Il tempo non conta nel licenziamento per superamento del periodo di comporto

Mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza di immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa dell’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione, ove adeguatamente motivata.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 10666, depositata il 23 maggio 2016. Il caso. La Corte d’appello di Palermo ha confermato il rigetto della domanda di un lavoratore volta ad accertare l’illegittimità del licenziamento comminatogli per superamento del periodo di comporto, quando ormai erano trascorsi sei mesi dalla scadenza del comporto stesso. Con riferimento all’eccepita mancanza di tempestività del licenziamento, la Corte territoriale ha rilevato che il mero decorso del tempo, che nel licenziamento disciplinare assume una presuntiva valenza di acquiescenza con onere del datore di lavoro di contrastarla, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto mantiene valenza neutra, ben potendo essere sintomatico dell’intento del datore di lavoro di valutare se mantenere in vita il rapporto, pur in presenza di un fatto oggettivo costituito dal numero di assenze del lavoratore che legittimerebbe il recesso. La Corte territoriale ha inoltre precisato che la scarsa significatività del mero decorso del tempo determina l’attenuazione del rigore dell’onere della prova a carico del datore di lavoro, che è dunque affrancato dal sospetto dell’artificiosa protrazione dell’attesa e dell’utilizzazione capziosa del tempo in favore del riconoscimento di un onere, quantomeno di allegazione, in capo al lavoratore, finalizzato ad interpretare la condotta del datore di lavoro come acquiescenza. La tempestività del recesso per superamento del periodo di comporto. La Suprema Corte ha ritenuto infondata l’eccezione circa la mancata tempestività del recesso, precisando che in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto la tempestività deve essere considerata in relazione all’esigenza di un ragionevole spatium deliberandi , da riconoscersi al datore di lavoro perché possa convenientemente valutare nel suo complesso la sequenza di episodi morbosi del lavoratore in rapporto agli interessi dell’azienda. Pertanto la tempestività va valutata in relazione ad una compiuta considerazione di ogni circostanza idonea ad incidere sulla valutazione del datore di lavoro circa la sostenibilità o meno delle assenze in rapporto con le esigenze dell’azienda, essendo rimessa alla valutazione dello stesso datore di lavoro la scelta della conservazione del posto di lavoro anche dopo il superamento del periodo di comporto. L’onere della prova. In merito all’onere probatorio, la Corte di Cassazione ha affermato che, pur non essendo possibile, in caso di superamento del periodo di comporto, che il rapporto di lavoro resti in uno stato di risolubilità, in contrasto con il regime di stabilità previsto dalla legge, costituisce però onere del lavoratore provare che l’intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, così da far ritenere, eventualmente in concorso con altre circostanze di fatto significative, la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto. Nel caso di specie, correttamente la Corte territoriale aveva escluso che il solo decorso del tempo di circa sei mesi e l’erogazione di un premio incentivante costituissero elementi sintomatici della rinuncia della società ad avvalersi del potere di recesso in assenza di specifica allegazione da parte del lavoratore circa la natura di tale emolumento non si poteva desumere alcunché in merito all’interesse dal datore di lavoro alla conservazione del rapporto. A contrario, rilevava che la società datrice di lavoro era notoriamente un’entità di grossa struttura organizzativa, la cui complessità ed articolazione finiva inevitabilmente per allungare i tempi di valutazione e delle successive determinazioni.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 3 marzo – 23 maggio 2016, numero 10666 Presidente Venuti – Relatore D’Antonio Svolgimento del processo La Corte d’appello di Palermo ha confermato la sentenza del Tribunale di rigetto della domanda di F.M. volta ad accertare l’illegittimità del licenziamento comminatogli dalla soc. AMAT Palermo per superamento del periodo di comporto. La Corte ha rilevato che la circostanza riferita dal lavoratore secondo cui le assenze erano conseguenza di un grave incidente stradale avvenuto nel 2005 non aveva alcuna incidenza sulla illegittimità del licenziamento, né avrebbe potuto configurare un diritto alla conservazione del posto per un tempo illimitato. Quanto all’eccepita mancanza di tempestività del licenziamento per essere stato irrogato dopo sette mesi dalla scadenza del comporto ha rilevato che il mero decorso del tempo, il quale nel licenziamento disciplinare assumeva una presuntiva valenza univoca di acquiescenza con onere a carico del datore di lavoro di contrastarla, nel licenziamento per superamento del comporto manteneva valenza neutra ben potendo essere sintomatico dell’intento del datore di lavoro di valutare se, in presenza di un fatto oggettivo costituito dal numero delle assenze del lavoratore che legittimerebbe il recesso, mantenere in vita il rapporto che infatti la particolarità del licenziamento per superamento del comporto, che poneva il datore di lavoro in una posizione di forza, induceva ad