La deroga al tetto massimo del massimale erogato per maternità è discrezionale e va motivata solo se adottata

L’indennità di maternità corrisposta alle libere professioniste iscritte ad una cassa di previdenza ed assistenza professionale viene determinata ai sensi dell’art. 70 del d.lgs. n. 151/2001, con il limite massimo previsto dal comma 3-bis del medesimo articolo e con possibilità di deroga ad ogni singola cassa di stabilire con delibera del consiglio d’amministrazione un importo massimo più elevato.

Consegue che vi è obbligo di motivazione per la cassa soltanto nel caso di esercizio del potere discrezionale di aumento e non anche in caso di mancato esercizio, in conformazione al tetto massimo di legge. Così affermato dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro con la sentenza n. 9757, pubblicata il 12 maggio 2016. La vicenda. Domanda di libera professionista di riliquidazione in aumento dell’indennità di maternità riconosciuta, in rapporto alla capacità reddituale e contributiva della categoria di appartenenza e all’importo delle prestazioni erogate. Una libera professionista iscritta a cassa di previdenza ed assistenza professionale notai agiva in giudizio chiedendo la riliquidazione in aumento dell’indennità di maternità riconosciuta, in rapporto alla capacità reddituale e contributiva della categoria di appartenenza e all’importo delle prestazioni erogate. Sosteneva che quanto liquidato dalla cassa corrispondeva all’importo massimo previsto dall’articolo 70, comma 3- bis , del d.lgs. n. 151/2001 e lamentava eccesso di potere in quanto la cassa non aveva provveduto a determinare l’aumento del massimale previsto ex lege , consentito dalla norma citata. Il Tribunale adito respingeva la domanda. Proposto appello, la Corte d’appello lo rigettava, confermando la decisione di primo grado. Proponeva così ricorso in Cassazione la professionista. Le norme in materia di indennità di maternità per i liberi professionisti. L’indennità di maternità per le libere professioniste, già disciplinata dalla legge 11 dicembre 1990, n. 379 è ora prevista dall’articolo 70 del d.lgs. 26 marzo 2001 n. 151, che così dispone Alle libere professioniste, iscritte ad un ente che gestisce forme obbligatorie di previdenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un'indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi alla stessa omissis 3- bis . L'indennità di cui al comma 1 non può essere superiore a cinque volte l'importo minimo derivante dall'applicazione del comma 3, ferma restando la potestà di ogni singola cassa di stabilire, con delibera del consiglio di amministrazione, soggetta ad approvazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un importo massimo più elevato, tenuto conto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e della compatibilità' con gli equilibri finanziari dell'ente . Il potere di aumento del massimale di legge è discrezionale Al fine di tutelare il sostegno economico delle donne libere professioniste nel periodo di maternità, il legislatore ha ritenuto che tale supporto potesse essere garantito attraverso un trattamento parametrato al minimale di retribuzione ai fini contributivi per i lavoratori dipendenti iscritti alla assicurazione generale obbligatoria. Al fine di preservare il più possibile il livello di reddito generalmente prodotto, ha inoltre previsto che ciascuna cassa previdenziale potesse, con proprio provvedimento motivato, soggetto all’approvazione ministeriale, derogare in aumento al massimale erogato, prefissato dalla legge. Nel motivo di censura, la professionista lamenta un eccesso di potere da parte della cassa, a proprio danno, in quanto questa non avrebbe adottato la facoltà di aumento del massimale, nonostante, sostiene la ricorrente, vi fossero risorse tali a disposizione della cassa, sì da non creare pregiudizio alcuno nelle ulteriori prestazioni assistenziali degli iscritti, né da mettere a rischio gli equilibri finanziari dell’ente. Inoltre, sostiene la professionista, risulterebbero violate anche le norme codicistiche in materia di correttezza e buona fede contrattuale. e il non uso non va motivato. La Suprema Corte non ritiene fondato il motivo proposto. Afferma infatti che il potere derogatorio conferito dalla legge alle singole casse ha natura tipicamente discrezionale, essendo preordinato al contemperamento tra interesse soggettivo della singola iscritta e interesse generale prefissato dalla legge. Trattandosi di potere discrezionale, la cassa è tenuta a motivare l’esercizio del potere di aumento del massimale e non anche il mancato esercizio dello stesso. La mera condotta dell’ente previdenziale di conformazione al massimale di legge non è espressione di esercizio del potere discrezionale. E di conseguenza non possono nemmeno ritenersi violati i principi di correttezza e buona fede invocati dalla ricorrente, poiché la condotta tenuta dalla cassa previdenziale è di applicazione delle norme di legge in materia, senza alcun esercizio di potere discrezionale. Il ricorso proposto è stato così rigettato.