Rito del lavoro: si chieda tutto, subito

Al fine di assicurare il giusto processo e rispettare gli obblighi di correttezza e buona fede, è fatto divieto di frazionare le pretese creditorie riconducibili ad un unico rapporto obbligatorio.

Questo il chiarimento della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 4016/2016, depositata il 1° marzo. Più pretese, più processi meglio evitare. Cessato il rapporto di lavoro, il lavoratore promuoveva nei confronti dell’ ex datore di lavoro un’azione volta alla rideterminazione del TFR, in ragione di alcune voci retributive percepite con continuità. Successivamente a tale azione, il lavoratore promuoveva un ulteriore e diverso giudizio, avente ad oggetto il pagamento di quote premio. Il giudice di primo grado aveva rigettato quest’ultimo ricorso, applicando il principio di divieto del frazionamento del credito. La Corte d’Appello, invece, si era rivelata di avviso contrario, così si giungeva alla Suprema Corte, chiamata a chiarire la portata del divieto di frazionamento del credito. Il divieto di frazionamento. Promuovendo due distinti processi, il lavoratore ha frazionato un suo diritto di credito unitario e, di conseguenza, secondo il datore di lavoro, avrebbe abusato del processo in spregio alla regola generale della correttezza e della buona fede. Il datore di lavoro, infatti, sarebbe stato costretto ad un inutile ed evitabile duplicazione di attività processuale ha dovuto sostenere psicologicamente ed economicamente due procedure, quando ben poteva essere coinvolto solo in una. Il lavoratore, infatti, ha fatto valere con due diversi processi due pretese creditorie, diverse tra loro per titolo, ma comunque entrambe riconducibili ad un unico cessato rapporto giuridico, ossia il rapporto di lavoro. In un’ottica di economia processuale ma non solo , il lavoratore ben poteva chiedere la rideterminazione del TFR e l’erogazione delle quote premio, con un’unica azione ex articolo 414 c.p.c , invece, ha operato su due piani distinti, causando un danno in re ipsa al datore di lavoro. A più riprese la Corte di Cassazione ha dichiarato indebito il frazionamento di pretese creditorie dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio , quale è, nel caso di specie, il cessato rapporto di lavoro. Anzi, nel caso in commento, il collegamento tra le due cause è ancor più evidente esse, infatti, sono state promosse a rapporto concluso, quando il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto di lavoro era ormai chiaro e noto. Pertanto, il lavoratore non aveva nessun motivo di frazionare le proprie pretese in due diverse azioni. Un principio di ampio respiro. L’interpretazione del divieto di frazionamento offerta dalla Corte di Cassazione si fonda anche sul principio del giusto processo sancito dall’articolo 111. Cost., dall’articolo 6 CEDU e dall’art 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. La ratio è impedire che la parte debitrice sia sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un’indebita ed evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio unitario. Oltre a ciò, la Suprema Corte sottolinea come la protezione processuale degli interessi del debitore si ricolleghi anche ai principi di correttezza e buona fede del creditore, conformandosi così alle più ampie esigenze di ordine pubblico, in particolare al sempreverde obiettivo della razionalizzazione del sistema giudiziario. In altri termini, è necessario evitare un contenzioso frammentato e disperso, riconducibile ad un unico rapporto obbligatorio poiché questo causa un dannoso intasamento della giustizia, provoca un danno economico al preteso debitore, sottoponendolo ad attività processuali, quantomeno evitabili e, così facendo, viene violato il principio del giusto processo nonché gli obblighi di correttezza. Nel caso di specie, il frazionamento delle pretese è indebito, poiché certamente evitabile al momento della promozione del secondo ricorso, il ricorrente aveva già esercitato alcuni diritti creditori concernenti l’ammontare del TFR ed era perfettamente in grado di chiedere, in quella stessa sede, anche le c.d. quote premio, senza costringere controparte a sostenere un secondo giudizio, corredato dai relativi costi, di qualsiasi natura essi siano. Il divieto di frazionamento delle pretese creditorie va, quindi, applicato anche al caso di specie cessato il rapporto di lavoro, si chieda tutto, senza inutili spezzettamenti .

