È discriminatorio il licenziamento del lavoratore non vedente quando lo stato di cecità sia la ragione esclusiva del recesso

Il licenziamento intimato al lavoratore non vedente in assenza di alcun accertamento sanitario a norma dell’art. 5 S.L. e sulla base della contestazione che il datore di lavoro ha appreso in ritardo, rispetto all’accertamento, il riconoscimento dello status di invalido civile, da cui discenderebbero, alternativamente le conseguenze dell’occultamento di tale condizioni da parte del dipendente o la sua inidoneità alla mansione, è nullo e non illegittimo, posto che la condizione di cecità del lavoratore costituisce ragione esclusiva del recesso e non mero presupposto di fatto della non proficuità della prestazione lavorativa.

E’ quanto emerso dalla sentenza n. 8248/2016 della Corte di Cassazione, depositata il 26 aprile scorso. Il caso. La Corte d’Appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado che aveva accertato la nullità del licenziamento, in quanto discriminatorio, intimato ad un lavoratore non vedente dichiarava illegittimo, invece che nullo, il licenziamento. La Corte territoriale escludeva la nullità del licenziamento, riconoscendone piuttosto l’illegittimità, per essere la condizione di non vedente del lavoratore non già ragione di discriminazione ma presupposto di fatto del contestato non proficuo svolgimento della prestazione lavorativa, non integrante neppure giusta causa né giustificato motivo soggettivo. Per tale motivo, la Corte d’Appello condannava il datore di lavoro solo a pagare al lavoratore il risarcimento del danno previsto dall’art. 8 Legge n. 604/1966 nella misura massima, no riconoscendo il diritto dello stesso all’applicazione della tutela di cui agli artt. 3 legge n. 198/1990 e 15 S. L Il motivo unico discriminatorio. Nel caso in esame la Corte di Cassazione ha ritenuto che il licenziamento irrogato al lavoratore non vedente, sul mero presupposto del ritardo con cui il datore di lavoro era venuto a conoscenza dello status di invalido civile dello stesso, fosse discriminatorio e dunque nullo e non meramente illegittimo. In particolare, posto che ai sensi dell’art. 3 Legge n. 108/1990, il licenziamento determinato da ragioni discriminatorie connesse all’handicap è nullo indipendentemente dalla motivazione addotta, la Suprema Corte ha rilevato che proprio nella motivazione del licenziamento fosse insita la volontà di discriminazione del lavoratore. Infatti, il datore di lavoro aveva imputato al lavoratore di non aver più reso proficuamente le prestazioni lavorative per cui era stato assunto almeno a far data dal riconoscimento della patologia, attuando artifizi per occultare la propria condizione, addebiti di cui peraltro non aveva fornito alcuna prova. Ma, di più, del tutto apoditticamente il datore di lavoro aveva concluso che, in ogni caso, proprio il riconoscimento dello status di invalido civile rendeva inidoneo il lavoratore alle mansioni dedotte in contratto, senza peraltro aver mai sottoposto il dipendente ad alcun accertamento sanitario. La Corte di Cassazione ha dunque ritenuto che il licenziamento non fosse solo illegittimo in quanto non erano risultate fondate neppure le affermazioni relative alla presunta inidoneità alle mansioni del lavoratore , ma nullo in quanto discriminatorio, essendo motivato esclusivamente dall’handicap del lavoratore. Il metodo sussuntivo. La Suprema Corte afferma il principio secondo cui il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione che può concernere solo una questione di fatto e mai di diritto posta dal giudice a fondamento della decisione per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata. Sicché il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione di fatto incontestata.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 febbraio – 26 aprile 2016, n. 8248 Presidente Venuti – Relatore Patti Fatto La Corte d’appello di L’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado che aveva accertato la nullità del licenziamento intimato il 20 agosto 2007 dall’Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di Teramo nei confronti del proprio dipendente P.A. , in quanto discriminatorio per la sua condizione di non vedente e condannato la prima alla reintegrazione del secondo nel posto di lavoro ed al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di somma pari alle retribuzioni maturate dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, rigettandone tuttavia le domande di qualificazione dirigenziale e risarcitorie per danni biologico, patrimoniale e non, morale e all’immagine , con sentenza 7 maggio 2013, dichiarava il licenziamento illegittimo e condannava la società datrice, al pagamento, in suo favore a titolo risarcitorio, di somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita, oltre rivalutazione ed interessi, rigettando nel resto l’appello principale della datrice ed integralmente quello incidentale del lavoratore e così compensando le spese di entrambi i gradi in misura della metà, con posizione della metà residua a carico dell’Unione soccombente prevalente. A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva, nel preliminare esame del primo profilo di appello incidentale, il riconoscimento della qualifica dirigenziale al lavoratore, per la non provata corrispondenza delle funzioni svolte in difetto delle previste autonomia, discrezionalità e determinazione di indirizzo alla qualifica dirigenziale rivendicata. Quanto al licenziamento, oggetto di appello principale della società datrice, ne negava la nullità, riconoscendone piuttosto l’illegittimità, per essere la condizione di non vedente del lavoratore non già ragione di discriminazione, ma presupposto di fatto del contestato