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 23 febbraio – 12 maggio 2016, n. 9757 Presidente Napoletano – Relatore Spena Fatto Con ricorso depositato davanti al Tribunale di Genova in data 28.9.2005 il notaio B.R. agiva nei confronti della Cassa Nazionale del Notariato chiedendo accertarsi la illegittimità della liquidazione della indennità di maternità relativa al periodo maggio settembre 2004 in misura di Euro 16.290,56 nette lorde Euro 20.363,20 dichiararsi l’obbligo della cassa di provvedere alla riliquidazione della indennità in rapporto alla capacità reddituale e contributiva della categoria dei notai ed all’importo delle prestazioni erogate, in comparazione con il rapporto contributi/prestazioni delle altre casse dichiarare l’obbligo della cassa di liquidare un importo tale da coprire le spese vive sostenute nel periodo di maternità non inferiore ad Euro 10.663,91 oltre a quanto già corrisposto ed accessori. Esponeva che quanto liquidato dalla Cassa corrispondeva all’importo massimo di cui all’art. 70 comma 3 bis D.Lvo 151/2001 e denunziava l’eccesso di potere della Cassa per il mancato aumento del massimale sotto un duplice profilo Da un lato la inadeguatezza a livello collettivo nell’anno 2004 i contributi incassati superavano di circa il 40% le prestazioni erogate, con un saldo attivo di circa 80milioni di Euro. Dall’altro la inadeguatezza a livello individuale, in quanto la indennità liquidata non copriva neppure le spese fisse sostenute per la attività professionale nel periodo di maternità, con un disavanzo di Euro 10.663,91. Il Tribunale con sentenza del 20.10.2007 nr. 847 rigettava la domanda. Con ricorso del 3.6.2008 il notaio B. proponeva appello censurando le valutazioni del giudice del primo grado resisteva la Cassa, chiedendo il rigetto dell’appello. Con sentenza del 15 gennaio 8 febbraio 2010 la Corte d’Appello di Genova rigettava il gravame. La Corte territoriale rilevava che la Cassa non aveva esercitato la potestà, attribuitale dal comma 3 bis dell’articolo 70 DLvo 151/2000, di elevare il massimale dl legge cinque volte l’importo minimo, pari all’80% dei 5/12 del reddito percepito e denunziato ai fini fiscali nel secondo anno precedente a quello della domanda . Rispetto al mancato esercizio di tale potestà non era individuabile alcuna posizione di obbligo, che sussisteva nel solo caso di positivo esercizio della facoltà il rispetto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e la compatibilità con gli equilibri finanziari . Irrilevante era il richiamo ai canoni di correttezza e buona fede, che comunque non avrebbe legittimato l’esercizio in via sostitutiva del potere discrezionale da parte del giudice. Nel merito, l’ammontare della prestazione era idoneo a tutelare la maternità e l’indennizzo delle spese era estraneo alla fattispecie normativa. Per la Cassazione della sentenza ricorre il notaio B.R. , articolando due motivi. Resiste con controricorso la Associazione Cassa Nazionale del notariato. B.R. ha depositato memoria. Diritto 1. Con il primo motivo la ricorrente denunzia ai sensi dell’art. 360 co. 1 nr. 3 cpc violazione falsa applicazione del comma tre bis dell’articolo 70 D.Lvo 151/2001. Censura il principio, sostenuto dal giudice dell’appello, secondo cui non sarebbe sindacabile da parte dell’iscritto la decisione di non esercitare la facoltà di aumento del massimale della indennità di maternità assume che il mancato esercizio della facoltà sia sindacabile sotto il profilo dell’eccesso di potere. 2. Con il secondo motivo si denunzia ai sensi dell’art. 360 co. 1 nr. 3 cpc violazione e falsa applicazione degli articoli 1175 e 1375 cc La ricorrente deduce che per consolidata giurisprudenza di questa Corte anche gli interessi non tutelati nella forma di diritto soggettivo ricevono protezione in sede civile in caso di violazione delle suddette norme. Nella fattispecie di causa era pacifico che nel bilancio della cassa notarile vi era un avanzo tra entrate ed uscite di oltre 79 milioni di Euro sicché era documentalmente smentito l’assunto dalla Cassa secondo cui l’aumento dell’indennizzo non sarebbe stato compatibile con gli equilibri finanziari dell’ente né coerente con le capacità reddituali della categoria professionale. Gli obblighi di correttezza e buona fede avrebbero imposto al Consiglio di Amministrazione della Cassa di dare conto delle ragioni per le quali l’esercizio della facoltà di elevare il tetto avrebbe messo a rischio gli equilibri finanziari e di spiegare perché, come pure assunto dalla Cassa, sarebbero state erose risorse alle altre prestazioni con conseguente pregiudizio dei diritti previdenziali ed assistenziali degli altri iscritti . La facoltà dl incremento era stata conferita al legislatore proprio con riguardo a quelle casse che per le loro disponibilità economiche potevano incrementare il tetto senza creare alcuna criticità per la posizione degli altri iscritti e gli equilibri economici, situazione sussistente in primis per la Cassa notarile. Il Giudice, pertanto, avrebbe dovuto dichiarare la illegittimità della liquidazione, senza esercitare funzioni di supplenza ma dichiarando l’obbligo della Cassa di riliquidare la indennità in