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 11 novembre 2015 – 1 marzo 2016, n. 4016 Presidente Roselli – Relatore Berrino Svolgimento del processo P.N. ricorse al giudice del lavoro del Tribunale di Torino per sentir condannare la società G.T.T. s.p.a., alle cui dipendenze aveva lavorato dal 22.9.87 al 31.12.05 in qualità di autista, al pagamento della somma di Euro 868,10, oltre accessori di legge, a titolo di mancata erogazione delle quote del premio di risultato relative ai mesi di febbraio e giugno del 2006. Il giudice adito dichiarò l’improponibilità della domanda in quanto il ricorrente aveva promosso la controversia dopo la proposizione di un’altra causa in cui aveva chiesto la rideterminazione del T.F.R. per l’incidenza di calcolo di alcune voci retributive percepite in via continuativa, per cui aveva finito per frazionare il credito derivante da un unico rapporto di lavoro. A seguito di impugnazione di tale decisione da parte del P. la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 27.4 - 8.6.2010, ha accolto il gravame del lavoratore, condannando la società convenuta al pagamento della predetta somma. La Corte territoriale ha spiegato di non poter condividere il ragionamento seguito dal primo giudice il quale aveva erroneamente applicato il principio del divieto di frazionamento del credito a richieste giudiziali che erano tra loro diverse quanto ai titoli fatti valere, ai regimi applicabili ed ai presupposti giuridici e di fatto sui quali si basavano. Per la cassazione della sentenza propone ricorso il Gruppo Torinese Trasporti - G.T.T. S.p.A. con un solo motivo, illustrato da memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c Resiste con controricorso P.N. . Motivi della decisione Con un solo motivo la società di trasporti torinese denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 2909 cod. civ. ed all’art. 111 della Costituzione facendo rilevare che la Corte di merito non ha tenuto conto del fatto che tanto la domanda precedente, volta alla rideterminazione del trattamento di fine rapporto in virtù di alcune voci retributive percepite in via continuativa, quanto quella oggetto del presente giudizio, concernente la mancata erogazione delle quote del premio di risultato dei mesi di febbraio e giugno del 2006, scaturivano da un unico rapporto di lavoro cessato anteriormente all’attivazione di entrambe le controversie, per cui l’odierno intimato si era trovato sin dall’inizio nelle condizioni di esigere in via unitaria entrambe le pretese di credito. Lamenta, quindi, la ricorrente che l’impugnata decisione ha di fatto reso possibile al P. , il quale aveva abusato del processo, di frazionare giudizialmente il suo credito unitario, il tutto in spregio alla regola generale della correttezza e della buona fede. Il motivo è fondato. Invero, è evidente che un inutile ed evitabile aggravio della posizione dell’odierna ricorrente è in re ipsa , essendo stata la società convenuta in due procedimenti e costretta, quindi, a valutare - anche dal punto di vista legale - la fondatezza di due pretese che, in realtà, facevano capo ad un unico rapporto di lavoro, ormai concluso. Come si è già avuto modo di precisare Cass. sez. lav. n. 11256 del 2013 , i principi enucleati con la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 23726/2007 cfr. anche Cass. n. 28719/2008 e Cass. n. 26961/2009 sono perfettamente applicabili alla fattispecie in quanto i crediti, frazionati con due distinti procedimenti, derivano dal medesimo rapporto di lavoro, come tale fonte unitaria di obblighi e di doveri per le parti. Questa Corte ha, infatti, parlato di indebito frazionamento di pretese dovute in forza di un unico rapporto obbligatorio , circostanza che sussiste anche nel caso di un rapporto di lavoro subordinato, come tale produttivo sia di crediti di natura contrattuale che di natura legale, collegabili unitariamente alla decisione originaria delle parti di stipulare un contratto di natura subordinata ex art. 2094 c.c Questo collegamento appare ancor più stretto nel caso in esame, posto che le due controversie sono state promosse a rapporto concluso, quando cioè il complesso di obbligazioni derivanti dal contratto era ormai noto e consolidato. Ebbene, il principio di diritto affermato dalla cassazione con giurisprudenza ormai consolidata vuole salvaguardare la regola che oggi trova conferma costituzionale nell’art. 111 Cost. di matrice sovranazionale del giusto processo , sancito anche dall’art. 6 C.E.D.U. e dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Tale orientamento giurisprudenziale mira ad impedire che la parte debitrice sia sottoposta ad oneri ed a costi difensivi abnormi attraverso un’indebita ed evitabile parcellizzazione dei crediti che derivano da un rapporto obbligatorio unitario. Peraltro la protezione dell’interesse del debitore ad un comportamento processuale secondo correttezza e buona fede del creditore incontra anche ragioni di interesse pubblico alla razionalizzazione del sistema giudiziario, impedendo il formarsi di un contenzioso frammentato e disperso, ma riconducibile al medesimo rapporto obbligatorio, con il pericolo del formarsi di contrasti tra giudicati. Né può sussistere alcun dubbio nella fattispecie sul fatto che sia i diritti azionati con il primo procedimento che i secondi derivassero dal medesimo rapporto giuridico ex art. 2094 c.c Pertanto, i principi affermati da questa Corte possono perfettamente applicarsi alla fattispecie in esame. Né sussiste alcuna violazione dell’art. 24 Cost., atteso che al momento della promozione del secondo ricorso il ricorrente aveva già esercitato alcuni diritti creditori concernenti l’ammontare del TFR ed era perfettamente in grado di richiedere anche il premio di produzione relativo ad alcuni mesi del rapporto lavorativo ormai cessato, senza costringere il datore di lavoro a vagliare un secondo procedimento con l’inevitabile ed ulteriore ricorso anche alla consulenza ed all’assistenza legale. In definitiva, la predetta giurisprudenza è senz’altro applicabile alla fattispecie e soddisfa importanti esigenze sistematiche di evitare abusi processuali, tra i quali rientra con certezza il frazionamento, privo di ogni giustificazione, di una pretesa creditoria derivante da un rapporto unitario come quello di dipendenza ex art. 2094 c.c. , per giunta dopo la sua conclusione, salvaguardando così il principio costituzionale e sovranazionale del giusto processo . Né va trascurato che alla radice dell’orientamento prima ricordato di questa Corte vi è una ricostruzione costituzionalmente orientata ispirata anche a principi di diritto europeo in senso lato del sistema processuale nel suo insieme, si da impedire effetti paradossali indebitamente vessatori e distruttivi, se diffusi, dell’efficienza del sistema giustizia . Pertanto, il ricorso va accolto e l’impugnata sentenza va cassata. Ciò statuito e non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., col rigetto della domanda proposta da P.N. . Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del controricorrente e vanno liquidate come da dispositivo. Invece, il diverso esito dei due giudizi di merito induce questa Corte a ritenere interamente compensate tra le parti le spese di primo e secondo grado di giudizio. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Condanna il controricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nella misura di Euro 2000,00 per compensi professionali e di Euro 100,00 per esborsi, oltre accessori di legge. Dichiara compensate tra le parti le spese dei due giudizi di merito.