escludere che l’attesa potesse essere utilizzata in modo strumentale per mantenere nell’incertezza il lavoratore del quale il datore di lavoro avrebbe potuto liberarsi che la scarsa significatività del mero decorso del tempo determinava l’attenuazione del rigore dell’onere della prova a carico del datore di lavoro affrancato dal sospetto della artificiosa protrazione dell’attesa e dell’utilizzazione capziosa del tempo in favore del riconoscimento di un onere quantomeno di allegazione del lavoratore finalizzato ad interpretare la condotta del datore di lavoro come acquiescenza. Secondo la Corte il lavoratore nella specie non aveva assolto a tale onere probatorio limitandosi ad individuare come sintomatico della rinuncia ad avvalersi del potere di recesso, oltre alla ripresa del lavoro e la protrazione dell’attività lavorativa per oltre sei mesi, l’erogazione del premio incentivante che tali elementi non consentivano di ritenere provato l’interesse del datore di lavoro alla conservazione del posto o comunque di ravvisare un onere a suo carico di fornire una prova contraria considerata la neutralità del decorso del tempo e quanto al premio la mancanza di precisazione se si trattasse di emolumento erogato in relazione ad una valutazione individuale della qualità della prestazione che infine la società era notoriamente una grossa struttura con la conseguenza inevitabile di un allungamento dei tempi di valutazione e delle successive determinazioni. Infine ha rilevato l’insussistenza di qualsiasi obbligo della società di comunicare l’approssimarsi del periodo di comporto. Avverso la sentenza ricorre il F. con tre motivi. Resiste la soc AMAT Palermo. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente denuncia error in iudicando violazione del principio di tempestività applicabile anche in ipotesi di licenziamento per superamento del comporto. Lamenta che la Corte non ha considerato il comportamento successivo del datore di lavoro ed in particolare che la società, malgrado il superamento del comporto, non aveva contestato il ritorno del dipendente, gli aveva riconosciuto il premio incentivante, né aveva considerato le poche assenze maturate nel periodo successivo al comporto potendo tali elementi interpretarsi come tacita rinuncia a far valere il licenziamento. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia error in iudicando violazione del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, nonché vizio di motivazione. Censura la sentenza per aver escluso la sussistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro di comunicazione dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto. Rileva che era stato licenziato senza essere avvisato ed avendo ripreso il lavoro normalmente facendo affidamento sulla stabilità del rapporto. Con il terzo motivo denuncia error in iudicando vizio di motivazione. Lamenta che la Corte aveva considerato legittimo il licenziamento anche alla luce delle assenze effettuate dal lavoratore nel mese di febbraio 2009 successive al superamento del comporto. Richiama il principio di immutabilità della contestazione. I motivi,congiuntamente esaminati stante la loro connessione, sono infondati. Quanto al primo motivo deve rilevarsi,sotto un primo profilo, che il ricorrente,da un lato, lamenta la violazione del principio di tempestività che a suo dire deve ritenersi applicabile anche al licenziamento per superamento del periodo di comporto, e, dall’altro lato, rileva invece che gli elementi emersi nel corso del giudizio consentivano di ritenere una tacita rinuncia da parte del datore di lavoro a far valere il suo diritto al licenziamento. Risulta, in tal modo, la mancanza di corrispondenza tra le censure contenute nel motivo ed il vizio che si assume esistente nella sentenza individuato nella rinuncia tacita da parte della società datrice di lavoro a far valere il superamento del comporto. I motivo è, comunque, infondato. La Corte territoriale ha correttamente rilevato la differenza esistente tra il licenziamento per giusta causa e quello per superamento del comporto riconoscendo con riferimento a quest’ultimo la neutralità del decorso del tempo al contrario di quanto avviene per il licenziamento per giusta causa in cui la tempestività della contestazione rispetto al fatto addebitato costituisce elemento costitutivo della fattispecie del licenziamento legittimo. Si è affermato, con riguardo al licenziamento per superamento del comporto, cfr Cass. n 19400/2014 che mentre nel licenziamento disciplinare vi è l’esigenza della immediatezza del recesso, volta a garantire la pienezza del diritto di difesa all’incolpato, nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia la tempestività del licenziamento non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, ma costituisce valutazione di congruità che il giudice di merito deve fare caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative, e la cui valutazione non è sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata cfr., ex plurimis, Cass., nnumero 6057/1998 8235/1999 253/2005 al contempo è stato affermato che, pur non essendo possibile, in caso di superamento del comporto, che il rapporto rimanga in uno stato di risolubilità, in contrasto con il regime di stabilità previsto dalla legge, costituisce però onere del lavoratore provare che l’intervallo di tempo tra il superamento del periodo di