ricorrente ed anche le due avvocatesse. Relativamente al quarto ed al quinto motivo di ricorso, gli stessi appaiono inammissibili, atteso che la circostanza circa la prospettata eventualità che all’interno dell’ufficio di segreteria fosse intervenuto un tacito accordo di reciproca collaborazione tra le impiegate addette a tale ufficio non costituisce di certo motivo fondante della decisione di rigetto della domanda nei confronti delle convenute N. e C. . Infatti, la motivazione dell’impugnata pronuncia al riguardo va esaminata complessivamente, in base alle varie argomentazioni, di cui si è già detto, svolte dalla Corte territoriale, dal cui tenore ben si comprende come la decisione in proposito non si fondi di certo sulla ipotizzata eventualità, senz’altro non decisiva nel contesto dell’intero ragionamento seguito, essendo stata prospettata evidentemente soltanto ad colorandum per arricchire, ma senza alcuna decisiva rilevanza, il convincimento del mancato raggiungimento della prova a sostegno della pretesa creditoria azionata pur nei confronti delle due avvocatesse. Parimenti va ritenuto, infine, in relazione al sesto ed al settimo motivo di ricorso, relativamente alle dichiarazioni rese dal G. in occasione del giuramento a costui deferito dalle avvocatesse. Ed invero, prescindendo da ogni altra considerazione sulla valenza probatoria di tali dichiarazioni, va appena rilevato che anche in proposito l’osservazione del collegio d’appello in tale contesto quanto ribadito dall’avv. G. nel corso del giuramento deferitogli dalle colleghe assume sicura attendibilità non costituisce di certo argomentazione decisiva ai fini della statuizione di rigetto impugnata, che appare invece nel suo complessivo tenore fondata sulla mancata fornitura di idonei elementi probatori, quanto alle pretese azionate nei riguardi della N. e della C. , convenute dall’attrice M. , che ne aveva l’onere ai sensi del richiamato art. 2697. Pertanto, il ricorso va respinto con la condanna al rimborso delle spese, in favore delle sole controricorrenti, N. e C. , da parte della soccombente, tenuta quindi come per legge anche al pagamento dell’ulteriore contributo unificato. P.Q.M. la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle relative spese in favore delle controricorrenti, liquidandole in Euro 4.500,00 quattromilacinquecento/00 per compensi, oltre che alle spese generali in ragione del 15%, nonché accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.