rapporto alla capacità reddituale e contributiva della categoria. I motivi, che devono essere congiuntamente esaminati in quanto connessi, sono infondati. Occorre brevemente premettere che secondo l’originaria formulazione della L. 11 dicembre 1990, n. 379, art. 1 poi riprodotto nel D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, art. 70 veniva riconosciuta alla maternità nelle libere professioni tutela economica tendenzialmente integrale salvo l’abbattimento del reddito in misura del 20% , evidentemente valutando, come è stato già osservato da questa Corte Cassazione civile, sez. lav., 28/10/2010 n. 22023 , che la percentuale di donne esercenti libere professioni fosse esigua rispetto alla platea dei soggetti tenuti al modesto contributo finalizzato all’indennità di maternità. L’articolo 70 del D.Lgs. n. 151 del 2001 T.U. delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità , nel testo anteriore alla novella di cui alla legge nr. 289/2003, stabiliva Infatti 1. Alle libere professioniste iscritte ad una cassa di previdenza ed assistenza di cui alla tabella D allegata al presente testo unico, è corrisposta un’indennità di maternità per i due mesi antecedenti la data del parto e i tre mesi successivi della stessa. 2. L’indennità di cui al comma 1 viene corrisposta in misura pari all’80% di cinque dodicesimi del reddito percepito e denunciato ai fini fiscali dalla libera professionista nel secondo anno precedente a quello della domanda. 3. In ogni caso l’indennità di cui al comma 1, non può essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione calcolata nella misura pari all’80 per cento del salario minimo giornaliero stabilito dal D.L. 29 luglio 1981, n. 402, art. 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 26 settembre 1981, n. 537, e successive modificazioni, nella misura risultante, per la qualifica di impiegato, dalla tabella A e dai successivi decreti ministeriali di cui al comma 2, del medesimo articolo . A tale disciplina la L. 15 ottobre 2003, n. 289, ha apportato alcune modifiche, in particolare, per quanto rileva ai fini di causa, aggiungendo il comma 3 bis, secondo il quale L’indennità di cui al comma 1 non può essere superiore a cinque volte l’importo minimo derivante dell’applicazione del comma 3, ferma restando la potestà di ogni singola cassa di stabilire con delibera del consiglio di amministrazione, soggetta ad approvazione del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, un importo massimo più elevato, tenuto conto delle capacità reddituali e contributive della categoria professionale e della compatibilità con gli equilibri finanziari dell’ente . Con il citato intervento il legislatore ha provveduto a rimodulare la tutela, stabilendone un tetto massimo, seppur elevabile su iniziativa delle singole Casse. Il legislatore quando è cresciuta la presenza e la capacità reddituale delle donne nelle libere professioni con una scelta non Irragionevole e neppure in contrasto con i precetti costituzionali degli articoli 37 e 38 ha ritenuto che il sostegno economico della serenità della donna e della salute della madre e del figlio nel delicato periodo della maternità sia sufficientemente garantito attraverso un trattamento parametrato, nel limite esterno, non già in ragione della diminuzione del reddito o della capacità reddituale della iscritta ovvero delle spese fisse sostenute, ma in relazione in virtù del rinvio al comma tre al minimale di retribuzione ai fini contributivi per i lavoratori dipendenti iscritti alla assicurazione generale obbligatoria. La diversa esigenza di preservare per quanto è più possibile il livello di reddito normalmente prodotto, che originariamente riceveva tutela, residua come possibilità condizionata ad un provvedimento di carattere generale della cassa previdenziale di appartenenza, legittimata a derogare alla previsione di legge, in aumento del massimale. Tale potere derogatorio ha natura tipicamente discrezionale, essendo preordinato al contemperamento tra l’interesse soggettivo della iscritta in maternità e l’interesse generale, come individuato dalla legge stessa, alla tollerabilità della contribuzione a carattere solidaristico ed all’equilibrio finanziario della gestione dell’ente previdenziale. Stante la esistenza del precetto di legge, che determina in maniera obiettiva e con riferimento a parametri esterni e certi l’importo massimo della indennità, non è invece espressione di potere discrezionale la mera condotta della Cassa di conformazione al massimale di legge. La Cassa è pertanto tenuta a motivare l’esercizio del potere discrezionale di aumento del massimale e non anche il mancato esercizio. Pertanto non possono essere utilmente invocate dalla ricorrente le clausole generali della correttezza e della buona fede, che presiedono all’esercizio dei poteri discrezionali di diritto privato ma non vengono in rilievo nella mera condotta di applicazione di norme di legge. Conclusivamente, il ricorso deve essere respinto. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 3.000,00 per compensi professionali oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.