non proficuo svolgimento della prestazione lavorativa, non integrante neppure giusta causa né giustificato motivo soggettivo con la conseguente illegittimità del licenziamento e la coerente tutela obbligatoria, tenuto conto della natura e delle dimensioni della datrice, con liquidazione del danno alla stregua dei criteri indicati dall’art. 8 I. 604/1966 ribadita, infine, la carenza di prova degli ulteriori danni nuovamente domandati dal lavoratore in via di appello incidentale, interamente respinto. Con atto notificato il 4 15 luglio 2013, P.A. ricorre per cassazione con tre motivi, cui resiste l’Unione del Commercio del Turismo e dei Servizi della provincia di Teramo con controricorso entrambe le parti hanno comunicato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c Motivi della decisione Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1 CCNL per i dirigenti di azienda del terziario del 27 maggio 1994, 26 dello Statuto di Confcommercio e vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per erronea esclusione della qualifica di direttore in proprio favore, avendo egli effettivamente svolto le funzioni ad essa corrispondenti, secondo la previsione statutaria ed essendo tale qualifica classificata dirigenziale dalla norma contrattuale collettiva e ciò anche per illogicità e contraddittorietà argomentativa, frutto di una non corretta valutazione probatoria, sulla base delle rappresentate risultanze istruttorie, criticamente illustrate. Con il secondo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 15 l. 300/1970, 3 l. 108/1990 e vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 e n. 5 c.p.c., per il mancato riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento in difetto di prova della non proficuità della prestazione lavorativa, di cui ravvisata la condizione di cecità del lavoratore presupposto di fatto, invece esclusiva ragione del licenziamento. Con il terzo, il ricorrente deduce vizio di motivazione in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., per mancato riconoscimento di danni ulteriori alla professionalità patrimoniale e non, all’immagine, biologico rispetto a quelli risarcibili in conseguenza della illegittimità del licenziamento, denunciati e deducibili, anche in via presuntiva, di cui offerto,idonea prova documentale ed orale. Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1 CCNL per i dirigenti di azienda del terziario del 27 maggio 1994, 26 dello Statuto di Confcommercio e vizio di motivazione, per erronea esclusione della qualifica di direttore in proprio favore, è inammissibile. Il profilo di formale denuncia di violazione di norme di diritto non integra gli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina Cass. 26 giugno 2013, n. 16038 Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010 Cass. 31 maggio 2006, n. 12984 . Più specificamente, l’art. 1 CCNL per i dirigenti di azienda del terziario del 27 maggio 1994 indicato come prodotto sub doc. n. 17 in fascicolo di primo grado e debitamente trascritto a pg. 8 del ricorso l’articolo 1, secondo cui 1. Sono dirigenti a norma dell’art. 2094 c.c., ed agli effetti del presente contratto, coloro che, rispondendo direttamente all’imprenditore o ad altro dirigente a ciò espressamente delegato, svolgono funzioni aziendali di elevato grado di professionalità, con ampia autonomia e discrezionalità e iniziativa e col potere di imprimere direttive a tutta l’impresa o ad una sua parte autonoma. 2. La qualifica di dirigente comporta la partecipazione e la collaborazione, con la responsabilità inerente al proprio ruolo, all’attività diretta a conseguire l’interesse dell’impresa ed il fine della sua utilità sociale. 3. Sono dirigenti, a titolo esemplificativo i direttori i condirettori i vice direttori gli institori, a norma dell’art. 2203 e seguenti del c.c. i procuratori, di cui all’art. 2209 c.c., con stabile mandato ad negotia i capi di importanti servizi e uffici, sempre che le loro funzioni si esercitino nelle condizioni specificate nei commi precedenti . non è stato contestato nella sua interpretazione in diritto. Essa è stata, d’altro canto, corretta nell’individuazione all’ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza delle caratteristiche della qualifica dirigenziale nella preposizione, come alter ego dell’imprenditore, alla direzione dell’intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, con investitura di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità comportati, gli consentano, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell’azienda, assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello Cass. 16 settembre 2015, n. 18165 Cass. 22 dicembre 2006, n. 17464 ovvero nella sufficienza dell’ampia responsabilità demandata, nell’ambito della sua qualificazione professionale, al dipendente che operi con un corrispondente grado di autonomia e responsabilità, con riferimento, in considerazione della complessità della struttura dell’azienda, alla molteplicità delle dinamiche interne e alle diversità delle forme di estrinsecazione della funzione dirigenziale non sempre riassumibili a priori in termini compiuti ed alla contrattazione collettiva di settore Cass. 24 giugno 2009, n. 14835 . Oggetto di effettiva contestazione è stata piuttosto la valutazione probatoria dei poteri di iniziativa e discrezionalità goduti da P.A. ai fini dell’integrazione del suo effettivo esercizio delle mansioni di direttore come esposto ai primi tre capoversi di pg. 4 della sentenza ma ciò integra un accertamento in concreto della sussistenza delle condizioni necessarie per l’inquadramento del funzionario in una o altra categoria, che costituisce apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità soltanto