comporto per malattia e la comunicazione del recesso da parte del datore di lavoro abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, sì da far ritenere - eventualmente in concorso con altre circostanze di fatto significative - la volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto cfr., ex plurimis, Cass., nnumero 3650/1987 3555/1989 . Deve rilevarsi, altresì, cfr Cass. 16683/2015 23920/2010 che la tempestività del recesso per superamento del comporto deve essere considerata in relazione all’esigenza di un ragionevole spatium deliberandi da riconoscersi al datore di lavoro perché possa convenientemente valutare nel suo complesso la sequenza degli episodi morbosi del lavoratore in rapporto agli interessi dell’azienda e che pertanto la tempestività va valutata in relazione ad una compiuta considerazione di ogni circostanza idonea ad incidere sulla valutazione del datore di lavoro circa la sostenibilità o meno delle assenze in rapporto con le esigenze dell’azienda essendo rimessa alla valutazione dello stesso datore di lavoro la scelta della conservazione del posto di lavoro anche dopo il superamento del comporto. Applicando tali principi al caso di specie deve rilevarsi che la Corte territoriale, con motivazione coerente con le emergenze acquisite,ha escluso che il solo decorso del tempo di circa sei mesi e l’erogazione del premio incentivante costituissero elementi sintomatici della rinuncia della società ad avvalersi del potere di recesso e comprovanti l’interesse del datore di lavoro alla conservazione del rapporto e ciò avuto riguardo alla segnalata neutralità del tempo e, in relazione alla corresponsione del premio incentivante, l’assenza di specificazione circa la natura di tale emolumento e se cioè si trattasse di emolumento in concreto erogato in relazione ad una valutazione individuale della qualità della prestazione o in modo uniforme corrisposto a tutti i lavoratori. La Corte territoriale ha, altresì, valutato al fine di escludere qualsiasi rilevanza al decorso del tempo che la società Amat era notoriamente una entità di grossa struttura organizzativa, la cui complessità ed articolazione finiva inevitabilmente per allungare i tempi di valutazione e delle successive determinazioni. Risulta infondato, altresì, il secondo motivo atteso che la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che il ricorrente non aveva neppure indicato il fondamento normativo o negoziale per il quale la soc. Amat era tenuta a comunicare al lavoratore l’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto. La valutazione complessivamente effettuata dalla Corte territoriale, appunto perché adeguatamente motivata, non è dunque sindacabile in questa sede di legittimità. Deve, inoltre, rilevarsi quanto alle censure di vizio di motivazione, che la sentenza impugnata è stata depositata dopo l’11 settembre del 2012 e pertanto al ricorso per cassazione è applicabile, quanto all’anomalia motivazionale, l’art. 360 c.p.c., numero 5, nella formulazione introdotta con il D.L. numero 83 del 2012, conv. con L. numero 134 del 2012. Nel sistema, l’intervento di modifica dell’art. 360 c.p.c., numero 5, come recentemente interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, del controllo sulla motivazione di fatto. Con esso si è invero avuta Cass. Sez. Unumero , 7 aprile 2014, numero 8053 la riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in questa sede è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile. In questo contesto, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., numero 5, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia . Tanto comporta Cass. Sez. Unumero , 22 settembre 2014, numero 19881 che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie mentre in ogni caso, la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, numero 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, numero 4 - il fatto storico , il cui esame sia stato omesso, il dato , testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando nel quadro processuale tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la decisività del fatto stesso. Ne consegue che la ricostruzione del fatto operata dai giudici del merito è ormai sindacabile in sede di legittimità soltanto ove la motivazione al riguardo sia affetta da vizi giuridici, oppure se manchi del tutto, oppure se sia articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi, oppure obiettivamente incomprensibili mentre non si configura un omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, ove quest’ultimo sia stato comunque valutato dal giudice, sebbene la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e quindi anche di quel particolare fatto storico, se la motivazione resta scevra dai gravissimi vizi appena detti. Risulta evidente che, nella fattispecie, una ricostruzione del fatto pienamente sussiste e che la decisione non è affetta dai vizi appena indicati come soli ormai rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., numero 5, nell’attuale formulazione. Per le considerazioni che precedono il ricorso deve essere rigettato. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13 comma I quater, dpr n 115/2002. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre 15% per spese generali ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del dpr numero 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.