per vizi di motivazione Cass. 22 dicembre 2006, n. 17464 . Ed oggi, neppure più deducibili alla luce dell’attuale testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. di denuncia per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti , applicabile ratione temporis per la pubblicazione della sentenza impugnata in data posteriore 7 maggio 2013 al trentesimo giorno successivo a quella di entrata in vigore della legge 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 12 agosto 2012 , secondo la previsione dell’art. 54, terzo comma del decreto legge citato. Ed infatti, esso introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia con la conseguenza della doverosa indicazione dal ricorrente del fatto storico , il cui esame sia stato omesso, del dato , testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, del come e del quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e della sua decisività fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Sicché, detta riformulazione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053 . Quanto, infine, all’art. 26 dello Statuto di Confcommercio, esso è insindacabile in sede di legittimità quale atto negoziale, in difetto, come appunto nel caso di specie, di deduzione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale violati, ai sensi degli artt. 1362 ss. c.c. Cass. 18 aprile 2008, n. 10218 Cass. 1 novembre 2007, n. 23569 . Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 15 l. 300/1970, 3 l. 108/1990 e vizio di motivazione, per il mancato riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento in difetto di prova della non proficuità della prestazione lavorativa, è invece fondato. Ed infatti, il licenziamento è stato intimato al lavoratore sulla base della contestazione di avere appreso l’ente datore in ritardo, rispetto all’accertamento, il riconoscimento al proprio dipendente dello status di invalido civile, in quanto non vedente. E da ciò la conseguenza tratta, senza disposizione di alcun accertamento sanitario a norma dell’art. 5, ult. comma l. 300/1970, del non avere almeno a far data dal riconoscimento della . patologia, . più reso proficuamente le prestazioni per le quali . assunto e dedotte in contratto, attuando artifizi per occultare tale condizione , con la conclusione apodittica, per cui In ogni caso se è vero che Lei è stato riconosciuto invalido civile in quanto non vedente e che per tale ragione beneficia delle provvidenze di legge, è indubbio come tale condizione La renda inidoneo alle mansioni dedotte in contratto . Il tenore letterale della lettera, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale e secondo quanto invece a suo tempo accertato dal Tribunale, radica il convincimento che proprio la condizione di non vedente del lavoratore sia stata la ragione esclusiva del licenziamento intimatogli tanto più che la stessa Corte aquilana ha contraddittoriamente rilevato che la incapacità a rendere proficuamente la prestazione di lavoro è correlata non ad effettive disfunzioni rilevate nello svolgimento dei compiti di pertinenza del P. , posto che nessun fatto specifico gli viene rimproverato, ma alla sua condizione di invalidità . che non ha impedito però al P. , almeno fino a che è durato il rapporto, di svolgere le sue attività così all’ultimo capoverso di pg. 4 della sentenza . Ed inoltre, neppure è emerso, secondo l’accertamento condotto dalla Corte territoriale, che il predetto facesse lavorare al proprio posto altri impiegati come illustrato al primo capoverso di pg. 5 della sentenza con ciò neppure configurandosi gli artifizi contestati, certamente non integrati da un’omessa rivelazione della propria condizione di handicap visivo, nel perdurante svolgimento della prestazione lavorativa. L’assunto della consistenza dello stato di cecità del lavoratore, non già quale ragione esclusiva del licenziamento, ma quale presupposto di fatto della non proficuità della prestazione lavorativa appare poi smentito dall’accertato difetto di prova al riguardo atteso che l’Unione non ha dato prova del fatto che la condizione di carenza visiva abbia ostacolato la capacità del P. di rendere proficuamente la prestazione, avendo ciò affermato come ipotetica conseguenza della cecità, ma mai provato così in fine del primo periodo di pg. 5 della sentenza . Ed allora appaiono integrate le violazioni di legge denunciate, per la non corretta sussunzione della concreta fattispecie accertata in quella astratta regolata dagli artt. 3 l. 108/1990 e 15 l. 300/1970, in ordine al licenziamento per ragioni di discriminazione da handicap. Ed infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione che può concernere soltanto una questione di fatto e mai di diritto posta dal giudice a fondamento della decisione id est del processo di sussunzione , per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307 Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348 . Sicché, il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata come appunto nel caso di specie, in cui è risultata invece controversa l’applicazione della norma di diritto. A ciò provvederà, in ragione della cassazione della sentenza in relazione al motivo qui scrutinato e per le superiori ragioni accolto, con assorbimento del terzo vizio di motivazione, per mancato riconoscimento di danni ulteriori rispetto a quelli risarcibili in conseguenza della illegittimità del licenziamento , la Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione, in sede di rinvio, che pure provvederà alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo accoglie il secondo, assorbito il terzo cassa la sentenza con rinvio, anche per le spese del giudizio, alla Corte d’appello di L’Aquila, in diversa composizione.